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Messaggi del 19/01/2015

Il Dittamondo (5-08)

Post n°1091 pubblicato il 19 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO VIII

Assai puoi esser chiar com’io son giunto,
lettore, da Tingitana a Cartago
lungo il Mediterran, di punto in punto. 

E perché ’l mio parlar ti sia piú vago, 
ciò che Solin mi disse ti vo’ dire, 5 
che era il mio consiglio e ’l mio appago. 
Io ’l dimandai, per volere udire, 
che mi partisse l’Africa in quel modo 
che me’ potesse, al suo parer, partire. 
La sua risposta fu: "Per quel ch’io odo, 10 
de l’abitato il nome saper vuoi 
e ’l dove e quai vi son di maggior lodo. 
Io ti dirò, e tu lo nota poi, 
come abitata giá la terra vidi: 
non so se in altro modo è mossa ancoi. 15 
L’Africa tutta per lungo dividi 
in tre parti, da levante a ponente, 
però che cosí fatta la providi. 
L’una è quella, e con più nobile gente, 
che sta in sul mare e che la terra fende, 20 
che vede Europa e che talor la sente. 
Tingi, i Mauri e Numidia comprende; 
Cartago, dico, dove tu se’ stato, 
Tripoli e le due Sirti vi s’intende. 
Truovasi ancora, pur da questo lato, 25 
Pentapoli Cirena e Libia apresso, 
che giunge al Nilo, ove Egitto è segnato. 
L’altra confina lungo questa adesso, 
la qual tra Astrix e ’l Nilo passa e schincia, 
sí come il fiume torto e dritto è messo. 30 
Di vèr ponente Gaulea s’incomincia; 
segue Getulia e gran terren s’appropia; 
Garama, poi, ch’è una gran provincia. 
La terza, apresso, è tutta l’Etiopia, 
fra ’l Nilo e l’Ocean, dal mezzogiorno: 35 
e qui di gente si trova gran copia. 
Molte contrade hanno poi d’intorno 
queste province, ch’io non t’ho contato, 
le quai vedrai, se vi farem soggiorno". 
E io a lui: "Se bene il tuo dir guato, 40 
cosí divide queste genti il Nille, 
come il Danubio e ’l Ren dal nostro lato". 
"Tu dici ver, diss’el, ma le faville 
del sol distruggon piú di qua la terra, 
che tra noi il freddo, ond’han men genti e ville". 45 
Cosí passando noi di serra in serra, 
giungemmo nel paese di Bisanzi, 
che da levante a Tripoli s’afferra. 
Io vidi, ricercando quelle stanzi, 
un animal che mi fu maraviglia 50 
veder le gambe e ’l suo collo dinanzi: 
tanto l’ha lunghe, che aggiunge e piglia 
da lontano una cosa diece braccia; 
poi dietro bassa e ’l contrario somiglia. 
Men che cammello ha la testa e la faccia; 
tra quelle genti giraffa si chiama; 
d’erbe si pasce, ché bestia non caccia. 
"Solin, diss’io, di vedere avea brama 
questo animale e parmi scontrafatto 
assai via piú che non porta la fama". 60 
Ed ello a me: "Non ti paia gran fatto, 
che, prima ch’eschi d’Africa, vedremo 
di piú maravigliosi in ciascun atto. 
E sappi che ’l paese, ove ora semo, 
dal mezzodí ha gran monti e foresti 65 
con sí fieri animai, ch’andarvi temo". 
E io a lui: "Fuggiam le lor tempesti; 
di quel che v’è è buon che mi ragioni, 
sí che mi torni onde tu mi traesti". 
La natura mi disse de’ leoni: 70 
come, poi che son nati, mostran morti, 
né odon mugli né per l’aire troni; 
ancor, cacciati, quanto sono accorti, 
ché lena e unghie risparmiar si sanno: 
ricuopron l’orme e stan sicuri e forti; 75 
poi la clemenza e la pietá ch’egli hanno 
in verso l’uomo e quel ch’Assidio scrive 
e come a l’ira con la coda vanno. 
Piú ch’altro il fuoco par che tema e schive; 
li denti prima provano il difetto 80 
quando in fine a la vecchiezza vive. 
E, apresso che m’ebbe cosí detto, 
aggiunse: "Guarda per lo nostro mare: 
vedi Cicilia, ché l’hai dirimpetto". 
Noi andavam diritto, per trovare 85 
Tripolitana, ch’a le sue confine 
con le Sirti maggior veder mi pare. 
Ma prima che di ciò fossimo a fine, 
vidi Biserti, Susa e Quartara 
con molte terre che li son vicine, 90 
dove gran gente e ricca ripara.
 
