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Messaggi del 13/01/2015

Il Dittamondo (4-21)

Post n°1047 pubblicato il 13 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO XXI

Ben puoi veder, lettor, se miri e palpi,
come per la Fiandra e Picardia
e per Parigi vegno a le nostre Alpi. 

Noi trovammo Borgogna, in questa via, 
che da’ borghi, che gli Ostrogotti fenno, 5 
Borgogna par che nominata sia. 
E piú novelle udio, che non impenno, 
del valor di Gerardo e di don Chiaro 
e d’Ulivieri la prodezza e ’l senno. 
Questa contrada è forte e fummi caro 10 
di visitare il beato Antonio 
dove, presso a Vienna, fa riparo. 
Molto è il luogo divoto e idonio 
e ’l Santo riverito; e questo è giusto, 
perché, vivendo, giá vinse il demonio. 15 
Acerbo, fiero si truova e robusto 
a chi ’l dispregia e benigno e pietoso 
a qual con fede il prega e con buon gusto. 
Partiti da quel Santo grazioso, 
passai la Sona con la scorta mia; 20 
poi mi trassi in Savoia senza riposo. 
Savoia in lingua nostra salva via 
vuol dire, però che salva la strada 
de l’Alpi, tra la Francia e Lombardia. 
Sicura, forte e buona è la contrada 25 
e la gente piacevole e cortese 
e franca con la lancia e con la spada. 
La guida mia la via diritta prese 
in verso Ciamberieri e poi passai 
* la e piú fiumi del paese. 30 
Nel Delfinato, dopo questo, entrai. 
Questa contrada è molto cara e bella 
e copiosa d’ogni bene assai. 
Ricche cittá e nobili castella 
si trovan sopra il lago di Losanna, 35 
che fa salmoni onde assai sí novella. 
Tra lor cosí per cattivo si danna 
il misero Giovanni lor Delfino, 
che rifiutò l’onor di tanta manna, 
com’è in Inferno papa Celestino, 40 
con dir: "Tal era che ingenerar potea 
signor, ch’a noi sarebbe caro e fino". 
* La ancor giá passato avea
e ’l Rodano, dov’esce fuor del lago, 
e di Provenza lo cammin prendea. 45 
Rodano cerca il bel paese e vago 
tra Gallia e Nerbona e nel mar sale 
sí ruinoso e fier, che pare un drago. 
Noi trovammo un romeo, andando, il quale 
io salutai ne la nostra favella 50 
ed el rispuose a me in provenzale. 
"Amic, fis ieu, sabetz de ren novella?" 
"Oc, respon el, ara la guerra es fort 
ab lo rei d’Aragon e de Castella. 
La terra ont arsa e degasté lo port: 55 
lo papa, o sos legatz, no y vale ren, 
car nus entr’ euz y puet trobar acort". 
"Frere, fis ieu, aquest crei veramen; 
mais tal se pens gazaingnar e jauzir 
que nau vencer porá son paubre sen". 60 
"Ancara oï, quant fui a Vignon, dir 
que l’ rei de Fransa a iuré lo passatge, 
mais pauc lui segront a mon albir. 
Lo reis de Cipre, qu’ es mout pros e satge, 
dedins Vignon a demoré plus jors, 65 
per orde metre e fin a cest vïatge. 
Aquest que monte? car le nostre pastors, 
l’emperador, ni aucun cardenal 
per l’amor Dieu a ce profer son cors". 
"Amic, fis ieu, monter porá gran mal, 70 
si paubremen se vuelha desveillier 
le chien qui dorm dedins son paubr’ estal". 
E lo romeus: "Ar laissam lo pensier 
a cels de Fransa e de Cipre, car crei 
que ben a temps s’en sabront conseillier". 75 
Poi disse: "A dieu siatz"; e mosse i piei. 
E Solin li rispuose: "Va con Dio, 
ché ben sai dir quel che tu vuoi e dèi". 
Cosí andando, la mia guida e io 
passammo Narbo, che parte Narbona 80 
da l’Italia, secondo ch’io udio. 
Gallia bracata per qualche persona 
questa contrada ancor si noma e scrive 
e Provenza anche, in parte, vi si sona. 
Buone cittá e porti per le rive 85 
de la marina sono e ricchi fiumi; 
accortamente e bello vi si vive. 
Lo paese, la gente e lor costumi 
a Italia somiglia e per antico 
di Roma amici i truovo in piú volumi. 90 
In fra l’altre cittá, Marsilia dico 
di quel paese ch’è di maggior loda 
e con gente piú fiera al suo nimico. 
Nizza, Tolon, Fiezur per quella proda 
passai con la mia guida e fui ad Arli, 95 
che de l’antico onor par ch’ancor goda. 
Lá vidi tanti avelli, ch’a guardarli 
un miracol mi parve, e la cagione 
a pena v’è chi ’l vero ben ne parli. 
Noi fummo sopra ’l Rodano a Lione 100 
e veduto Narbona e Monpuslieri; 
poi ci traemmo in verso Vignone,
però che quivi molto avea il pensieri.
 
