Quid novi?

Letteratura, musica e quello che mi interessa

 

AREA PERSONALE

 

OPERE IN CORSO DI PUBBLICAZIONE

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.
________

I miei box

Piccola biblioteca romanesca (I miei libri in dialetto romanesco)
________

Cento sonetti in vernacolo romanesco (di Augusto Marini)

Centoventi sonetti in dialetto romanesco (di Luigi Ferretti)

De claris mulieribus (di Giovanni Boccaccio)

Il Novellino (di Anonimo)

Il Trecentonovelle (di Franco Sacchetti)

I trovatori (Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847)

Miòdine (di Carlo Alberto Zanazzo)

Palloncini (di Francesco Possenti)

Poesie varie (di Cesare Pascarella, Nino Ilari, Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio)

Romani antichi e Burattini moderni, sonetti romaneschi (di Giggi Pizzirani)

Storia nostra (di Cesare Pascarella)

 

OPERE COMPLETE: PROSA

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.

I primi bolognesi che scrissero versi italiani: memorie storico-letterarie e saggi poetici (di Salvatore Muzzi)

Il Galateo (di Giovanni Della Casa)

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 - Prima edizione 1804 (di Pietro Verri)

Picchiabbò (di Trilussa)

Storia della Colonna Infame (di Alessandro Manzoni)

Vita Nova (di Dante Alighieri)

 

OPERE COMPLETE: POEMI

Il Dittamondo (di Fazio degli Uberti)
Il Dittamondo, Libro Primo

Il Dittamondo, Libro Secondo
Il Dittamondo, Libro Terzo
Il Dittamondo, Libro Quarto
Il Dittamondo, Libro Quinto
Il Dittamondo, Libro Sesto

Il Malmantile racquistato (di Lorenzo Lippi alias Perlone Zipoli)

Il Meo Patacca (di Giuseppe Berneri)

L'arca de Noè (di Antonio Muñoz)

La Scoperta de l'America (di Cesare Pascarella)

La secchia rapita (di Alessandro Tassoni)

Villa Gloria (di Cesare Pascarella)

XIV Leggende della Campagna romana (di Augusto Sindici)

 

OPERE COMPLETE: POESIA

Cliccando sui titoli, si aprirà una finestra contenente il link ai post nei quali l'opera è stata riportata.

Bacco in Toscana (di Francesco Redi)

Cinquanta madrigali inediti del Signor Torquato Tasso alla Granduchessa Bianca Cappello nei Medici (di Torquato Tasso)

La Bella Mano (di Giusto de' Conti)

Poetesse italiane, indici (varie autrici)

Rime di Celio Magno, indice 1 (di Celio Magno)
Rime di Celio Magno, indice 2 (di Celio Magno)

Rime di Cino Rinuccini (di Cino Rinuccini)

Rime di Francesco Berni (di Francesco Berni)

Rime di Giovanni della Casa (di Giovanni della Casa)

Rime di Mariotto Davanzati (di Mariotto Davanzati)

Rime filosofiche e sacre del Signor Giovambatista Ricchieri Patrizio Genovese, fra gli Arcadi Eubeno Buprastio, Genova, Bernardo Tarigo, 1753 (di Giovambattista Ricchieri)

Rime inedite del Cinquecento (di vari autori)
Rime inedite del Cinquecento Indice 2 (di vari autori)

 

POETI ROMANESCHI

C’era una vorta... er brigantaggio (di Vincenzo Galli)

Er Libbro de li sogni (di Giuseppe De Angelis)

Er ratto de le sabbine (di Raffaelle Merolli)

Er maestro de noto (di Cesare Pascarella)

Foji staccati dar vocabbolario di Guido Vieni (di Giuseppe Martellotti)

La duttrinella. Cento sonetti in vernacolo romanesco. Roma, Tipografia Barbèra, 1877 (di Luigi Ferretti)

Li fanatichi p'er gioco der pallone (di Brega - alias Nino Ilari?)

Li promessi sposi. Sestine romanesche (di Ugo Còppari)

Nove Poesie (di Trilussa)

Piazze de Roma indice 1 (di Natale Polci)
Piazze de Roma indice 2 (di Natale Polci)

Poesie romanesche (di Antonio Camilli)

Puncicature ... Sonetti romaneschi (di Mario Ferri)

Quaranta sonetti romaneschi (di Trilussa)

Quo Vadis (di Nino Ilari)

Sonetti Romaneschi (di Benedetto Micheli)

 

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Aprile 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30          
 
 

Messaggi del 06/01/2015

Rime di Celio Magno (33-40)

Post n°995 pubblicato il 06 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

33

Sepolcro del Petrarca in Arquà

Qui pur giace il gran Tosco; a lui t'inchina,
cor mio divoto, e 'l sacro marmo adora;
qui pur chiusa è la spoglia ove dimora
fe' quell'alma, tra noi rara e divina

Villa felice, a cui tal si destina
tesor che sovra ogni città t'onora:
come desta a virtù, come innamora
tua vista, e fa dei cor dolce rapina.

Per questi colli errò, quest'aria intorno
infiammò co' sospir del nobil zelo,
onde cotanta gloria al mondo uscìo.

E quinci, fuor del suo mortal soggiorno
lieto volando, a riveder se n' gio,
ed a goder l'amata donna in cielo.

34

In morte della signor Margherita Martinengo figliuola del signor Conte Marc'Antonio da Villachiara

Qual d'Aletto furor la man che strinse
Margherita a la tua, santo Imeneo,
Armò sì cruda in te? Qual destin reo
te, di viver sì degna, a morte spinse?

Come al ferir giusta pietà non vinse
il ferro istesso, e intenerir nol feo?
Come soffrir quel colpo il ciel poteo,
ch'in terra il fior d'ogni sua grazia estinse?

O d'empia gelosia cieco sospetto,
stimar la fede infida e 'l proprio errore
punir ne l'altrui puro e casto petto!

Ma nostro è 'l danno, e non già tuo: ché fuore
d'affanni, or giunta al vero ben perfetto,
godi l'eterno tuo sposo e fattore.

35

Dal ciel, dove al suo dì prescritto il volo
spiegò da questo uman penoso inferno
la tua dolce sorella, e de l'eterno
suo sposo or gode infra beato stuolo,

così ti prega, pia: - Deh frena il duolo,
ch'offende la mia pace e 'l re superno;
troppo col senso errar lunge io ti scerno
dal vero ben, ch'in Dio riposto è solo.

Per morir nacque il mio corporeo velo,
per viver l'alma al suo fattor unita,
cui teco il cor sacrai con puro zelo.

Così tua via per l'orme sue fornita,
tu ancor la terra cangerai col cielo,
meco rinata in quest'eterna vita. -

36

In morte della clarissimo signor Chiara Bragadino: la quale, per la sua singolar bellezza, era chiamata communemente la dea Venere

- Ahi fato iniquo! Ahi morte empia e rapace
ch'involi al mondo il fior d'ogni bellezza!
Ahi, ché 'l sol d'onestate e gentilezza
in questa invida tomba estinto giace!

Resti pur l'arco qui, resti la face:
ch'ad arder e ferir mia forza avezza
da quel bel volto, ogni altro vanto sprezza;
né vo' né debbo aver col ciel mai pace.

Pianga Adria meco i suoi perduti onori,
e poi mai sempre in questo amaro giorno
rinovi il pianto e 'l caro nome adori. -

Con tai lamenti al mesto sasso intorno
sparse in gran copia Amor lagrime e fiori;
e 'l ciel si fe' di due Veneri adorno.

37

[In morte di Irene di Spilimbergo]

Tra l'altre donne, qual purpurea rosa
tra bianchi gigli e pallide viole,
ed anzi pur, qual tra le stelle il sole,
fu quest'anima eletta e gloriosa.

Fiamma d'amor ne' suoi begli occhi ascosa,
quella, ch'esca divina accender suole,
degn'opre, alti desir, sagge parole
la fer nel mondo a noi mirabil cosa.

