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Messaggi del 21/01/2015

Adesso

Post n°1103 pubblicato il 21 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Adesso

Nun fateme 'ncazzà che spacco tutto!
Se deve fà sortanto quer che vojo
senza fiatà, perché si cc'è 'no scojo,
'gni cosa vado a rompe, er bello e 'r brutto.

Che ddichi? Só ggajardo? T'ha ggustato?
Pareva vero quelo che t'ho ddetto!
Vorebbe fallo, ma ppoi ciò rispetto,
così resto scontento e cojonato.

A vvorte tu tte fai granni proggetti,
voresti da èsse granne, 'n superomo ...
e poi finisce devi annà pe' ttetti!

Conosci devi sempre ppiù te stesso
pe' ccomincià ... poi devi, tomo tomo,
buttatte ne la vita com'è ... adesso.

Valerio Sampieri
21 gennaio 2015

 
 
 

L'ali

Post n°1102 pubblicato il 21 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

L'ali

Só' iti ner frattempo ggià ddu' mesi,
comincia a risvejasse la natura
e 'r tempo diviè bbello ... finché ddura.
Li nervi adesso só' 'n po' mmeno tesi?

Risponne io te dovrebbe: "nun direbbe".
Ma che? Seconno te só' le staggioni
le cose che mme rompeno i cojoni?
Si fosse, in letargo me n'andrebbe.

Seconno me, noi semo come semo,
perché nun ce sapemo accontentà.
Si guardi bbene, l'omo è 'n ber po' scemo

e tutto 'r male se lo fà da solo.
Ce piacerebbe a tutti de volà ...,
ma l'ali nu ce l'ho, perciò nun volo.

Valerio Sampieri
21 gennaio 2015

 
 
 

'E staggioni

Post n°1101 pubblicato il 21 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

'E staggioni

Oggnuna cià la sua, è pparticolare.
Mica só' ttutte uguali le staggioni,
ognuna cià le sue propie emozzioni.
Pija l'inverno: te fa raffreddare.

E pprimavera, co' la sua allergia?
Cor callo, poi, l'estate t'ha ddistrutto.
D'autunno te prepari ar tempo bbrutto;
quanno ce penzi, viè mmalinconia.

Ma prova 'n po' a ggiratte all'incontraro,
guardete attorno e cerca la bellezza,
pe' rennete 'r cammino meno amaro.

La trovi? Nu' la trovi? Chi lo sa!
Nu' stà 'ppenzà che 'r monno è 'na schifezza,
si cciài l'amore, mejo pôi campà.

Valerio Sampieri
21 gennaio 2015

 
 
 