 
 

Rime di Celio Magno (126-136)

Post n°1046 pubblicato il 13 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

126

Alma, che scendi in noi pura, immortale,
primo pregio del mondo e meraviglia;
luce, il cui raggio al sommo sol simiglia
e di quest'altro a la beltà prevale;

tu, c'hai ministri in questo viver frale
angioli ch'a tua guardia apron le ciglia;
alta cura di Dio, sua dolce figlia,
per cui salvar vestio spoglia mortale;

dunque sì tralignar non ti vergogni
da tanta stirpe e tuo splendor natio?
E stai vilmente in tanti error sepolta?

Deh sorgi omai lasciando l'ombre e i sogni,
ché morte hai presso; e mostra al ciel rivolta
che ti formar le proprie man di Dio.

127

Divino sol di rai pietosi adorno,
fa le tenebre mia chiare e lucenti;
né 'l chiamo mai ne' miei divoti accenti,
che risplender nol veggia a me d'intorno.

Spesso m'adduce a mezza notte il giorno,
rendendo a pieno i miei desir contenti;
spesso nel verno de' miei spiriti algenti
fiorir fa primavera al suo ritorno.

Quanto più chiaro agli occhi miei risplende,
tanto meno gli abbarbaglia; e la sua luce
asconde al sonno sol che l'alma prende.

Anzi allor m'ascond'io; ch'ei sempre luce,
sempre mi desta al ciel dove m'attende;
e se nasce in me frutto, egli il produce.

128

Quest'alma, o re del ciel, questa tua pianta
datami a coltivar nel mio terreno,
ahi, che già 'l suo vigor perde e vien meno,
priva del sol de la tua grazia santa.

Fra nubi atre d'error se stessa ammanta,
sì che raro apre gli occhi al tuo sereno;
e ingrata accoglie il tuo nemico in seno,
ch'i rami e i fior d'ogni bell'opra schianta.

Me n' pento or lasso; e prego umil ti prenda
pietà di lei, che pur tuo germe nacque,
de' suoi falli sgombrando il nembo e 'l gelo.

Ch'io notte e dì l'irrigherò con l'acque
del pianto mio, perch'a te frutto renda
e teco viva poi translata in cielo.

129

S'or lieto più che mai, vago augelletto,
con soave armonia d'ogni usa fora
meco ti desti a salutar l'aurora
che sorge anch'ella in sì ridente aspetto,

ben n'hai cagion: ch'in questo giorno eletto
colui ch'al sole i raggi alluma e indora,
nascendo venne a far tra noi dimora,
cangiato il ciel con vil, povero tetto.

Ma qual anch'io darò di gaudio segno
se l'alto mio dever col tuo misuro,
e 'l caldo affetto onde 'l mio core è pregno?

Nacque sol per pietà del mio già duro
stato; e fe' col morir su l'aspro legno
d'eterna vita il mio sperar securo.

130

Tuonaro i poli, aprissi il cielo e fuore
tra luminosi lampi angel n'uscìo,
che prima lieto nunzio il mondo udio
portar la pace da l'eterno amore.

Fendendo l'aria in giù per lungo errore
scese ove nato il pargoletto Dio
tra la Vergine santa e 'l vecchio pio
cinto giacea di novo, alto splendore.

Baciagli umile i piedi, e 'n mortal velo
riconosce il divin verbo verace,
e 'n lui comprende incomprensibil zelo.

Poi, sé stimando in più mirarlo audace,
alto levossi, e intorno per lo cielo
se n' gio gridando: — Pace, pace, pace! —

131

Vil verme io son per me, vil bocca indegna
di baciar il terren, non che 'l tesoro
di questo legno in cui te, Cristo, adoro,
dolce a me di tua morte, amara insegna.

Dolce: ché di sperar fai l'alma degna
eterno seggio infra 'l tuo santo coro;
amara: ché 'l martir lamento e ploro
che per mia colpa in queste piaghe regna.

Ma qual mi sia, Signor, tu mi creasti
a tua sembianza; e 'n corpo uman scendendo
la mia bassezza a la tua gloria alzasti.

Ben infinito il mio fallir comprendo,
ma nulla al sangue che per me versasti,
e figlio fral pietoso padre offrendo.