 
 

Er pandemogno

Post n°1090 pubblicato il 19 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Er pandemogno

Ma come se po' ffà a ccapì 'r perché
capita spesso che nun ce se 'ntenne?
Quanno succede, è quasi come svénne
li sogni bbelli fatti 'nzieme a tte.

Te pare che pe' ssolo 'na parola
succede tutto 'sto gran pandemogno?
È come si tu prenni 'n patrimogno,
je metti l'ali e ddichi: "Adesso vola!".

Magara nun capisce e vvia nun córe,
ma, co' li sentimenti, nun è uguale
e è 'n gran crimine si soffri per amore.

L'amore forte chiede granne affetto;
te pô renne 'n leone, tale e cquale:
trattelo male e ammazzi 'n ber pupetto.

Valerio Sampieri
19 gennaio 2015

 
 
 

Rime di Celio Magno (251-263)

Post n°1089 pubblicato il 19 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

251

Eco de' miei sospir, campagna antica,
fioriti colli e solitarie valli,
rapido fiume, lucidi cristalli,
superbe sponde, piaggia lieta aprica;

e tu, più ch'altra, a' miei desiri amica,
pianta felice, ove amorosi balli,
tra bella schiera e fior vermigli e gialli,
suole guidar la dolce mia nemica;

io pur vi lascio, e mesto e sconsolato
rivolgo i passi là dove non spero
trovar chi più mi dia gioia e diletto.

Voi con colei ch'è 'l vostro onor perfetto
restate, e col mio cor e col pensiero;
ahi maligna mia stella e duro fato!

252

Questo, ch'in spessa pioggia umor converso
dal ciel sì largo e sì continuo scende,
di quel ben vera sembianza a me rende
che fuor per gli occhi indegnamente io verso.

Questo si cria se in ciel vento perverso
folte ed oscure nubi aduna e stende;
quel nasce perché 'l cor m'aggrava e prende
con folto duol vento di sdegno averso.

Ma poco andrà, che fia questo risolto
e in un momento scoprirassi il cielo,
mostrando il sol più che mai chiaro il volto;

quel dura eterno e chiuso in mesto velo
ho 'l cor; né spero unque a pietà rivolto
veder lasso il mio sol per caldo o gelo.