Mariotto Davanzati 01

Post n°1100 pubblicato il 21 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Canzon morale di Mariotto Davanzati da Firenze a commendazione d'un giovinetto. Inclito, franco, giusto signor mio,
costante, forte, temperato e saggio,
largo, discreto, umano e pazïente,
virile isdegno in te di giusto altraggio,
verso i tuoi servi mansueto e pio,
perdonator magnanimo e prudente,
fior dell'umana gente,
in cui misse natura ogni suo ingegno
per farti, e fetti, degno
di quel che mai fé creatura umana,
i' non dico mondana
anzi celestïal, degna corona
attende tua mirabile persona.
A te subiace ciascuna bellezza,
a te la turba ingrata rende onore
sì come a cosa mai simil veduta;
a me, buon servo del tuo servidore,
virtù aggiunta alla tua gentilezza
si mostra in gambo d'or gemma compiuta.
Tu sol, che puoi, aiuta
la pigra lingua e l'intelletto frale,
che per sì eccelse scale
arditi montan sotto tua speranza,
non spinti d'arroganza,
ma d'un disio fervente che gl'infiamma,
nutricati da te, di poca dramma.
Ceda chi scrisse omai di Ganimede,
Ipolito, Narcis o Pulidoro
essemplo fusser di bellezza eterno!
Credo che fùr ben tali al tempo loro
e fin qui stati, tanti ne fan fede,
ma qui s'arresta lor titol superno.
O futuro governo
de le cose celeste, chi ti spia
rari o nul credo sia,
qual pensi omai di lor che la natura
formasse creatura
di lui più bella e di maggior virtute,
in cui tutte sue forze son compiute!
Commisse in ciò la mobile fortuna,
invidiatrice propria di se stessa,
non picciol fallo, chi ben guarda al vero,
e forsi in lei tal cura fu commessa
dal sommo Giove, sanza requie alcuna
dando e togliendo nel nostro emispero,
come ciascun sincero
crede fra noi e per effetto vede,
poi che con tanta fede
amplissima virtù voltossi e lieta,
perché il greco poeta
e Virgilio a tal tempo non condusse,
sì che per lor tua fama eterna fusse.
Or ti s'aggiugne sopra ogni virtute
una sì cara e dolce compagna,
qual meritava tua persona magna.
Né da te, infuori a lui, credo par sia
cose mai fra i mortal più non vedute,
quantunque il sole scalda o il mar bagna;
certo l'uom s'acompagna
come l'animo suo proprio elegge,
né gli è dato per legge
come gli altri parenti, ma lo invita
natural calamita
al suo simil, traendo aperto segno,
ché 'l vile el vile e 'l degno cerca el degno.
Pur tal fïata con tanta malizia
invidia nelle menti uman distende,
ché sofistichi molti di lei nasce,
che sempre a discacciare il vero attende,
chi disïando, chi pur per nequizia,
e del prossimo mal sempre si pasce.
Questa fin nelle fasce
fu monumento d'uomini e di regni;
dunque fa' che tu tegni
del vulgo le parole come el vento,
che passa in un momento,
poi che per cieli è fermo ed ordinato
che amico e servo tal ti sia donato.
Or se disforme a voi natura femmi
di senno, di beltà e di costumi
e di più vostre mirabili dote,
ma per sé fé de l'intelletto i lumi,
e tal, non meritata, grazia diemmi,
che simiglianza vile in me non puote,
con lagrime divote,
signori, almen umilmente vi priego
non mi sia fatto niego
l'esser terzo fra voi minimo servo,
ché la fé che conservo
a ciascheduna vostra reverenza
merita in voi di tal grazia potenza.
-Mille volte, canzona, bacerai
ginocchion ciascun piè al signor nostro
e, se dell'esser tuo si maraviglia,
gli di': «Il mio fattor è servo vostro,
d'amor e morte pien di mille guai;
simile manda a te la sua famiglia».
E, s'egli in man ti piglia,
porgi tanta pietà agli occhi suoi
che del suo petto mai ti cacci poi.

Mariotto Davanzati

 
 
 

Il Dittamondo (5-11)

Post n°1099 pubblicato il 21 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO XI