132

Quel, che di stelle il ciel, di pesci l'acque,
l'aria d'augei, di fior la terra, empio,
Fattor del tutto, uom vero e vero Dio,
sol per noi morto, in questa tomba giacque.

Aver qui fine a l'Infinito piacque
per infinito error, ch'in sé punio;
troppo aspro a sua bontà, troppo a noi pio;
e quinci sol per noi sorto rinacque.

Che non pur fe' lo spirto in noi beato,
ma, seco unita, ancor l'umana salma
alzò da morte ad immortale stato.

Qui, dopo giusta croce, o miser'alma,
te non men chiudi; e, spento il tuo peccato,
risorger spera a gloriosa palma.

133

A questa tua, Signor, sacrata mensa
d'ogni merto io digiun con umil mente
vengo per ristorar mia fame ardente
del pan celeste che 'l tuo amor dispensa.

Dove s'al fallir suo l'anima pensa,
si sfida in tutto e sol morte ha presente;
ma tosto avviva sue speranze spente
rivolta al sol di tua pietate immensa.

Dunque assicura il cor; felice fammi
d'aver te stesso in cibo; entra cortese,
o re del ciel, nel mio povero tetto.

Degna sempre albergarvi, e in grazia dammi
che quel ch'io miro or qui velato aspetto,
dopo 'l mio fine in ciel veggia palese.

134

Ramo infelice er'io che dal nativo
tronco, per cruda man, langue reciso,
mentre m'avean, Signor, da te diviso
mie gravi colpe, e di tua grazia privo.

Or che pentito un lagrimoso rivo
spargo umile a' tuoi piè chinando il viso,
son a te ricongiunto; e in paradiso
volto 'l mio inferno, in te rinasco e vivo.

Amor sovra ogni amor benigno e pio;
poter che tutto può; bontà infinita,
Dio ne l'uom trasformarsi e l'uomo in Dio.

Ma perch'io duri tal, tu stesso aita,
Signor, mi presta; e sia tosto il fin mio:
ch'un'ora toglie spesso eterna vita.

135

Mentr'io m'ergo a seguir con pura fede
l'orme del mio Signor, ch'a sé m'invita,
tu, pia madre di lui, porgimi aita
e rinfranca al camin l'infermo piede.

Fa che sia la mia voce, allor che chiede
grazia al tuo figlio, per tua bocca udita:
che preghiera mortal via più gradita
per te se n' passa ad impetrar mercede.

Per te discese in terra il re del cielo
nostre macchie a lavar col proprio sangue;
e per te dritto è ben ch'altri a lui saglia.

Speri certa salute alma che langue
sotto il favor del tuo pietoso zelo:
ch'altro merto non è ch'in Dio più vaglia.

136

Morte questa non è che 'l corpo frale
rende a natura e di miseria scioglie;
morte è quell'altra sol, ch'a l'alma toglie
goder di vita in ciel vera, immortale.

Ahi, che di questa breve aura vitale
sol di pianto e dolor frutto si coglie,
e dietro a prave e temerarie voglie
lungi dal proprio ben si spiegan l'ale.

Ma qual tien Dio per guida alma gradita,
sicura d'ogni mal che 'l mondo apporte
qui vive, e poi beata in ciel salita.

O cieca dunque e lagrimabil sorte
di chi gioir potendo in doppia vita
elegge anzi perir di doppia morte.

 
 
 

Ancora sul galateo

Post n°1045 pubblicato il 13 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Ancora sul galateo