Né fior alcun giamai tronco o distrutto
fu per ria sorte in sul suo primo onore
con maggior speme di fecondo frutto;

né sole unqua più chiaro a l'aprir fuore,
sì tosto al fin del suo bel dì condutto,
lasciò più meste e tenebrose l'ore.

38

Ecco di rose, a questa tomba intorno,
aprir, quasi in su' onor, pomposa schiera;
che 'l seno aprendo sembran dir: - Tal era
di colei che qui giace il volto adorno;

e tal ne sentian l'altre invidia e scorno
qual di noi gli altri fiori a primavera.
Cresceale il vanto odor d'onestà vera,
ch'in lei fea con Amor dolce soggiorno.

S'oltra ogni stil fiorisce in noi beltade,
è perché nel terren ch'in sé converse
le belle membra, siam concette e nate;

Ma qui tosto ancor noi cadrem disperse
da l'aspra pioggia, in che l'altrui pietate
ne tien, piangendo, eternamente immerse. -

39

In morte della clarissimo signor Elena Loredana

Sedea morte crudel nel vago volto,
ma quasi di su' error temendo scorno,
lo spirto fea sotto bel ciglio adorno
parer dal corpo in dolce sonno sciolto.

Era Amor con Pietate ivi raccolto,
e come augel che voto al suo ritorno
ritrova il nido, a que' begli occhi intorno
se n' gia piangendo il caro sguardo tolto.

Ma poi che vani i suoi lamenti scorse,
preso in aria 'l camin, con voce mesta
tai detti volto a la compagna porse:

- Io me n' vo dietro a la bell'alma onesta
poggiando al ciel, donde qua giù mi scorse;
tu per me nel suo volto eterna resta. -

40

In morte della clarissimo signor Chiara Capello

Poi che al sepolcro Amor di pianger lasso
fu la nobil sua donna a morte giunta,
prese uno strale e con l'acuta punta
segnò di cotai note il bianco sasso:

- Mai non discese in questo viver basso
alma più bella a più bel corpo aggiunta:
Chiara fu 'l nome, e dal suo fato giunta
fe' rimaner di luce il mondo casso.

Ma s'è chi veder brami il suo bel volto,
miri nel sol, ché di splendor e fiamma
talor fu l'un per l'altro in cambio tolto.

Come i cor poi struggesse a dramma a dramma,
veggal da ciò: ch'ancor chiuso e sepolto,
l'anime fuor dal freddo marmo infiamma. -

 
 
 

L' O di Giotto

Post n°994 pubblicato il 06 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

L' O di Giotto.

Papa Benedetto XI. mandò in Toscana un suo cortigiano a vedere che uomo fosse Giotto e quali fussero l'opere sue, avendo disegnato far in San Pietro alcune pitture. Il quale cortigiano, venendo per veder Giotto, e intendere che altri maestri fussero in Firenze eccellenti nella pittura e nel musaico, parlò in Siena a molti maestri. Poi avuti disegni da loro, venne a Firenze, e andato una mattina in bottega di Giotto che lavorava, gli espose la mente del papa, e in che modo si voleva valere dell' opera sua; ed in ultimo, gli chiese un poco di disegno per mandarlo a Sua Santità. Giotto, che garbatissimo era, prese un foglio, ed in quello, con un pennello tinto di rosso, fermato il braccio al fianco per farne compasso, e girato la mano, fece un tondo sì pari di sesto e di profilo, che fu a vederlo una maraviglia. Ciò fatto, ghignando disse al cortigiano: Eccovi il disegno. Colui, come beffato, disse: Ho io avere altro disegno che questo? Assai e purtroppo è questo; rispose Giotto: mandatelo insieme cogli altri, e vedrete se sarà conosciuto. Il mandato, vedendo non potere altro avere, si partì da lui assai male soddisfatto, dubitando non essere uccellato. Tuttavia, mandando al papa gli altri disegni e i nomi di chi gli aveva fatti, mandò anche quel di Giotto, raccontando il modo che aveva tenuto nel fare il suo tondo, senza muovere il braccio e senza seste. Onde il papa e molti cortigiani intendenti conobbero per ciò quanto Giotto avanzasse d'eccellenza tutti gli altri pittori del suo tempo. Divolgatasi poi questa cosa, ne nacque il proverbio che ancora è in uso dirsi agli uomini di grossa pasta: Tu se' più tondo che l' O di Giotto. Il qual proverbio non solo per lo caso donde nacque si può dir bello, ma molto più per lo suo significato, che consiste nell' ambiguo, pigliandosi tondo in Toscana, oltre alla figura circolare perfetta, per tardità e grossezza d'ingegno.

Tratta da: I prosatori italiani: A selection of extracts from Italian prose writers from the 13th century down to the present time preceded by easy sentences with notes for beginners, Williams and Norgate, 1872 - 415 pagine

 
 
 

Rime di Celio Magno (29-32)

Post n°993 pubblicato il 06 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

29

In morte della clarissimo signor Elena Mazza, madre del clarissimo signor Orsatto Giustiniano

Chi di lagrime un fiume agli occhi presta
e mille lingue, onde si lagni, al core?
Chi segue il mio dolore
a celebrar la nobil donna estinta?
Versi, meco piangendo, eterno umore
il ciel, con faccia nubilosa e mesta;
sia di lugubre vesta
l'aria, l'acqua e la terra intorno cinta;
pianga ogni alma gentil, dal dolor vinta;
in pietà si distilli ogni aspro petto;
piangan le fere ancor, piangano i sassi;
ed ogni stil trapassi
il mondo, in segno dar di tristo affetto:
ché, se di tanto ben morte lo spoglia,
dritt'è che senza fin pianga e si doglia.
Era quella il suo lume, e 'n questa etate
d'antico onor nova Fenice apparse;
ch'in altra mai non arse
di più saggi desir più nobil mente.
Seguian suo volo, in larga schiera sparte,
innanzi iva onestate,
e cortesia, per farle scorta intente;
nel mezzo ella poggiando alteramente
con umiltà compagna ir si vedea,
pien di gioia e splendor l'aere d'intorno.
Indi nel rogo adorno
del cor, dove pensier santi l'accogliea,
ai rai del sommo sole ardendo il velo,
si rinovava ognor più bella al cielo.
Con l'alma, in lei, de la corporea scorza
la grazia tanto e la beltà rilusse,
che qual più chiara fusse,
mentre verdi fur gli anni, in dubbio pose.
Amor suo seggio in lei dal ciel ridusse
con l'arco sol, ch'i cor leggiadri sforza;
e la più nobil forza
del foco suo nel bel volto ripose:
ove fiorian ancor sì fresche rose
nel verno di su' età, ch'in privilegio
lor, del tempo parea ferma la rota.
Ma, qual in parte ignota
ben ricca gemma altrui cela il suo pregio,
o fior ch'alta virtute ha in sé riposta,
visse nel sen di castità nascosta.
In sua virtute e 'n Dio contenta visse,
lunge dal visco mondan che l'alme intrica;
e se provò nemica
fortuna, in vincer lei sue palme accrebbe.
Ma bastò ben che le concesse, amica,
parto gentil, per cui ricca se n' gisse
e gioia ognor sentisse,
quanta forse per figlio altra non ebbe.
Ch'eterno vanto a lui non men si debbe,
di senno e di valor raro e sovrano,
specchio d'ogni real, santo costume.
Da cui splende tal lume
di mente pia, ch'abbaglia ogni occhio umano,
poich'a lei, che 'l creò, l'aspra infelice
morte ancor fe' sembrar dolce e felice.
Premea, d'inferno uscita, orrida peste
del bel sen d'Adria la cittade altera,
spargendo, in vista fera,
a lei dentro e d'intorno, e tosco e morte.
Cadean l'afflitte genti in folta schiera,
fremendo il ciel di pianti e voci meste;
e le bare funeste
porgean spavento ad ogni cor più forte.
Oh quanti, chiuse a la pietà le porte,
fuggian la patria e ciò ch'avean più caro,
giunti fra via dal loro empio destino!
Quanti vide il mattino
salvi, ch'a sera poi l'alma spiraro!
Tutto era strage, e di pallor dipinti,
pareano i vivi, a par de' morti, estinti.
Mentre in sì strana guisa il crudel angue
fa la rabbia sentir del suo veleno,
ecco che 'l casto seno
di lei ch'or piango, ahi duro fato, impiaga.
L'abbandona ciascun, di tema pieno;
sol resta il fido parto ov'egra, esangue,
la genitrice langue;
e di seco morir l'anima ha vaga.
Sol ei, pronto a curar l'orribil piaga,
porge l'invitta man, pietoso e grato,
al dolce petto, onde già 'l latte prese.
Fa quella alte contese,
pregando s'allontani il pegno amato;
l'un di suo ben oprar morte procaccia,
l'altra cui più desia da sé discaccia.
— Deh non voler che ti dian morte, o figlio,
queste poppe — dicea, — che ti nodriro.
Non far doppio il martiro;
che vita avendo tu, nulla m'annoia.
Io più nel tuo che nel mio petto spiro,
e te veggendo almen fuor di periglio,
chiuderò lieta il ciglio;
salva in te la mia speme e la mia gioia.
Là son già corsa ove 'l gir oltra è noia,
e felice per te, mentre al ciel piacque,
vissi; e per tua pietà, felice or moro.
Sol la mia sorte i' ploro
che d'altro morbo il mio mortal non giacque:
ch'in queste braccia, ov'or per te ne temo,
ti darei de' miei baci il pegno estremo. —
Vita ricusa il nobil germe, e molle
il materno rigor col pianto rende.
A prieghi, a forza scende,
sì ch'al fin amor vinto ad amor cede.
Ahi, che tutto a suo scampo invan si spende,
e contra morte ogni riparo è folle!
Ma già non ti si tolle,
del magnanimo cor ch'in te si vede,
raro spirto, d'onor larga mercede.
Fama inalza il Troian perch'ei, dal foco
fuggendo, se n' portò l'antico padre;
tu per salvar la madre
tra le fiamme il perir prendesti in gioco.
Ma fece forza al ciel tanta virtute,
morte cangiando in tua gloria e salute.
E tu che te n' volasti, alma gradita,
da le tenebre nostre al sommo sole,
ch'or visibil si cole
da te, non più tra nebbie in fragil manto;
pregalo umil ch'a la tua dolce prole
tempri l'aspro dolor di tua partita,
e così degna vita
difenda ognor sotto 'l suo scudo santo.
Acciò il valor di lui, ch'in pregio tanto
già s'innalza e fiorisce, a la diletta
patria per lunga età risponda il frutto;
e poscia, in ciel ridutto,
n'abbia il premio divin ch'ivi l'aspetta:
onde ambo, al fin del desir vostro giunti,
pace eterna godiate in un congiunti.
Canzon, su verde riva un sacro tempio
in onor del materno amato nome
erge il pio figlio a chi trovar fu degna
la gloriosa insegna
che di morte per noi le forze ha dome;
colà te n' vola, e ne' bei marmi impressa,
alme sì degne ornando, orna te stessa.