253

In lode di Aranscuez, giardino del re catolico Filippo Secondo

Oh che leggiadro, o che felice e vero
paradiso terrestre, e de le Muse
via più ch'ogni altra propria, amica stanza!
Oh come, ovunque va l'occhio e 'l pensiero
d'ogni grazia che 'l ciel benigno infuse
nel suo signor, si scorge egual sembianza!
Questo real giardin, sì come avanza
di pregio qual nel mondo oggi è più adorno,
di lungo giro ancor tutt'altri eccede:
ché mal può franco piede,
desto col sol, fornir sua strada e 'l giorno.
E perché sete in lui giamai non regni,
ministra il ricco Tago e 'l bel Gerama
onde perpetue al fortunato albergo.
Così 'l suo possessor si lascia a tergo
qualunque altro la croce adora ed ama
di larghi intorno e spaziosi regni,
d'ogni favor del ciel fecondi e pregni;
e con la mente in Dio sempre conversa,
un fiume d'or raccoglie ed altro versa.
Ornan ricco palagio in ogni parte
liete stanze, alte torri e fresche logge,
u' fugge un rio con strepitosi passi.
Qui fonti e statue con mirabil arte
stillan di terra al ciel sorgenti piogge,
e par che sian rissolti in acqua i sassi.
Qui lieta accoglie, ed altrui guida fassi,
con Vertunno ad ognor Pomona e Flora
per le delizie del beato loco;
dove allegrezza e gioco
tra le Grazie ed Amor sempre dimora.
Mill'ombre, mille vie d'alto diletto,
mille giardini entr'un giardin ridutti,
d'arbori cinti e di frondose mura,
mostran quanti ha tesori arte e natura
e quanti il mondo fior, foglie, erbe e frutti.
Tal il re, d'ogni gloria albergo eletto
e vivo fonte di saper perfetto,
quant'egli impera, con mirabil norma,
fa colto e vago, e di se stesso informa.
Miro construtti poi di fronde e fiori,
o d'alte piante in bel cerchio disposte,
quinci e quindi teatri adorni e lieti,
da cui varie ampie strade escono fuori,
per lunghissimo corso agli occhi esposte
d'elci, d'olmi, di pin, d'orni e d'abeti.
Né so ben di qual pria la brama acqueti,
ch'ognuna a sé m'adesca, a sé m'invita
con sua fresc'ombra incontr'al sol ardente.
Tal si mostra egualmente
in tutte sue virtù l'alma gradita;
che ciascuna di lor per ogni lato
da pia religion, ch'a Dio sì aggrada,
quasi da centro suo nasce e dipende;
e vaga ognuna i cori alletta e prende
a varcar di sue lodi immensa strada,
che fa con sua dolc'ombra altrui beato.
Quinci, dovunque Febo il carro aurato
guida, il gran re se n' va famoso e chiaro;
e vive, in terra e 'n ciel, pregiato e caro.
Per chiusi boschi e per aperti campi
vaghe fere d'intorno in largo stuolo
dietro a fertili paschi errando vanno;
né vien ch'alcuna mai paventi o scampi
per vista umana, o senta ingiuria e duolo:
ch'in pace eterna aventurose stanno.
Né men felici altrui diletto danno
soavi filomene e vaghi augelli
che spiegan gli occhi d'Argo in ampio giro;
e quanti uman desiro
può mirar o sentir canori e belli.
Han dolce vita ancor per stagni e laghi
candidi cigni e pesci, in folte schiere
correndo al cibo ch'altrui man lor porge.
In tale stato i suoi popoli scorge
quel saggio spirto: e sante leggi intere
vietan ch'ingiusta man gli turbi o impiaghi.
Onde d'oneste brame in tutto paghi,
regnando pace e libertà fra loro,
godon beati un novo secol d'oro.
Così voi con distorte erranti vie
a cui di ben oprar non giova o cale.
Giusto supplicio; e indarno arte o pietate
spera per indi uscir d'Icaro l'ale.
Fate accorto ancor me, che nulla vale
mio ingegno e stil per giunger l'alte lodi,
dentr'a cui senza fin m'aggiro e intrico
se non m'aita, amico,
Febo, e discioglie a la mia lingua i nodi.
Che, come un sol di tanti e sì bei fregi
ch'in mille guise qui veste il terreno,
il guardo altrui non già la voglia stanca,
così cresce il desire e 'l poter manca,
vinto da un raggio sol del sol sereno
che splende a me per tanti lumi e pregi.
L'un de' giardini onor, l'alto de' regi,
questi e quei d'ogni ben ricco e fecondo,
ambo qua giù lucenti occhi del mondo.
E qual già di pittor celebre mano
da varî corpi in queste parti e 'n quelle
per farne un solo ogni beltà raccolse,
tal non lasciò contrada o monte o piano
che cose avesse in sé più rare e belle;
e fino agl'Indi estremi il piè rivolse
natura ed arte, allor che formar volse
il bel soggiorno, in cui qual di più stima
al mondo era vaghezza, unita apparse;
e questa e quella alzarse
vide del poter proprio oltra la cima.
L'una e l'altra con studio ancor simìle,
perché al loco il signor conforme fusse,
in ornar lui tutte sue forze espose:
che da quante fur mai chiare e famose
alme reali, in lui sol si ridusse
tutto il buon, tutto il bel, tutto il gentile.
Queste due meraviglie, oltr'ogni stile
rare per sé, che fian s'altri le mesce?
E la gloria de l'una a l'altra accresce?
Ma tu, saggio signor, perché sì rado
loco sì bel di tua vista rallegri?
E più spesso tua luce altrove mostri?
In qual altro ti deve esser più a grado
cercar ristoro a' pensier lassi ed egri
ch'in questo, alto stupor de' giorni nostri?
Benché né questo né tutt'altri chiostri
nati a diporto, in tuo piacer frequenti;
ch'anzi allor vivi in più fatiche involto,
e, l'ozio in cure volto,
null'ora pigra o vacua andar consenti.
Che tu sai ben quanto altrui prema il peso
di legno ch'a sua guardia si commetta
perché salvo da l'onde il guidi in porto.
Così dal ciel con larga man sia porto
al tuo desir quel che bramoso aspetta,
e 'l bel giardin, col suo favor, difeso;
talch'ei più vago e lieto ognor sia reso,
e tu, di ricche palme e d'anni carco,
abbi dal mondo a Dio felice il varco.
Canzon, col fral mi parto e 'l cor qui lasso;
e te scuso non men, che m'abbandoni
restando in questo nido almo e felice.
Tu, se poco di lui per te si dice,
prega che 'l fallo al buon voler perdoni,
che fu di brama pien, di forze casso.
Pregane anco il gran re: che 'l tuo stil basso
dagli alti pregi suoi troppo declina;
ed a' suoi piedi, umìl, per me t'inchina.