Il quizzone di cui al precedente post costituiva soltanto il "gran finale" di una serie di lezioni di bonton tenute da una simpatica e gentile ragazza su un blog amico. Esaminiamo alcune regole basilari di tali lezioni, a partire dal come apparecchiare la tavola.
Il piatto piano va posto immediatamente davanti al commensale e deve essere realizzato con materiale non troppo friabile, né troppo resistente. Un materiale troppo friabile difficilmente è in grado di resistere agli urti, mentre un materiale troppo resistente rischia di accoppare il vicino in testa al quale, a scopo di divertimento, lo spaccherai in testa. Si comprende facilmente che, in caso di decesso del commensale finitimo, il divertimento viene a cessare quasi immediatamente.
Il coltello va posto alla destra del piatto, con la lama rivolta verso di esso. Appare evidente che, in tale posizione, esso difficlmente potrà essere adoperato a mo' di balestra per lanciare in faccia ai commensali palline di pane, noccioli di olive, avanzi di granchio e quant'altro. Naturalmente voi, senza farvi punto vedere, provvederete a girare la lama al fine di adoperare il coltello nella maniera più acconcia, appunto a mo' di balestra.
Il cucchiaio va posto vicino al coltello. Esso deve essere non troppo concavo, allo scopo di evitare il fastidioso effetto gong troppo marcato, allorché percuoterete con esso la testa del vicino.
La forchetta, alloggiata dalla parte opposta alle altre posate (si chiamano così proprio perché esse devono restare posate sul tavolo e non essere adoperate dagli altri commensali nel modo da voi usato), deve essere munita di dentini abbastanza sottili da permettere un agevole scaccolamento delle unghie.
Le posate per frutta e dolce vanno poste tra il piatto ed i bicchieri, ma sorvoleremo sull'argomento in quanto le ridotte dimensioni non assicurano un adeguato divertimento, perché cagionano minor dolore alla vittima dei nostri scherzi. Quanto alle posate da pesce, esse formeranno oggeto di altra lezione.
Il bicchiere per l'acqua va posto, davanti al piatto, sul lato destro e non deve mai essere riempito per oltre la metà. Voi naturalmente, per schizzare gli altri, vi servirete della brocca o di una bottiglia di minerale gassata, adeguatamente agitata prima di procedere all'annaffiamento.
Il bicchiere per il vino deve essere di capacità inferiore a quello per l'acqua e deve tassativamente essere riempito per meno della metà della sua capacità, allo scopo di evitare che i commensali vi fottano tutto il vino. Voi, ovviamente, userete il baloon riempito fino all'orlo alla facciaccia zozza loro.
Il così detto piatto fondo merita un discorso più articolato, in relazione alle pietanze che vengono servite. In caso di un piatto "asciutto" (lasagne, cannelloni, pasta al forno, riso e pasta al sugo od in bianco in generale) esso verrà adoperato in stile disco volante, badando di centrare esattamente la crapa della vittima di turno. Se il piatto è realizzato in materiale resistente, con un po' di allenamento sarà possibile adoperarlo in guisa di boomerang. In tal modo sarà possibile colpire -a differenza che con il piatto piano- anche i commensali più lontani e la loro eventuale uccisione non pregiudica perciò il perdurare del vostro divertimento. Ovviamente, non disponendo più del piatto fondo del quale servirvi, voi vi tufferete sul piatto da portata, fottendovi tutto il suo contenuto.
Totalmente differente è l'uso del piatto fondo in caso di pietanza liquida (brodo, ad esempio). Tralasciando il caso particolare costituito dai tortellini (soltanto in tale eccezionale evenienza è consentito usare il cucchiaio, tenuto con entrambe le mani poste ai lati opposti dell'attrezzo, per meglio lanciarli all'indirizzo dei commensali: una sorta di balestra, in buona sostanza. Tanto, sempre direttamente dal piatto di portata vi ingozzerete), esso va afferrato ai lati opposti (i famosi "lati del cerchio") con entrambe le mani e portato alla bocca con un colpo solo, senza troppo inchinare il busto in avanti. I più funambolici saranno in grado di ingozzarsi del brodo a garganella, ma per eseguire tale operazione è necessario un lungo tirocinio. Tassativamente, in ogni caso, è prescritto un fragorosissimo e schifosissimo clangore di risucchio mentre si trangugia il brodo, sbavandosi come porci ed asciugandosi le fauci sul vestito buono del vostro vicino. Qualora il brodo caldo vi provocasse abbondante smocciolamento, badate bene, al fine di asciugare le vostre nari, di usare la gonna di una vostra vicina a condizione che l'indumento non sia plissettato o munito di materiali che possano provocarvi irritazioni o arrossamenti del nasino. Qualora le commensali non disponessero di gonne perfettamente lisce, siete autorizzati a prenderle a sberle, inveendo contro di loro con i peggiori epiteti, smocciolandovi sui loro capelli per detergervi.
Rammentate sempre la seguente regola aurea. Dacché il brodo caldo fa gocciolare il naso, costituisce grave indice di maleducazione il così detto "tirare su". Onde evitare incresciose situazioni che vi provocherebbero grave imbarazzo (rammentate che il vostro piatto ... è sotto il vostro naso!), imparate a protendervi repentinamente, alla bisogna, sul piatto del vicino, indi potrete ivi far gocciolare senza remore tutto il vostro putrido materiale di risulta.
Regola aurea numero due: imparate a praticare la tolleranza. Qualora il vicino dovesse, per avventura, dare in escandescenze ed iniziare a sbraitare, in luogo di spaccargli la faccia con un papagno che ne vale due, rivolgetegli un radioso sorriso di scherno che lo farà incazzare oltre ogni limite.
La brocca dovrà avere una imboccatura non eccessivamente ampia, altrimenti sarebbe troppo facile centrare il buco schitazzandoci dentro.
Il vino dovrà essere servito dalla bottiglia originale (che, una volta svuotata, potrà essere fracassata sui crani altrui) ovvero dall'apposito decanter. In tale seconda ipotesi, se siete ospiti in casa altrui, avrete l'accortezza di afferrarlo con le mani accuratamente intrise a bella posta in maionese, grassi ed oli, caccole di naso e mocciolo, catarro e qualunque schifezza vi salti in mente, onde impedire ai commensali di farne uso, sicché potrette fottervi tutto il vino e, una volta ubriachi come cocozze, prorompere in fragorosi rutti capaci di fracassare vetri e suppellettili. Il fracassamento del decanter (solitamente in vetro sottile) contro gli specchi costituisce la ciliegina sulla torta del divertimento. Qualora siate voi ad ospitare aspiranti digiunatori (che abbiano, beninteso, preventivamente pagato il conto di importo pari al vostro approvvigionamento mensile: a cranio, ovviamente), con sardonico ghigno di scherno accamperete la puerile scusa della fragilità del decanter, tale da non poter essere posto nelle mani di ospiti talmente deficienti da pagare un conto salatissimo per non mangiare e bere una mazza.
Termina così la nostra prima lezione di galateo a tavola.