30

In morte di madama Margherita di Francia, madre dell'altezza del signor duca di Savoia vivente, introducendo i suoi popoli a parlare

Mira dal ciel dove beata or vivi,
alma real, del tuo funesto giorno
la mesta pompa al sacro busto intorno,
e de' nostr'occhi i lagrimosi rivi;

mira com'or di te, sua luce, privi,
il tuo gran sposo e 'l tuo bel parto adorno
in tenebre di duol faccian soggiorno,
celebrando tuoi pregi alteri e divi.

tu prega Dio ch'almen, se te piangemo,
a lor, poiché 'l ben nostro in lor si serra,
prolunghi oltra mill'anni il giorno estremo:

perché qual di fortuna ingiuria o guerra
temer si può, s'a nostra guardia avremo
te in ciel co' preghi e lor col senno in terra?

31

Sopra la sceleratezza machinata già molt'anni in Verona contra la persona dell'illustrissimo signor allora vescovo Valiero

Che ponno armi e furor d'uman consigli
se Dio n'ha in guardia? In sacro, occulto loco
scoprio sol egli il cavo ferro e 'l foco
mortali insidie al suo diletto figlio.

Turbò l'Adige l'onde al gran periglio,
ché fu dal crudo fin lontan sì poco
lui salvo, poscia, il duol rivolse in gioco,
qual se da morte a vita aprisse il ciglio.

Ma tu, ch'ignoto a tanto mai t'ingegni,
com'è che 'l tenti? E sì fero desio
contra innocenza in uman petto regni?

O nefand'opra, o secol empio e rio!
Poiché d'uccider tenti i suoi più degni
e cari figli insin nel grembo a Dio.

32

All'illustrissimo e reverendissimo signor Leonardo Mocenico, per la morte del serenissimo principe di Venezia il signor Luigi Mocenico suo zio di felicissima memoria

Giacque il vostro grand'avo, e fu ben dritto
largo pianto versar d'acerba doglia;
ma tempo è omai che 'l fren ragion raccolga,
né varchi il senso oltra 'l camin prescritto.

L'aver perpetua a noi stanza è interditto
dentro a questa mortal, caduca spoglia;
né più bel vanto avien ch'altronde uom coglia
che dal pugnar con rea fortuna invitto.

Chi può morte fuggir? Chi dar col pianto
e co' lamenti al corpo esangue aita?
Perché quel ch'a Dio piacque, aborrir tanto?

Colma d'anni e di pregi al ciel salita
è l'alma, e gode, al suo fattor a canto,
fuor di queste miserie, eterna vita.

 
 
 

Il Dittamondo (4-05)

Post n°992 pubblicato il 06 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO V

Cercato il monte alpestro e romito 
con le mie guide, cosí per quei sassi 
discesi giuso, ond’io era salito. 
E poi ch’al piano con que’ due mi trassi, 
dimandai lor: "Quale è la nostra strada?", 
senza dar posa a’ membri, ch’eran lassi. 
E colui ch’era nosco: "Se vi aggrada 
d’essere in Tracia, questa da sinestra 
tien dritto lá sí come un fil di spada. 
E quest’altra, che ci è da la man destra, 
va in verso Acaia ed è piú presso al mare 
e l’una e l’altra è sicura e maestra". 
"Questa, disse Solin, si convien fare". 
E io a lui: "Poi che far si convene, 
qui non bisogna, omai, di piú pensare". 
Allor si mosse la mia cara spene 
e l’altro e io seguitavamo il passo, 
istretti sempre dietro a le sue rene. 
Io andava col capo un poco basso, 
ascoltando que’ due che dicean cose 
belle e antiche, che a scrivere qui lasso. 
E poi che fin ciascuno al suo dir pose, 
trovammo un fiume, che gran letto stende, 
grave a guadar per le pietre noiose. 
"Solin, diss’io, questo fiume onde scende?" 
Ed ello a me rispuose: "Del monte Ida 
surge una fonte, onde il principio prende. 
A volte, come l’uom la ridda guida, 
passando se ne vien per Macedona, 
in fino che nel mar Egeo s’annida. 
Partus ha nome, del qual si ragiona 
che Io, per li poeti, fu sua figlia, 
per la quale Argus perdeo la persona". 
E io: "Dimmi, il guado ove si piglia?" 
Ed ello a me: "A la nave si varca, 
ch’esser suol presso qui forsi a tre miglia". 
Cosí su per la ripa, che s’inarca, 
andavam ragionando, in fin che noi 
giungemmo ov’era a la piaggia una barca. 
Passati lí, disse ’l nocchier: "Se voi 
ite in Acaia, di salir la collina 
e di tenere ad austro non vi noi". 
Per quella via solinga e pellegrina, 
che ci additò il nocchier, andammo in fine 
che ci vedemmo intorno la marina. 45 
"Qui, disse Solin, sono le confine 
d’Acaia, che da Acheo prese il nome, 
che re ne fu in fino a la sua fine. 
E guarda ch’ella è tutta nel mar, come 
isola fosse, salvo che la terra, 50 
dove noi siamo, la tien per le chiome. 
Ricca è per pace e forte per guerra 
per lo buon sito e per la molta gente 
e perché ’l mar, come vedi, la serra. 
Ma passiam oltra e, andando, poni mente, 55 
perch’è piú ver ciò che l’occhio figura, 
che quel che s’ode o imagina la mente". 
Secondo che mi disse, io ponea cura 
or qua or lá, ciascuna novitade 
addimandando, quando m’era oscura. 60 
Io vidi e fui ne l’antica cittade 
che ’l nome prese dal figliuol d’Oreste 
e dove Polo di fama non cade. 
E vidi Stix che move le rubeste 
e grosse pietre con tanto furore, 65 
che pare, a chi vi passa, che tempeste. 
E vidi dove surge ed esce fore 
Alfeo del nido e come la sua via 
va dritto al mar Cerauno, dove more. 
Vidi Chiarenza e vidi Malvasia 70 
famosa e nominata piú al mondo 
per lo buon vin, che per cosa che sia. 
Cosí, cercando per quadro e per tondo 
questo paese, Inacus trovai 
largo di ripe e cupo nel fondo. 75 
"Da poi, disse Solin, che veduto hai 
questa provincia, è buono d’aver copia 
come confina, ché altrove non l’hai. 
Lo mar Cerauno a levante s’appropia, 
dal mezzodí lo Ionio e da ponente 
l’Africo giunge e l’isola Casopia. 
Ma vienne omai e troviamo altra gente". 
E io: "Va pur, ch’i’ sono a la tua posta 
e ogni indugio è grave a la mia mente". 
Allor si mise propio per la costa, 85 
ché noi venimmo in vèr settentrione, 
lá dov’io dico che la terra è posta. 
A la man destra, senza piú sermone 
andava io diretro a le mie guide, 
in fin che fummo al fiume di Strimone. 90 
"Ecco l’acqua ed il ponte che divide 
– disse Antedamas e fermò il passo –
Macedona da Tracia", come ’l vide. 
"Qui rimango io e qui è ’l vostro passo": 
onde Solin la man li porse allora, 95 
dicendo: "Amico mio, a Dio ti lasso". 
E cosí li feci io e dissi ancora.