"Contento assai m’avete a la dimanda 
mia, diss’io a lui; ma non vi incresca 
cibarmi ancor d’una e d’altra vivanda: 
ché come a chi ha sete è buon ch’om mesca, 
similemente dico che gli è bene 
a chi ha brama porgerli de l’esca. 
La voglia, ch’ora piú mi stringe e tene, 
è di saper perché al Saracino 
la legge toglie il porco e donde viene; 
apresso, perché nega loro il vino, 
ché, quando penso come a l’altre cose 
fu largo, ciò par fuor del suo cammino". 
Con soavi parole mi rispose: 
"Io ti dirò, secondo quel ch’io sento, 
perché ciascun di questi lor nascose. 
Dico: del vecchio e nuovo Testamento 
e di piú sètte Macometto volse 
avere al suo poter lo ’ntendimento. 
Poi di ciascuna piú e meno tolse, 
come a lui piacque, e quello, apresso, lega 
ne l’Alcorano, che di tutte sciolse. 
E però che ’l Giudeo lo porco nega 
ne la sua legge, udita la ragione, 
per quel ch’io penso, in verso lui si piega. 
Ma quel che per piú ver tra lor si pone, 
si è ch’egli hanno scritto nella le’, 
nel libro che tratta De narratione, 
che, sendo dentro a l’arca sua Noè, 
che de lo sterco del leofante nacque 
il porco; e ’l porco, apresso, il topo fe’. 
E perché il topo, nato, non si tacque 
roder l’asse, che quasi avea giá fratta, 
Noè temeo che non passasse a l’acque. 
Com Dio disse, cosí corse di tratta 
a lo leon e quel percosse in fronte 35 
e de le nara gli uscio una gatta. 
Or per queste parole, ch’io t’ho conte, 
a dispregiare il porco e non volere 
le genti saracine sono pronte. 
A l’altra tua dimanda, dèi sapere 40 
che Macometto fu forte disciolto 
in ciascun vizio e propio nel bere. 
E, perché ’l vin l’inebriava molto, 
volse, per ricoprire il suo difetto, 
ch’a tutti i Saracin fosse il vin tolto. 45 
Nol dicono, ma tegnonlo in dispetto, 
perch’ello è tal che, inebriando altrui, 
li tolle la memoria e lo ’ntelletto. 
Dànno la colpa al vin, non a colui 
che ne bee troppo; ché ’l vin per sé è sano, 50 
chi l’usa come de’, ne’ cibi sui. 
Ma quel per che piú licito non l’hano 
è propiamente che trovano scritto 
quel ch’ora ti dirò ne l’Alcorano. 
Dice che Dio a giudicar diritto 55 
due agnoli mandò in questo mondo 
e per punir degli uomini il delitto. 
Ciascuno era a veder vago e giocondo; 
ciascuno il capo avea, che parea d’oro, 
tanto era bello, inanellato e biondo. 60 
Ora, albergando e facendo dimoro 
con una vaga donna, inebriaro 
e, ebbri, a patti ella dormí con loro. 
Apresso, come gli angiol le insegnaro, 
in ciel salio, ove dio Luciferro 65 
ne fe’, che sopra l’altre il lume ha chiaro. 
E gli angioli, per lo peccato e l’erro 
ch’avean commesso, ciò è di ber vino, 
legati fun con catene di ferro, 
dicendo Iddio: - Cosí starete in fino 70 
al dí giudicio nel pozzo in Babillona 
coi piè di sopra e col capo giú chino: 
perch’io vi comandai che con persona 
né soli vin per voi non si bevesse; 
e voi foste ebri da terza a la nona -. 75 
Or hai udite le cagioni espresse 
ch’essi san dire a le dimande tue 
e che per piú autentiche son messe". 
"Assai contento son; ma d’udir piue 
disio: ciò è che Macometto dice 80 
di Cristo e poi de le parole sue". 
"Sommo profeta, santo e felice, 
pien di virtú, de la Vergine nato 
senza padre: e questa è la radice. 
Ancor piú, ch’uomo il confessa beato; 85 
figliuol di Dio non vuol dir che sia: 
con Ario se ne va da questo lato. 
Commenda il Salterio, Iob e Elia; 
ma, sopra tutto, di Cristo il Vangelo, 
le sue parole e la sua buona via". 90
Cosí rispuose con benigno zelo.
 
 
 

Rime di Celio Magno (284-299)

Post n°1098 pubblicato il 21 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

284

Dolce madre e di Dio sposa diletta,
Vergine sempre immaculata e pura,
specchio del sommo sol, bontà perfetta,
fonte di grazia in cui stupì Natura;
o del mondo salute, o benedetta
del ciel regina, o scorta a Dio sicura;
ricorro umile a te: porgimi aita,
che senza il tuo favor morta è mia vita.

285

Ragion è ben ch'in Dio non sol deponga
ma dentro orecchia d'uom la soma grave
de' miei gran falli: acciò più l'alma aggrave
rossor e tema, e al ciel più la disponga.

Ma perché d'uopo aver ch'altri le ponga
spron a virtute, e fren da voglie prave?
perché da sé non si vergogna e pave
tal ch'innanzi morir ch'errar proponga?

Io, vil fior matutin ch'a sera langue,
debil falda di neve al sole ardente,
che sarò tosto in sen di morte essangue;

contra il gran re del cielo onnipotente
che mi creò, che mi salvò col sangue,
ardirò l'opre armar, non che la mente?