 
 
 

Abbadece!

Post n°1044 pubblicato il 13 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Abbadece!

Só annato stammatina in Tribbunale,
appresso me só vvisto co' 'n cliente,
inzomma, nun ho ccombinato ggnente
che possa famme dì: "'Sta vita vale".

Vabbè, t'ho scritto puro quarche ccosa,
ma che vvôr dì? Nun è che ccambia mórto,
er tempo resta sempre troppo corto
e l'anima te resta sempre anziosa.

Rilassete, Righé, penzace meno,
nun te cruccià, si tutto stà a annà mmale,
armeno così ssenti ner tuo seno.

Piuttosto, abbada a coccolatte, cribbio!,
l'amore tuo, che de la vita è 'r zale,
così potrai stà ssempre in equilibbrio.

Valerio Sampieri
13 gennaio 2015

 
 
 

Il Dittamondo (4-20)

Post n°1043 pubblicato il 13 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUARTO

CAPITOLO XX

Da Parigi partiti, com’io dico, 
ragionando m’andava la mia scorta 
or del tempo moderno, or de l’antico. 
E sí come persona tutta accorta, 
prese lo suo cammino in vèr Campagna, 5 
per quella via che li parea men corta. 
Marno fiume la contrada bagna; 
bello il paese e la gente v’è buona, 
cortese altrui e volentier guadagna. 
Noi fummo a Rems, del quale si ragiona 10 
c’ha questa dignitá: che ciascun re 
di Francia quivi prende la corona. 
Solin si volse, andando, e fermò il piè, 
dicendo: "Vienne piú al par con meco, 
ché l’udir men t’annoi e ’l dire a me". 
E poi ch’io fui, come volse, seco, 
"Una gente son, disse, i Galli e i Franchi 
e galla è tanto a dir qual latte in greco. 
E perché son piú qui, ch’altrove, bianchi 
uomini e donne, per certo ti svelo 20 
dal bianco latte il nome par che branchi. 
Per le grandi Alpi e coperte di gelo, 
ch’al caldo sole temperanza dànno, 
che non gli accende, e col rigor del cielo, 
i corpi loro piú candidi stanno 25 
che in altra parte; e son robusti e duri, 
grandi e forti, e in arme onor si fanno. 
Ma perché truovi i vocaboli oscuri 
d’Orosio e di piú molti in questa parte, 
vo’ che ne noti alcun de’ me’ maturi. 30 
In Francia piú province sono sparte: 
l’una Gallia Belgica s’intende, 
che da Belgo cittá lo nome parte: 
la Fiandra tutta e Picardia comprende; 
l’altra Gallia Senonese si scrive, 35 
che qui in Campagna e ’n Borgogna discende. 
La Ludonese Gallia per le rive 
d’Alverna passa e per le sue radice, 
ben ch’ora cotal nome poco vive. 
Per le Alpi d’Italia e sue pendice 40 
anticamente Gallia Transalpina 
e Cisalpina truovi che si dice: 
però che quando venne la ruina 
in Italia di Brenno, del lor nome 
nominâr Gallia Liguria e Flamina. 45 
Piú ne son molte, che ’l dove né ’l come 
qui notar non ti voglio, perché troppo, 
a tanto dir, potrei gravar le some". 
E io a lui: "Disciolto m’hai sí il groppo 
’n questa parte, che con gli occhi del core 50 
diritto veggio ov’io mirava zoppo". 
Cosí andando e ragionando, fore 
uscimmo di Campagna a passo a passo 
per quel cammin che ne parea migliore. 
Noi fummo in molte parti, che qui lasso 55 
a ricordar, però che lá non vidi 
novitá degna da fermarvi il passo. 
"O luce mia, poi che per questi nidi, 
diss’io, da notar cosa non dicerno, 
fa che per altri luoghi tu mi guidi". 60 
Per che mi trasse allora in Alverno: 
e ciò per amor d’Ugo assai m’aggrada, 
ch’andò per messo di Carlo in Inferno. 
Silvestra e montuosa è la contrada 
e abondevol di bestiame assai 65 
e in molte parti di vino e di biada. 
La piú nobil cittá, ch’io vi trovai, 
Monclaro la si noma nel paese; 
la gente é buona per tutto onde vai. 
Apresso questo, la sua strada prese 70 
per diversi sentier la scorta mia 
e in Andegavia, andando, si discese. 
Qui si confina con Equitania, 
qui trovai Andegavia, una cittade 
che ’l nome a la contrada par che dia. 75 
Quivi è la gente bella e con bontade; 
buono è il paese e, in parte, molto acquoso, 
abondevol di vino in piú contrade. 
Cosí, cercando senza alcun riposo, 
aggirammo la Francia or su or giue, 80 
per sentir ciò che v’era piú nascoso. 
Vidi in Peitieu la tomba di que’ due 
che s’amâr tanto, che si può dir certo 
che l’una Tisbe, l’altro Piram fue. 
Dolce mi fu il loro amor coverto, 
quando lo ’ntesi, e l’andare e ’l venire 
del cagnuol, ch’era tanto accorto e sperto. 
Ma poi che i sospir venni a udire 
del gran lamento e la pietosa morte
che ciascun fece, qui non saprei dire 90
quanto mi dolse de’ due amanti forte.
 