254

Se di quest'occhi inferma
e debil sento la virtù visiva,
altronde non deriva,
certo, che dal mirar continuo e fiso
del mio bel sole il viso.

255

Prendi, cruda mia Flora,
questa candida rosa;
e se pur crudeltate
di ciò ti rende ancora,
lasso, schiva e ritrosa,
pensa che tua beltate,
onde sì altera vai,
sparir tosto vedrai,
come 'l vivo colore
in questo vago fiore.

256

Se qualunque ti mira
con tua vaghezza e tuoi novi colori
di te, rosa, innamori;
ciò Natura da te non move e spira;
tal virtù co' begli occhi a te concesse
e ne le foglie tue mirando impresse
la gentil donna mia,
che per farmi felice a te m'invia.

257

Se nel giardin de la mia dolce Flora
nascon rose sì belle
che di grazia e color perdon con elle
le adorne guance de la bella Aurora,
quinci tal pregio in lor nasce e deriva;
che mentre le vagheggia e studia e cole
la pastorella che del cor mi priva,
nel formarle, Natura
dal suo bel volto il vivo essempio fura.

258

Amor, se tanto puoi
quanto ogni un crede e stima;
se non consenti e vuoi
che 'l torto nel tuo regno
ragion vinca ed opprima;
s'in nobil atto e degno
chiaro onor ti diletta;
fa di questa crudel per me vendetta.

259

Come in fecondo prato
ricca ghirlanda a la sua chioma bella
tesse de' più bei fior vaga donzella;
così d'Adria nel sen, nido beato
de le Grazie e d'Amore,
nobil opra del ciel, del mondo onore,
virtù raccolse, e 'n gentil nodo strinse,
fiorito stuol de' suoi più degni amanti,
in seguir lei Constanti;
e de' lor chiari pregi il crin si cinse:
ond'or tanto più splende,
e l'alma e i cor di sua bellezza accende.

260

Vaga e candida luna,
secondo occhio del cielo,
degna sorella del signor di Delo;
qual meraviglia fia
che quanto di bellezza in te s'aduna
perda al bel volto de la donna mia?
S'ella dispiega al vento
chiome d'or, tu d'argento?
Ma, se per altro ancor seco contendi,
giudice Febo, al suo parer ne prendi:
che te non sol men bella,
ma, se la lingua al ver non fia rubella,
dirà ch'ove arde più di raggi cinto,
dal lume anch'ei di que' begli occhi è vinto.

261

Ben promettesti, Amore,
fin di sue pene al core
allor che venne a me da quel bel viso
con un sguardo sereno un dolce riso.
Ma perché indugia il frutto
dal fior de la tua spene in me produtto?
ché non pieghi madonna a' desir miei,
chiara palma giungendo a' tuoi trofei?
Dunque al vento se n' vanno
le tue promesse, e 'n lor s'asconde inganno?
O pur non puote in lei
lo stral con cui tu vinci uomini e dèi?

262

S'a tuoi danni pensando
versi, Amor, tante lagrime e lamenti
sovra i begli occhi spenti,
pon fine e ti consola:
poiché la fama sol, celèbre e chiara,
di sua beltà sì rara,
che per tutto se n' vola,
potrà, battendo l'ale,
dettar ne' cori altrui vampa immortale.

263

Dolcezza del cor mio,
perché diventi amara?
E col venen di gelosia ti mesci?
Frena pensier sì rio
e già per prova impara
che seco sempre a duro fin riesci.
Tu stesso il tuo mal cresci:
ché 'l timor che t'ingombra
formi di sogno e d'ombra;
ma perché 'l veggio anch'io,
e stolto a morte la mia vita invio?

 
 
 

Il Dittamondo (5-07)

Post n°1088 pubblicato il 19 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO VII

Dopo i Mauritan, segue Numidia
dove Cartagin fu, che coi Romani
per lungo tempo si portaro invidia. 