 
 
 

Rime di Celio Magno (26-28)

Post n°991 pubblicato il 06 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

26

Vinezia prepara a guerra cento galere in soli otto giorni; e processioni, cessato il bisogno

Vidi questa del mar reina altera
portar di ferro il petto e 'l fianco adorno,
et ad un cenno a' liti errar d'intorno
copia d'armati legni invitta e fera.

Vidi poi dietro a lei divota schiera
di quanti in Adria fan dolce soggiorno
doppiar con sacre faci il lume al giorno,
cinto il cor d'umiltate e fede vera.

Così Giove talor dopo il baleno
e l'alto suon de l'armi sue tremende
empie d'ardenti stelle il ciel sereno.

Quinci il suo gran poter, quinci s'intende
suo santo zelo: e l'uno e l'altro a pieno
pregiata al mondo e cara a Dio la rende.

27

In morte della signor Irene delli signori di Spilimbergo

Giacea presso al suo fin, languida e vinta,
la bella Irene, e sconsolato Amore
morir ne' vaghi lumi anch'ei parea.
d'intorno a lei le Muse egual dolore
scoprian con faccia di pallor dipinta,
per cui rigando il pianto in sen cadea.
E di lor una: — Ahi vergine — dicea,
— degna sol per virtute ardente e chiara,
il numero adeguar di nostra schiera;
qual cruda stella e fera
il commun danno nel tuo mal prepara?
Qual destin vuol che 'n così verde etade,
in sì bel corso di tua gloria manchi?
Or quando fia che 'l mondo si rinfranchi
del mal che sovra lui sì acerbo cade?
Ahi non sia più ch'aggrade
viver qua giù: poiché morte aspra e dura
ogni ornamento, ogni piacer ne fura. —
Ciò detto, ecco che 'l gir più innanzi a l'opra
del suo filo vital prescrive il Fato:
onde la Parca già secarlo intende.
ma, come agricoltor che 'n verde prato
l'adunca e sottil falce in giro adopra,
e de' suoi ricchi onor vedovo il rende,
s'allor che per ferir il braccio stende
fior vede adorno di bellezze nove,
a cui fin su dal ciel Venere aspira,
s'arresta, e mentre il mira,
non usata pietà nel punge e move;
tal essa, per tagliar la mano alzando
quel degno stame e 'l fior d'ogni virtute,
ritarda il colpo; e le non più vedute
grazie in altra giamai fiso mirando,
ed al suo fin pensando,
nel cor sì duro, inespugnabil pria,
sentì pietade entrar per larga via.
Sentilla ancor; previsto il duro caso
con le sorelle, il dì che 'l parto eletto
prima i begli occhi in questa luce aperse;
e de l'orto felice infra 'l diletto
provaro il duol del suo futuro occaso;
or di dolce, or d'amaro i cori asperse.
indi lo spazio a misurar converse
ch'al suo viver segnava il cielo avaro;
s'assiser presso a la gradita cuna.
La conocchia avea l'una
di stame avolta prezioso e raro;
l'altra con la sinistra indi traeva
a parte a parte il ricco vello in giuso,
e con la destra infra le dita il fuso
rotando in presto giro il fil torceva;
la terza in man teneva
per troncarlo al suo segno il ferro crudo,
e far d'ogni bel pregio il mondo nudo.
Queste di sacro spirto accese in vista
nascendo Irene incominciar tal canto
descritto negli eterni alti decreti:
— Oh quanta grazia or dal ciel piove! Oh quanto
oggi per cotal parto il mondo acquista
de' suoi doni più cari e più secreti!
Fronte serena, occhi soavi e lieti,
bocca e guance di rose e chioma d'oro,
e d'ogni parte in lei beltà divina
farà dolce rapina
Di ben mille e mill'alme a gloria loro;
né per altra giamai di più bel laccio
con onestate amor fia giunto insieme,
o ricorrendo a sue forze supreme
renderà stanco in più ferite il braccio.
né fia che 'n foco e 'n ghiaccio
altri più dolcemente si consumi
dinanzi a due più vaghi e chiari lumi.
Per sì leggiadro in lei corporeo velo
trasparerà l'interna alma bellezza,
qual per puro cristallo ardente luce.
Di senno, di valor, di gentilezza
fia chiaro specchio: e nel camin del cielo
caste voglie e sant'opre avrà per duce.
Che più? Quando le fronde altri produce,
questa, come ben culto arbor fecondo,
maturar si vedrà suoi dolci frutti.
Per costei ricondutti
fian d'Aracne e d'Apelle i pregi al mondo;
questa giungendo al dolce canto il suono,
potrà far molle un cor di dura pietra:
ond'una in mille a prova eletta cetra
Febo a lei serba in prezioso dono,
e già sacrati sono
lauri e palme in Parnaso al suo bel nome,
ch' aspettano d'ornarle ancor le chiome.
Cresci dunque a fermar ne' nostri petti
cotanta speme, o fortunata prole,
scopri i novelli rai del volto adorno;
cresci, parto gentil, qual novo sole,
e porta al mondo i suoi veri diletti:
apri a tante sue notti un chiaro giorno.
Già festosa t'annunzia d'ogn'intorno
del tuo bel dì la desiata aurora,
tal che ne rende il ciel puro e sereno
e d'allegrezza pieno:
e già del tuo splendor l'arde e innamora.
Ecco che sparge il tuo lieto oriente
d'incenso e croco e mirra un largo nembo,
e ti dispiega il suo purpureo grembo
ogni rosa, ogni fior vago e ridente;
e salutar si sente
il nascer tuo di sopra gli arboscelli
da ben mille canori e lieti augelli.
Ma perch', ohimè, del ciel contraria voglia
sul più bel folgorar de' raggi tuoi
a duro occaso ti destina e sforza?
Perché del viver tuo l'arbitrio in noi
almen non lascia? Acciò che mai nol toglia
dal suo corso felice etate o forza? —
Così del Fato aprir la chiusa scorza
le sacre dive, e 'l fero altrui palese;
a che poi chiara prova il tempo aggiunse,
finché lo stame giunse
ove l'amica dea la man sospese.
Essa, che 'l tronchin, le sorelle prega,
ma lor trova di sé non men pietose.
tre volte il duro officio il ciel le impose,
tre volte ella prestarlo indugia e nega;
al fin, perché la piega
l'immutabil destin, l'opra recise,
e l'alma dal bel corpo in un divise.
Ahi nemico destin, destin rapace,
destin crudele e rio, poiché sì tosto
di tanto ben ne spogli e di duol gravi!
Dunque a sì degna vita hai pur fin posto?
Dunque il sol di virtute estinto giace,
per cui tu mondo, or cieco, alter andavi?
E voi, già d'amor nido, occhi soavi,
esca gentil di mille fiamme sparte,
morte, ohimè, pur v'ha chiusi in sonno eterno.
Anzi, se 'l ver discerno,
desti or v'aprite in più beata parte:
ivi pur giunti, al fin di vostra spene,
de' rai del sommo sol lieti godete,
e 'n atto d'umiltate a lui rendete
grazie, ché v'alzò tosto a tanto bene.
Nova dea fatta è Irene,
nova Pallade il ciel l'addita e chiama,
e de l'altra non men la pregia ed ama.
Se desio di veder, canzon, ti punge,
qual doglia e pianto a tutto 'l mondo apporte
sì dura, acerba, intempestiva morte,
segui ovunque di lei la fama aggiunge;
ché non fia gente così alpestra e lunge
dal nostro mar che non ne pianga al grido,
né fera in alcun lido
sì cruda a cui pietà nel cor non passi:
e vedrai forse ancor piangerne i sassi.