 
 

Rime di Celio Magno (110-125)

Post n°1042 pubblicato il 13 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

110

Mentr'ebbi in verd'età fervido il sangue
m'ardesti, Amor, d'inestinguibil foco:
mi fu dolce il tuo strazio, il pianger gioco,
e del duol cara insegna il volto essangue.

Or che 'l vigor in me per gli anni langue
dar più non posso a' tuoi tormenti loco:
ché martir tanto con piacer sì poco
m'è qual tra vaghi fior mortifer'angue.

Già lode o scusa almen furo i tuoi strali:
or biasmo e colpa; onde con debil forza
quando è lo scampo in mio poter m'assali.

Or che più tardo? E chi più l'alma sforza?
spiega, Amor, spiega pure altrove l'ali:
ché vergogna e ragion tue fiamme ammorza.

111

Dominava secondo gli astrologi in quell'anno della sua vita il pianeta di Venere, calcolando dal giorno della sua natività, che fu alli 12 di maggio 1536

Già non usato ardor nel freddo petto
sento, e cangiate in me voglie e desiri;
già fra novi d'amor caldi sospiri
mi trovo in dolce e degno laccio stretto.

Tu che dal ciel con sì benigno aspetto,
Venere bella, in me le luci or giri,
tu la tua forza dentro al cor m'inspiri,
vinto ogni mio rigor col tuo diletto.

Cedo, e seguo ove chiami; e se la strada
piana e lieta esser dee, qual sembra in vista,
libertà spregio, e servitù m'aggrada.

Ma s'aspra fosse ancor, nulla m'attrista:
ch'ovunque o buona o ria la sorte cada,
sempre in nobil amor gloria s'acquista.

112

Primo

Senza core io vivea: ch'ei dal mio petto
fuggitivo s'ascose in quel bel volto,
onde poi non curò poco né molto
far più ritorno al suo natio ricetto.

Or de l'alma mia dea cortese affetto
del suo cor mi fa dono, il mio raccolto;
e mentre l'un m'è dato e l'altro tolto,
provo con doppio onor doppio diletto:

ché 'l mio, non pur di far con lei soggiorno
ma d'aver anco il suo nel proprio nido,
tal acquista tesor ch'ogni altro avanza;

né certo il suo trovar seggio più fido
potea, né 'l mio tra quanto scopre il giorno
più dolce, cara e preziosa stanza.

113

Secondo

Vive in me 'l cor de la mia nobil diva
e m'empie il sen di meraviglie nove:
ch'in altr'uom mi trasforma e m'alza dove
aspirar il pensiero a pena ardiva.

Di morto ch'era in me l'ingegno avviva,
l'ale gli presta e versa il ciel le move:
e tal virtù da la sua grazia piove
che mia vita e mia gloria indi deriva.