Noi andavamo per quei luoghi strani 
in vèr levante, lungo la marina, 5 
che vede il Sardo pria che i Ciciliani. 
Io portava la fronte bassa e china, 
quando disse Solin: "L’animo desta, 
ché l’uom che va pensoso mal cammina". 
Come a lui piacque, allor levai la testa; 
ed el seguio: "In verso la man destra 
ir ne conviene e la strada è questa". 
Per quella via, ch’era assai maestra, 
trovammo un fiume, dove un ponte vidi 
piú lungo che non porta una balestra. 15 
Ed ello a me: "In fin a questi lidi 
Mauri son detti e da l’altra sponda 
prendon principio e stanno i Numidi. 
E da la gente errante e vagabonda 
nomato fu il paese: ché in lor lingua 20 
Numidi e vagabondi a dir seconda. 
Molto vedrai questa contrada pingua 
di quanto a l’uom bisogna e si distende 
infin che Zeugitan par che si stingua. 
E questo fiume, che di qua discende, 25 
Arasiga si noma". E, cosí detto, 
passammo il ponte, che ’l traversa e fende. 
Per tutto vi s’adora Macometto, 
a’ quali ha conceduto, per sua legge, 
usar lussuria a ogni lor diletto. 30 
E, se di ciò fu largo, li corregge 
e nega che non possan bere vino; 
usano l’olio e tengol per le vegge. 
Cosí cercando, io dissi a Solino: 
"Dimmi se di qua sai alcuna cosa, 35 
a ciò ch’andando men gravi il cammino. 
E fammi chiaro, se non t’è nascosa, 
la cagione ch’ad Africa diè ’l nome, 
sí che io il noti ancora, in rima o in prosa". 
Allor mi cominciò a dir sí come 40 
Afer da Abraam giá si divise 
con molta gente e con ricche some, 
e che per Libia e di qua conquise 
province assai e del suo nome apresso 
Africa nome a questa parte mise. 45 
Per altra forma è chi ne parla adesso; 
ma, perché questo modo piú mi aggrada 
e par piú bello, innanzi te l’ho messo. 
A l’altra domanda: in questa contrada 
cavalli son piú che altrove leggeri: 50 
e qual par la cagion qui dir m’aggrada. 
Lunghi e ischietti, a modo di corsieri, 
ritratti sono e qui la gente ricca 
gli usano insieme a correr volentieri. 
La campagna è renosa, in che si ficca 55 
il cavallo correndo, onde fa lena 
e destre gambe, ché a forza le spicca. 
Per gli alti gioghi, lungo la Carena, 
è vera fama che per ciascun genera 
è di fieri animai la terra piena. 60 
Poi mi contò sí come l’orsa ingenera 
e quanto porta il parto e, quando nasce, 
come la sua figura è poca e tenera. 
Ancor mi divisò con quante ambasce 
l’alleva, prima che in forza vegna 65 
e di quel ch’essa lo nutrica e pasce; 
apresso come a maestria s’ingegna, 
combattendo col tor, romper le corna, 
romperli il naso, onde più duol li vegna; 
e che Lucio Domizio, quando torna 70 
di queste parti a Roma, noi nascose, 
ma la cittá di molti e sé adorna. 
Poi disse: "Sopra tutte l’altre cose, 
che onoran la provincia, il marmo è quella": 
e qui silenzio a le parole pose. 75 
Cosí andando, senza altra novella, 
a Tunisi arrivammo e questa terra 
in quel paese è ricca e molto bella. 
Arsa Cartago, ne l’ultima guerra, 
comandaro i Romani a quelle genti 80 
che diece miglia abitasson fra terra. 
Per ubbidire i lor comandamenti, 
vennero qui e questa cittá fenno, 
ch’è poi cresciuta con molti argomenti. 
Cauti, sagaci, accorti e con buon senno, 
molto ingegnosi e di sottil lavoro 
gli udio contare e io cotal gl’impenno. 
Qui son cristiani assai che fan dimoro: 
Pisani, Catalani e Genovesi 
con altri piú, che guadagnan con l’oro. 90 
Come ho detto che cambiano i paesi 
ispesso nome, cosí Barberia 
questa contrada nominare intesi. 
Qui riposati, prendemmo la via 
a levante, notando a parte a parte 95 
le novitá, che io vedea e udia,
secondo ch’io le scrivo in queste carte.
 
 
 
 
 

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Data di creazione: 26/04/2008
 

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