28

Al clarissimo signor Giorgio Gradenico fu del clarissimo signor Andrea

A che la vostra bella alma sirena,
che 'l cor vi prese col suo dolce canto,
pur chiamate nel mar del vostro pianto
e 'n questa valle di miserie piena?

Ella or suoi giorni in ciel felici mena,
con l'immortal cangiato il fragil manto,
e voi del vostro amor scemate il vanto
cogliendo del suo ben lagrime e pena.

Ben dava indicio in lei divino zelo,
beltà divina a divin senno aggiunta,
ch'era indegna sua stanza il mortal velo.

Né dite: — Irene è tosto al suo fin giunta —;
ch'anzi pur tardi ognor per girne in cielo
da questo incarco vil l'alma è disgiunta.

 
 
 

Il Piacere ed il Dolore

Post n°990 pubblicato il 06 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Piacere ed il Dolore.

Un antichissimo poeta Greco diceva, che il piacere che si trovava al mondo non era il vero piacere, ma il dolore vestito dei suoi panni. Quando fu aperto il vaso che arrecò in terra Pandora, donde uscirono tutti i mali e tutte le miserie umane, ne uscì allora il Piacere, ed andatosene pel mondo incominciò ad allettare gli uomini, in modo che si diedero di tal maniera a seguitarlo, che nessuno ne andava al cielo. Per la qual cosa Giove pensò di levarlo di terra e di ridurlo in cielo, e mandò le nove Muse per lui, le quali colla loro armonia lo attirarono in cielo, facendogli però lasciar prima la sua veste in terra, perchè in cielo non v'ha se non cose pure, e spogliate d'ogni ornamento corruttibile. Il Dolore in questo mentre, essendo discacciato da ognuno, andandosene errando pel mondo trovò questa veste, e pensando che, se egli si vestiva di quella, non sarebbe così scacciato non essendo conosciuto, se la mise addosso, e così sempre dipoi è ito pel mondo vestito dei panni del Piacere, ingannando continuamente gli uomini. Che voleva egli significare per questo? Che tutte le cose, le quali gli uomini pigliano per diletto, arrecano loro dolore. E questo si è, perchè i piaceri del mondo non sono altro che dolori vestiti e ricoperti d'un poco di diletto, dal quale ingannati gli uomini si mettono a cercarli, e nella fine vi trovano poi più dolore che diletto.

Tratto da: I prosatori italiani: A selection of extracts from Italian prose writers from the 13th century down to the present time preceded by easy sentences with notes for beginners

 
 
 

Il Dittamondo (4-04)

Post n°989 pubblicato il 06 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO IV

Sí come mossi un poco innanzi il passo, 
vidi quindici re seguire apresso, 
ciascun, qual fu, regnar nel suo compasso. 
Filippo Arideo quivi era messo 
dinanzi a tutti e l’ultimo poi vidi 5 
Perseo in atto d’uom che piange adesso. 
Lettor, non vo’ che, leggendo, ti fidi 
ch’io divisi le storie tutte a punto 
ne le figure, com’io le providi, 
però che sí mi stringe, a questo punto, 10 
la lunga tema, ch’io fo come ’l sarto, 
che per fretta trapassa spesso il punto. 
Venuto al fin di questo quadro quarto, 
Antedamas domandai se v’era 
che fosse da notare altrove sparto. 15 
Rispuose: "No; ma di questo t’avera: 
che pria che Roma n’avesse il dominio, 
di nove cose assai da notar c’era: 
i’ dico quando Paulo e Muminio 
acquistaro il paese, per che allora 20 
arso e guasto fu ogni bel minio". 
"Indarno omai, diss’io, qui si dimora; 
buono è il partire e ritrovar la via, 
ché c’è del dí ben da sette ore ancora". 
E colui, ch’era in nostra compagnia, 25 
ci disse: "In fine al fiume di Strimone 
con esso voi la mia venuta sia". 
Noi, dopo questo, senza piú sermone, 
indi partimmo e trovammo la strada 
buona e diritta a la mia intenzione. 30 
"A ciò che senza frutto non si vada, 
disse la guida mia, è buon trattare 
alcuna cosa di questa contrada. 
Dico nel tempo, che piú vecchio pare, 
questo paese Emazia si disse 35 
da Emazio, che il prese ad abitare. 
Apresso, Macedonia sí si scrisse 
da Macedo di Deucalion nepote, 
che tenne il regno tanto quanto visse. 
Per queste piagge e pendici remote 40 
a chi sa l’arte e far ne vuol la prova 
oro e argento assai trovar ne puote. 
Qui la pietra peanite non è nova 
e propio in quella parte ov’è la tomba 
di Tiresia molte se ne trova. 45 
Quando ’l torbo aire per gran tron rimbomba, 
e l’acqua versa sí forte e rubesta, 
che sassi per le rive move e spiomba, 
la battaglia crudel ci è manifesta 
dove fun morti li giganti in Flegra, 
perché grandi ossa scopre la tempesta". 
E poi che ’l dí, andando noi, s’annegra, 
Antedamas ad un ostel ci guida, 
dove stemmo la notte tutta integra. 
Ma come il sol sopra ’l cerchio si snida 55 
che si chiama orizzonte, il cammin presi 
con la mia compagnia onesta e fida. 
Forse otto miglia era ito, ch’io compresi 
un monte innanzi a me, ch’era alto tanto, 
che indarno l’occhio a la cima sospesi. 60 
Allor mi volsi dal mio destro canto 
e dimandai Solin: "Che monte è questo, 
che sopra ogni altro si puote dar vanto?" 
Ed esso a me rispuose accorto e presto: 
"Olimpo è detto, lo quale ololampo 65 
interpretato trovi in alcun testo". 
E io a lui: "Di salir suso avampo 
sí per la fama sua, sí per coloro 
che lá su, per veder, giá puosen campo". 
Qui non fun piú parole né dimoro: 70 
le guide mie si misono a salire 
su per lo monte e io apresso loro. 
Lettor, tu dèi pensar che senza ardire, 
senza affanno soffrire l’uom non puote 
fama acquistar né gran cosa fornire. 75 
Io non fui su per quelle vie rimote, 
ch’ogni mio poro si converse in fonte 
e acqua venni dal capo a le piote.9 
Ma poi ch’io fui al sommo del gran monte, 
dove posar credea e prender lena, 80 
io mi sentio gravar gli occhi e la fronte, 
e ’l sangue spaventar per ogni vena, 
tremare il cuore, e venni freddo e smorto 
come chi giunge a l’ultima sua pena. 
Solino allora, sí come uomo accorto, 85 
misemi al naso una bagnata spunga, 
per la qual presi subito conforto: 
"Piú non temer che l’accidente giunga, 
però che qui trovâr questo argomento 
quei buon che veder volsono a la lunga". 90 
Come fuor mi sentio d’ogni spavento, 
con le mie guide e con la spunga al naso 
mi mossi tutto ancor debole e lento. 
Io vidi un fiumicel, che raso raso 
passava per lo monte tanto chiaro, 95 
che mi sovenne di quel di Parnaso. 
Poi un divoto loco mi mostraro 
somigliante a la Verna, ove giá fue 
l’altar di Giove e ’l tempio santo e caro. 
Cosí andando sol con questi due, 100 
Solin mi disse: "Or puoi veder che Omero 
non ignorava il sito di qua sue, 
e che Virgilio ancor ne scrisse il vero: 
vedi i nuvol che cuopron l’altre poggia 
e qui è l’aire chiaro, puro e intero. 105 
Grandine mai non ci cade né pioggia 
e di quattr’ore pria che porti il giorno
il sol fra noi lá giú, qua su s’appoggia".
Cosí cercammo quel monte d’intorno.