Gli anni verdi mi rende; anzi un momento
di quei ch'or provo è via più dolce e caro
che quante età mai visse altri contento.

Son d'amante felice essempio raro,
e dal piacer che per tal sorte io sento,
qual sia del ciel la gioia, in terra imparo.

114

Scrivea madonna, e 'l nudo alato arciero
l'era presso cantando: — Oh qual fa scorno
a l'inchiostro e candor del foglio adorno
de' tuoi begli occhi il dolce bianco e 'l nero!

Ma perché sì gli tien bassi il pensiero?
Alzagli e rendi a me più chiaro il giorno. —
ella il prega che taccia; ed ei ritorno
fa pur al canto, e noia il core altero.

D'ira l'accende al fin; poi chiede pace:
— Fecil — dicendo, — acciò del tuo bel viso
il novo ardor s'aggiunga a la mia face.

Ché 'l tuo sdegno non men che 'l gioco e 'l riso
è pien di grazia; e tutto infiamma e piace
ovunque il guardo in tua bellezza affiso. —

115

Da duo begli occhi al sol di luce eguali
e ch'aprir senza lui potriano il giorno,
ove han Bellezza ed Onestà soggiorno,
esce Amor, a ferir destro, in su l'ali.

Tende egli l'arco; dan quelle gli strali
ch'aguzzan pria sul vivo marmo adorno
del casto seno; e van porgendo intorno
piaghe più ch'altre mai dolci e vitali.

Se troppo audaci i cor Bellezza rende,
gli spaventa Onestate; e dal suo gelo
cresce la fiamma e via più chiara splende.

Ch'a l'angelico volto, al santo zelo
il più nobil d'Amor foco s'accende,
né il mondo invidia i suoi tesori al cielo.

116

O del mio nobil foco alta mercede,
gioisco amando; e del mio verno il gelo
cangio in sì dolce ardor, che 'l bianco pelo
de' più lieti e verd'anni il pregio eccede.

Onde in segno immortal de la mia fede,
donna, e del vostro in me pietoso zelo,
ben deggio alzar con le mie rime al cielo
le grazie che sì largo ei vi concede.

Ché farà il sol di vostre luci sante
sorger l'ingegno e la virtù smarrita,
perch'io felice ognor sospiri e cante:

Così voi me ne la mia età fiorita
tornar potrete; io, rinovato amante,
a voi darò cantando eterna vita.

117

Ardo amante felice, e del mio foco
nessun altro saria più dolce e caro
se nol temprasse il reo sospetto amaro,
che là 've regna Amor mai sempre ha loco.

L'infinito mio ben mi sembra poco,
e provo notte in mezzo 'l dì più chiaro,
via più ricco d'ogni altro e via più avaro,
tra soave d'Amor penoso gioco.

E benché splenda a me pietate e fede
dal mio bel sole, il cor se n' va dubbioso
di quel ch'ei pur comprende e l'occhio vede:

ch'un tesor così raro e prezioso
ben dee far il pensier di chi 'l possede
senza fin lieto, e senza fin geloso.

118

O, bench'ingiusto, a me dolce lamento
che per voi leve ardor mi scaldi il petto!
Chiaro indicio è d'amor timido affetto,
e in ciò 'l cor vostro e la mia gloria i' sento.

Ma se regnar dè 'l vero, il falso spento,
chi più vive ad Amor di me soggetto?
Chi da man più cortese avinto e stretto
per più rara bellezza arde contento?

Dir ch'avete in quest'alma il primo loco
e ch'altro ben che voi qua giù non curo,
de l'interna mia fiamma è nulla o poco;

come dir ch'io non v'ami è via più duro
e contra il ver che chiamar freddo il foco,
il mar secco, il ciel fermo e 'l sole oscuro.

119

Austro, s'ascondi in ciel del sol la luce
e turbi l'aria e 'l mar, nulla mi dole;
ma il tormi i rai del mio più chiaro sole
via più grave tempesta a l'alma adduce.

Stillata han gli occhi in pianto omai lor luce,
e col ciel pace o tregua il cor non vole;
ché sì lungo digiun soffrir non suole
la brama ch'a morir, lasso, il conduce.

Deh lascia ch'al bel lume ond'arso fue
vicin gir possa, e poi raddoppia il vento
e Nettun cresca l'ira a l'onde sue:

ché sarà 'l fremer suo dolce concento,
porto il mar fero; e d'atre nubi tue
pioggia allor verseran di puro argento.

120

Doppia bellezza in voi, doppio in me foco
rendon voi gloriosa e me felice:
ambo con luce in voi rara e beatrice,
quasi duo soli in novo cielo, han loco.