 
 
 

Osservazioni sulla tortura 01

Post n°988 pubblicato il 06 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 (Prima edizione 1804)
di Pietro Verri

Capitolo 1
Introduzione

Fra i molti uomini d'ingegno e di cuore, i quali hanno scritto contro la pratica criminale della tortura e contro l'insidioso raggiro de' processi che secretamente si fanno nel carcere, non ve n'è alcuno il quale abbia fatto colpo sull'animo dei giudici; e quindi poco o nessuno effetto hanno essi prodotto. Partono essi per lo più da sublimi principj di legislazione riserbati alla cognizione di alcuni pochi pensatori profondi, e ragionando sorpassano la comune capacità; quindi le menti degli uomini altro non ne concepiscono se non un mormorìo confuso, e se ne sdegnano e rimproverano il genio di novità, la ignoranza della pratica, la vanità di voler fare il bello spirito, onde rifugiandosi alla sempre venerata tradizione de' secoli, anche più fortemente si attaccano ed affezionano alla pratica tramandataci dai maggiori. La verità s'insinua più facilmente quando lo scrittore postosi del pari col suo lettore parte dalle idee comuni, e gradatamente e senza scossa lo fa camminare e innalzarsi a lei, anzi che dall'alto annunziandola con tuoni e lampi, i quali sbigottiscono per un momento, indi lasciano gli uomini perfettamente nello stato di prima.

Sono già più anni, dacché il ribrezzo medesimo che ho per le procedure criminali mi portò a volere esaminate la materia ne' suoi autori, la crudeltà e assurdità de' quali sempre più mi confermò nella opinione di riguardare come una tirannia superflua i tormenti che si danno nel carcere. Allora feci molte annotazioni sul proposito, le quali rimasero oziose. Parimenti già da più anni riflettendo io al fatto, che fece diroccare la casa di un cittadino e piantarvi per pubblico decreto la colonna infame, dubitai da principio se fosse possibile il delitto, per cui vennero condannati molti infelici, indi decisamente fui persuaso essere impossibile e in fisica e in morale che si diano unzioni artefatte maneggevoli impunemente dall'autore, le quali al solo tatto esterno, dopo essere state all'aria aperta sulle pareti delle strade, cagionino la pestilenza, e che possano più uomini collegarsi affine di dare la morte indistintamente a tutta la loro città. Mi venne a caso fra le mani il voluminoso processo manoscritto che riguardava quel fatto, e dall'attenta lettura mi trovo convinto sempre più nella mia opinione. Questo libro è nato dalle osservazioni fatte e sugli autori criminalisti e sul fatto delle unzioni venefiche.

Cerco che il lettore imparziale giudichi se le mie opinioni sieno vere o no. Io mi asterrò dal declamare, almeno me lo propongo; e se la natura mi farà sentir la sua voce talvolta, e la riflessione mia non accorrerà sempre a soffocarla, ne spero perdono: procurerò di reprimerla il più che potrò, giacché non cerco di sedurre né me stesso né il lettore, cerco di camminare placidamente alla verità. Non aspetto gloria alcuna da quest'opera. Ella verte sopra di un fatto ignoto al resto dell'Italia; vi dovrò riferire de' pezzi di processo, e saranno le parole di poveri sgraziati e incolti che non sapevano parlare che il lombardo plebeo; non vi sarà eloquenza o studio di scrivere: cerco unicamente di schiarire un argomento che è importante. Se la ragione farà conoscere che è cosa ingiusta, pericolosissima e crudele l'adoperar le torture, il premio che otterrò mi sarà ben più caro che la gloria di aver fatto un libro, avrò difesa la parte più debole e infelice degli uomini miei fratelli; se non mostrerò chiaramente la barbarie della tortura, quale la sento io, il mio libro sarà da collocarsi fra i moltissimi superflui. In ogni evento, sebbene anche ottenga il mio fine, e che illuminatasi la opinione pubblica venga stabilito un metodo più ragionevole e meno feroce per rintracciare i delitti, allora accaderà del mio libro come dei ponti di legno che si atterrano, innalzata che sia la fabbrica, e come avvenne al sig. marchese Maffei, che distruggendo la scienza cavalleresca e annientandone gli scrittori, annientò pure il suo libro, che ora nessuno più legge perché non esiste l'oggetto per cui era scritto.

La maggior parte de' giudici gradatamente si è incallita agli spasimi delle torture per un principio rispettabile, cioè sacrificando l'orrore dei mali di un uomo solo sospetto reo, in vista del ben generale della intiera società. Coloro che difendono la pratica criminale, lo fanno credendola necessaria alla sicurezza pubblica, e persuasi che qualora si abolisse la severità della tortura sarebbero impuniti i delitti e tolta la strada al giudice di rintracciarli. Io non condanno di vizio chi ragiona così, ma credo che sieno in un errore evidente, e in un errore di cui le conseguenze sono crudeli. Anche i giudici che condannavano ai roghi le streghe e i maghi nel secolo passato, credevano di purgare la terra da' più fieri nemici, eppure immolavano delle vittime al fanatismo e alla pazzia. Furono alcuni benemeriti uomini i quali illuminarono i loro simili, e, scoperta la fallacia che era invalsa ne' secoli precedenti, si astennero da quelle atrocità e un più umano e ragionevole sistema vi fu sostituito. Bramo che con tal esempio nasca almeno la pazienza di esaminar meco se la tortura sia utile e giusta: forse potrò dimostrare che è questa una opinione non più fondata di quello lo fosse la stregheria, sebbene al par di quella abbia per sé la pratica de' tribunali e la veneranda tradizione dell'antichità.

Comincierò dal fatto della colonna infame, poscia passerò a trattare in massima la materia; ma prima conviene dare un'idea della pestilenza che rovinò Milano nel 1630.

 
 
 

Osservazioni sulla tortura, Indice

Post n°987 pubblicato il 06 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 (Prima edizione 1804)
di Pietro Verri

Edizione di riferimento:
Pietro Verri, Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all'occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l'anno 1630 edito da Newton Compton editori Srl - CODICE ISBN: 88-7983-539-4, collana Tascabili Economici Newton.

Capitolo I Introduzione
Capitolo II Idea della pestilenza che devastò Milano nel 1630
Capitolo III Come sia nato il processo contro Guglielmo Piazza commissario di sanità
Capitolo IV Come il commissario Piazza si sia accusato reo delle unzioni pestilenziali, ed abbia accusato Gian-Giacomo Mora
Capitolo V Delle opinioni e metodi della procedura criminale in quella occasione
Capitolo VI Della insidiosa cavillazione che si usò nel processo verso di alcuni infelici
Capitolo VII Come terminasse il processo delle unzioni pestifere
Capitolo VIII Se la tortura sia un tormento atroce
Capitolo IX Se la tortura sia un mezzo per conoscere la verità

Capitoli 10-12
Capitolo X Se le leggi e la pratica criminale riguardino la tortura come un mezzo per avere la verità
Capitolo XI Se la tortura sia un mezzo lecito per iscoprire la verità
Capitolo XII Uso delle antiche nazioni sulla tortura

Capitoli 13-14
Capitolo XIII Come siasi introdotto l'uso di torturare ne' processi criminali
Capitolo XIV Opinione d'alcuni rispettabili scrittori intorno la tortura, ed usi moderni di alcuni stati

Capitoli 15-16
Capitolo XV Alcune obbiezioni che si fanno per sostenere l'uso della tortura
Capitolo XVI Conclusione

 
 
 

E' aritornata la Befana

Post n°986 pubblicato il 06 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

E' aritornata la Befana

Oggi, ch'è aritornata la Befana,
ripenso a quanno ch'ero regazzino:
vedo Piazza Navona, la buriana,
rìsento er concertino fatto co' le trombette
dentro l'orecchio de le regazzette
che a forza de risate e de strilletti
e facenno vedé de scappa via,
pareveno 'no stormo d'ucelletti.
Quanta semplicità! Quanta allegria.
E me rivedo puro que la sera
che nonna me se mise accosto al letto
e, doppo detta assieme la prejera,
me fece un discorsetto.
Dice: - Stanotte ariva la Befana...
Va in giro pe' li tetti
ìnfagottata in una palandrana,
e cià un sacco co' tanti regaletti
pe' le creature bone
pe' vedelle contente,
e un antro co' la cenere e er carbone
pe' quelle più cattive e impertinente.
E gira... gira sempre, poverettal
Se ferma solamente a 'gni cammino
pe' poté mette dentro a la carzetta
quello che ha meritato er regazzìno.
Però, cocco mio bello, t'ho da dì
che la Befana nun finisce qui,
che la Befana nun è mai finita
ma t’accompagnerà tutta la vita,
pronta a premiatte si fai |'azzione bone...
si fai der male pronta gastigatte
portannote la cenere e er carbone.
Senti tu' nonna che te dice questo:
Mantiette sempre onesto...
ricordete che ar monno quer che vale
è fa sempre der bene e mai der male.

So passati tant’anni...
N'ho fatto de cammino su 'sto monno...
da la vita ciò avuto gioie e affanni...
er nipotino è diventato nonno.
Ma la voce de nonna, pora vecchia,
ancora me risona nell'orecchia:
- Ricordete che ar monno quer che vale
è fa sempre der bene e mai der male. -
E mo, come quann'ero regazzino,
me domanno co' un po' de commozione:
- Si metto la carzetta ner cammino
ce trovo più regali... o più carbone?

Checco Durante

 
 
 

Il Dittamondo (4-03)

Post n°985 pubblicato il 06 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO III

Fiso mirava per avere indizio 
se fosse in quella grande e ricca storia 
del magnanimo re alcun suo vizio. 
Ma, poi ch’io vidi ch’alcuna memoria 
di quel non v’era, mi volsi a Solino, 5 
che era il mio consiglio e la mia gloria, 
e dissi lui: "Livio, tu e Giustino 
e molti scrivon che costui fu vinto, 
che vinse il tutto, da ira e da vino. 
E qui non è intagliato né dipinto 
la mortal furia, che si vide in lui 
quando da questi vizi era sospinto". 
Ed ello: "Ciò ch’è scritto, di costui 
fu vero e propio, da sí fatti autori: 
e caro alfin li costò per altrui. 15 
Ma questo uso e natura hanno i signori: 
che vaghi son che si dica e dipinga 
le lor magnificenze e i loro onori. 
Similemente voglion che si stringa 
le labbra a ragionare i lor difetti 20 
e che d’udire e di veder s’infinga. 
Però, se a star con alcun mai ti metti, 
nel tuo parlar di loro abbi riguardo, 
perché i piú troverai pien di sospetti. 
E se vuoi dire che ’l buon re Adoardo 25 
fece del vero pagare il buffone, 
pagatol prima, se parve bugiardo, 
dico che di cotale opinione 
ne troverai men di diece tra cento": 
cosí seguio apresso il suo sermone. 30 
Io era a le figure tutto attento, 
quando l’altro mi disse: "In che t’abbagli? 
Non se’ tu d’esse ben chiaro e contento?" 
Rispuosi: "Sí, ma guardava gl’intagli, 
che son sí belli, che gli archi trionfali, 35 
ch’io vidi a Roma, non par che gli agguagli. 
Poi i porfidi e i marmi naturali 
che in San Lorenzo ha Genova, a la porta, 
sarebbon vili in vèr questi cotali". 
Ed ello a me: "È la tua vista accorta 40 
ch’alcun come topazio il volto ha giallo, 
l’altro ha la carne qual cenere smorta, 
e chi qual rubin rosso over corallo 
e tal par diamante o nera mora, 
qual bianco come perla over cristallo? 45 
Similemente ce ne vedi ancora 
in indaco color tratto a zaffiro 
e tal come smeraldo si colora". 
E io a lui: "Ben veggio chiaro e miro 
che isvariati sono in forma e in visi; 50 
ma la cagion perch’è saper disiro". 
Ed ello: "A ciò che, andando, te ne avisi, 
se cerchi l’universo tutto a tondo, 
è buon che com’è il ver qui ti divisi. 
Qui son le forme d’uomini secondo, 55 
e quelle di animali, com le vide 
costui, che miri qui, che vinse il mondo. 
Poi, come l’occhio tuo cerne e divide, 
di far la storia tanto bella e propia 
da diversi maestri si provide. 60 
Ma muovi i piedi omai, se tu vuoi copia 
di quei che sono nel quarto compasso 
e vedrai signorie cadere inopia. 
Io vidi, come mossi gli occhi e ’l passo, 
que’ re, che funno al grande testamento, 65 
tenere i regni, che nomar qui lasso. 
Li spregionati e ’l lor raunamento, 
superbia, invidia e avarizia 
parean cagion del gran distruggimento. 
Vedeva Olimpia a l’ultima tristizia 70 
forte e viril del cuor; quivi parea 
Cassander d’ira pieno e di nequizia. 
Quivi armato Eumenes vedea 
uscir di Cappadocia e come uccise 
Neoptolemus e i colpi che facea. 75 
Quivi era, apresso, come si divise 
Antigonus di Frigia e sí com’esso 
tradito Eumenes a morte mise. 
Quivi era come Leonato apresso, 
combattendo in contro a quei d’Atena, 80 
fu con la gente sua a morte messo. 
Seguia come fuor di Media mena 
Perdiccas la sua gente e come alfine 
in Egitto si sparse ogni sua vena. 
Seguia l’agguato e ’l bosco e le confine 85 
dove Antipater, morta la madre, 
morto rimase in su le triste spine. 
Vedea come piangea il suo buon padre 
Demetrius, ricordando il valore 
e le battaglie sue forti e leggiadre. 90 
Vedea vecchio morire a gran dolore 
Lisimacus: e questo parea degno, 
tanto crudel mostrava e senza amore. 
Vedea sí come a forza e con ingegno 
Nicanor morto giacea in su la terra 95 
e come Tolomeo si tollea ’l regno. 
Poi vidi scritto: "Dodici anni in guerra 
visse Alessandro e trentadue n’avea, 
quando morte crudel gli occhi suoi serra". 
Poi seguitar, dopo questo, vedea 100 
dico scolpito in lettere grece,
che da Adam fino a lui esser potea
quattro mila anni novecento diece.