L'una, primo d'Amor diletto e gioco,
orna il bel corpo, e i cor dai petti elice;
l'altra ne l'alma ha con virtù radice
tal, che ogni altero vanto al merto è poco.

Prende e dà l'una a l'altra e forza e lume,
raddoppiando ad Amor l'arco e gli strali
con piaghe dolci oltr'ogni uman costume.

E tante oprando meraviglie e tali
due celesti bellezze in un sol nume,
fan doppio paradiso infra mortali.

121

Quand'ergo al ciel le tante grazie ond'io
ardo felice e la mia dea risplende,
modesta ella il ver nega, e insieme rende
maggior la sua bellezza e 'l foco mio.

Ch'ove pur del bel volto il tempo rio
furi alcun pregio, Amor nulla s'offende,
tant'altro ampio tesoro in lei comprende
che fa beato a pien l'occhio e 'l desio.

E se sue doti eccelse e pellegrine
si fan per gli anni a par di sé men belle,
a par de l'altre son rare e divine.

Ché non ponno oscurar l'ore rubelle
celeste lume: e benché 'l sol decline,
vince un sol raggio suo tutte le stelle.

122

Se 'l tempo, o mio bel sol, ch'io v'ho presente
misuro, e quel che ne son lungi e privo,
in molte notti ad un sol giorno arrivo,
poche ore lieto e mille anni dolente.

Felice a voi vicin, misero assente;
morto son senza voi, con voi son vivo:
ma il duol è un mar, la gioia un picciol rivo
che sete accresce a la mia voglia ardente.

Ahi, che del mio tesor troppo m'invola
fortuna avara; e quest'umana vita
troppo senza spronarla al suo fin vola.

Ma se al corpo è la via tronca e impedita,
fia l'alma a voi, sua luce amata e sola,
col desir sempre e col pensiero unita.

123

Primo

Qual pianger più debb'io? La rotta fede
e 'l torto di colei che tanto amai,
o pur il mio fallir mentre sperai
da sì perfido cor grata mercede?

Ahi, che per l'erba con mal cauto piede
senza timor d'occulto serpe andai;
e dond'io vita aver credea, trovai
morte che di miseria ogni altra eccede.

Godi felice tu, furtivo amante,
mentre spira al tuo legno aura seconda,
ricco de le mie spoglie e trionfante;

ma tosto e tu vedrai quanta s'asconda
in donna fraude, e ch'è via più costante
al vento foglia o in mar commosso l'onda.

124

Secondo

Errai, m'accuso: falso, empio sospetto
fe' torto al ver; pentito, il cor se n' dole.
nero il bianco stimai, tenebre il sole,
e pien di frode amor puro e perfetto.

Trafisser l'innocente e nobil petto
le scelerate mie stolte parole;
e 'l bel volto che vita a me dar suole
bagnò di pianto giusta ira e dispetto.

O gelosia, d'Amor perversa figlia!
O di dolce radice amara pianta!
Misero chi a le tue vane ombre s'appiglia.

Ma tu prego, mia dea, perdona tanta
colpa e serena le turbate ciglia:
ch'ov'è più error, più la pietà si vanta.

125

O vago tanto e lusinghiero in vista,
fior cui natura par ch'in tutto arrida,
ma con l'esterno bel che 'l guardo affida
d'aspro veleno occulta frode hai mista;

quanto imparo da te: ch'è mal avista
alma che 'l suo giudicio agli occhi fida;
poich'in terren piacer, pianto s'annida,
e d'incauto fallir, morte s'acquista.

Né men tua corta vita essempio adduce
come tra 'l vaneggiar de' sensi frali
s'estingua, ohimè, questa sì breve luce.

Fugga il cor dunque i dilettosi mali:
e dietro al raggio ch'or dal ciel mi luce,
al vero eterno ben spieghi omai l'ali.

 
 
 

Tra le dita

Post n°1041 pubblicato il 13 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Tra le dita

Me sento che la vita me stà a esprode,
vojo recuperà 'sto tempo perso,
godemme 'r celo quann'è llinno e tterso,
senza che ce stà ggnente che mme rode.

Che campi a ffà, quanno sei solo e ttriste?
Ar monno gnente vale 'n ber soriso.
La luce che tte rasserena 'r viso
è la più mmejo tra le cose viste

in tera, in mare, in celo, in ogni ddove,
ortre, naturarmente, a ffà l'amore:
su cquesto 'n ce só' ddubbi, nun ce piove!

Si la tristezza vô' sciupà la vita,
soridi, parla e ripulisci 'r côre,
così tte la ritrovi tra le dita.

Valerio Sampieri
12 gennaio 2015

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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