 
 
 

Rime di Celio Magno (25)

Post n°984 pubblicato il 06 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

25

Nella vittoria navale contra il signor Turco alli scogli Curzolari l'anno 1571, 7 ottobre

Aprite o Muse i chiusi fonti, aprite!
Non più timor, non più mestizia o cura:
gioia,. gioia versiam fra riso e canto!
Vinto è 'l perfido Trace: i gridi udite
de l'alto gaudio che le menti fura
e soverchio dai cor si stilla in pianto.
O lagrime felici! Or quando tanto.
di ben per mille lustri il ciel n'ha porto
quanto in un punto, o lieto dì, n'adduci?
Chiudami pur le luci
morte, or che tanto don vivendo ho scorto:
ch'ove amica fortuna al colmo siede
de le sue grazie, anzi se stessa avanza,
esser non può 'l morir se non beato.
Ma scorgo io 'l vero? O pur del ben bramato
formo, sognando, al cor falsa sembianza?
Non erro, no: che n'han quest'occhi fede.
O chiara impresa, o gloriose prede!
Cominci omai da questo dì giocondo
più che mai bello a rinovarsi il mondo!
Questo è quel dì che da propizie stelle
con lieto aspetto in ciel n'era promesso,
di Lui che le creò ministre fide;
questo è quel dì ch'in voci illustri e belle
alto spirto divin cantò sì spesso,
mentre l'antica e nova età 'l previde.
Però là, verso l'orto, il sol si vide
dianzi oscurar d'orribil macchie il volto,
e scorrer per lo ciel fiamme e comete.
Ma in queste parti liete,
ove ogni ben fiorir doveva accolto,
produsse in copia a noi, fuor d'ogni stile,
presso al ghiaccio il terren rose e viole;
e s'udir dolci augei di notte, quando
più l'aria tace, a festeggiar cantando,
quasi sorgesse allor da l'onde il sole:
segni che 'l mondo omai, d'oscuro e vile,
a pien farsi dovea vago e gentile,
e che Dio fa predir con note chiare
ne l'opre grandi il ciel, la terra e 'l mare.
Dove l'Ionio mar freme nel seno
che fra l'Istmo e l'Epiro il flutto accoglie,
e di Cefalo il nido intorno bagna,
ecco il Trace spronar suoi legni, pieno
d'immense forze e crude, ingorde voglie:
perché lo stuol fedel vinto rimagna
e serva Italia i propri figli piagna
dati in vittima indegna al falso dio.
Ma Pietro col re Ibero e la reina
d'Adria, cui la divina
grazia a l'empio Ottomano incontra unio,
spinte ver lui l'invitte, armate vele,
fiaccaro i corni a la superba Luna,
e strage fer de la nemica schiera.
Tutto fu 'l mar coperto in vista fera
d'ostil sangue e di corpi: in cui ciascuna
spada stimò pietà l'esser crudele.
Così giacque il nemico empio, infedele:
e vittoria dal ciel con preste penne
a far d'uomini dèi per merto venne.
O di Cristo guerrier feroci, invitti,
che di voi scudo a la sua croce feste
e nel cui degno crin s'orna l'alloro;
ben denno esser a voi gli onori ascritti
di quei che già dal mondo, in mortal veste,
dèi fur creduti a le chiar'opre loro.
Per voi de le virtuti il santo coro
ne la sua dolce libertà respira,
e col torto la fraude e 'l vizio geme;
per voi più non si teme
di barbarico Marte orgoglio ed ira:
sembran giorni le notti, e i foschi giorni
vincono i chiari, e ne' più chiari poi
ogni raggio del sole un sol diventa.
La nostra gioia è un mar ch'invan si tenta
passar, che cela il fondo e i lidi suoi
quanto più vien ch'altri a solcarlo torni;
qual anco è 'l vostro merto, o spirti adorni.
Che nulla esprime il voi chiamar felici,
sendo di tanto ben fonti e radici.
Ma che di voi dir deggio Ercoli eletti,
che sol per nostra universal salute
la morte avete agli onor vostri aggiunta?
Quanto invidio le piaghe a' vostri petti
e 'l sangue sparso! Oh come allor virtute
tinse di dolce ogni più amara punta!
Parmi udir ogni lingua, al suo fin giunta,
spirar tai voci: — E che puoi farmi, o morte,
se mi dai vita, e in te sazia è mia brama?
Chi virtù prezza ed ama,
aver non può dal ciel più rara sorte
che questa vita, sì dubbia e fallace,
ch'a natura, qual sua, render si deve,
a la patria donar diletta e cara;
e cangiar, fuor di sua prigione amara,
con l'immortalità spazio sì breve.
Però non sia chi di lagnarsi audace
mi brami in terra, e turbi in ciel mia pace;
ma sol grazie a Dio renda e, lieto in tutto,
di mia vittoria a sé raccolga il frutto. —
Con questi ultimi accenti usciron l'alme
de' sacri petti, e ne' lor visi estinti
morte ridente allor fu prima vista.
E, novi angioli, a Dio carchi di palme
volar, di compagnia celeste cinti,
risplendendo per l'aria in lunga lista.
Qui dunque a lor, con gioia al canto mista,
ed ostri ed ori e pompe, onor si faccia:
ché morte in lor suoi privilegi perde.
E quei cui l'età verde
gli spirti infiamma e la canuta agghiaccia,
con le vergini pure e caste spose,
celebrin questo giorno; e in lui rinati
l'onorin sempre poi festivo e sacro.
Indi, eretto a la gloria un simulacro,
dal piè si legga: — A quei che 'l Trace, armati,
vinser ne l'onde e fer mirabil cose,
questo invece di tomba il mondo pose. —
Intanto, a Dio porgendo incensi e voti,
così tutti cantiam, lieti e devoti:
— Padre eterno del cielo e de la terra,
d'ogni letizia inessicabil fonte,
ch'or nova manna al tuo popol versasti;
tu del nemico tuo l'orribil guerra
movesti in noi per abbassar la fronte
de' vizi onde i cor nostri eran sì guasti.
Tu poi 'l vincesti, e in Austro allor cangiasti
Borea, che contra noi sue vele empiea,
dando del poter tuo stupendo segno,
e di pietà tal pegno
ch'ogni nostro desir d'assai vincea;
ma proprio è del tu' oprar la meraviglia.
Così tu 'l freno in man, benigno, prendi,
nel bel camin de le future imprese,
che nulla tema avrem d'umane offese;
ed è 'l nostro gioir, se nol difendi,
pianta in steril terren, che mal s'appiglia.
Aprine, Padre, al tuo voler le ciglia:
che veggon, tua mercé, pur giunte l'ore
che fia solo un ovil, solo un pastore.
Canzon, prima Dio loda in umil suono,
poi riverente bacia il piano intorno,
onde surgono al ciel gli alti trofei;
e sacra il cor, la cetra e i versi miei
solo a' lor chiari pregi, a questo giorno,
a le palme ch'ancor per nascer sono.
Che non conviensi a chi cantando ha in dono
dolce fiume gustar d'onor divini,
ch'a ber d'altro liquor le labbra inchini.

 
 
 

La notte de Pasqua Bbefania

La notte de Pasqua Bbefania

"Mamma! mamma!" "Dormite." "Io non ho sonno"
"fate dormì cchi ll'ha, ssor demonietto"
"Mamma, me vojj'arzà" "Ggiù, stamo a lletto"
"Nun ce posso stà ppiù; cqui mme sprofonno"

"Io nun ve vesto" "E io chiamo Nonno"
"Ma nun è ggiorno" " E cche mm'avevio detto
che cciamancava poco? Ebbè? vv'aspetto?"
"Auffa li meloni e nnu li vonno"

"Mamma, guardat'un po' ssi cce se vede?"
"Ma tte dico cch'è nnotte" "Ajo" "Chi è stato?"
"O ddio mio! m'ha ppijjato un granchio a un piede"

"Via state zitto, mò attizzo er lumino"
"Si, eppoi vedete un po' cche mm'ha pportato
la bbefana a la cappa der cammino"

Giuseppe Gioachino Belli

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

ULTIME VISITE AL BLOG

frank67lemiefoto0giorgio.ragazzinilele.lele2008sergintprefazione09Epimenide2bettygamgruntpgmteatrodis_occupati3petula1960mi.da2dony686giovanni.ricciottis.danieles
 
 

ULTIMI POST DEL BLOG NUMQUAM DEFICERE ANIMO

Caricamento...
 

ULTIMI POST DEL BLOG HEART IN A CAGE

Caricamento...
 

ULTIMI POST DEL BLOG IGNORANTE CONSAPEVOLE

Caricamento...
 

CHI PUÒ SCRIVERE SUL BLOG

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963