286

Cristo oggi nacque; ond'io debbo mostrarmi
Lieto o dolente? E starne in festa o in lutto?
M'empie di gaudio il ben con lui produtto,
poi ch'in terra dal ciel venne a salvarmi;

ma tra la gioia il cor sento piagarmi
ch'ei colse del su' amor sì acerbo frutto,
in alto abisso di martir condutto,
degnando per sua morte a vita trarmi.

Benché, se 'l mio dever guardo e 'l suo merto,
che vale il mio gioir, che vale il pianto
a le sue fasce, a la sua croce offerto?

Tu, che nato per me patisti tanto,
con tua grazia fa degno il mio demerto:
e in me cresci a tua gloria e 'l duolo e 'l canto.

287

Qual sì fera, crudel, nefanda mano
sul duro legno il mio Signor confisse?
Perch'a se stesso il cor pria non trafisse
ch'esser a chi 'l fec'uom tanto inumano?

Ma che parl'io d'altrui, misero insano?
Io fui cagione ond'ei morte soffrisse
e che quel sangue immacolato uscisse
per lavar il mio lezzo empio e profano.

Io, quasi poco fosse il suo tormento,
con ingiusti desir, con perfid'opre
riporlo in croce mille volte or tento.

Oh quanta in me la sua pietà si scopre!
Poiché sì gravi error, quand'io me n' pento,
largo perdona, e col suo merto copre.

288

Sozzo verme son io, vil terra indegna
di serbar te mio vero alto tesoro,
cui con sì freddo affetto amo ed adoro,
sì ardente al falso ben che 'l mondo insegna.

Ahi cor mio cieco, or chi la luce sdegna
la notte amando, e 'l fango agguaglia a l'oro?
Dunque vita dispregio e morte onoro?
E, ragion posta in bando, il senso regna?

Ma qual mi sia, Signor, tu mi creasti
a tua sembianza; e mia carne prendendo
la mia bassezza a la tua gloria alzasti.

Ben infinita la mia colpa intendo;
ma nulla al sangue che per me versasti:
per cui mercé ti chieggo, umil piangendo.

289

O non più di terror, non più di morte
ma di vita e sperar pegno sicuro,
divin sepolcro, in cui deposte furo
le membra di Giesù, lacere e morte.

Oggi usciron di te vive e risorte,
in corpo pien di gloria eterno e puro,
acciò simil godesse il ben futuro,
fatta felice a pien l'umana sorte.

Così beò col suo morir nostr'alma,
e col risuscitar il fragil manto,
doppio in noi del su' amor trionfo e palma.

Infinità pietà, che per me tanto
sofferse, e presa in sé mia grave salma,
volse in premio la pena, in gioia il pianto.

290

Al signor Alberto Lavezuola per il cocchio prestato

Febo, se pur talor languidi e stanchi
i tuoi destrier dal camin lungo senti,
questi al carro non men destri e possenti
prendi e gli adopra insin chi tuoi rinfranchi.

Ma, se tu forse ancor ti sazi e stanchi
quando la via del ciel più ratta tenti,
ch'entri in tua vece il lor signor consenti;
né temer che poc'atto al freno ei manchi.

Splendor di senno e cortesia ch'appressi
più la tua luce, in null'altro dimora;
né d'esser caro a te, segni più espressi.

Poich'in Parnaso a lui tu presti ancora
la lira e 'l plettro co' tuoi carmi istessi,
onde ognun dopo te l'ama ed onora.

291

All'illustre signor Carlo Pallavicino ambasciator di Savoia

Trovar contra 'l dolor fermo riparo
quando sue piaghe in noi fortuna imprime,
di virtù splende infra le glorie prime
e prova è sol di spirto illustre e raro.

Tal voi del figlio estinto al colpo amaro,
signor, mostrate un cor franco e sublime,
e che 'l voler di Dio per voi si stime
più ch'ogni falso ben del mondo avaro.

Quinci il buon padre ebreo l'unico figlio
su l'altar pose in sacrificio pio
con man costante e con asciutto ciglio.

Ma che? Diè 'l suo per noi l'istesso Dio
e noi de' nostri (ingrato, empio consiglio)
farem piangendo ingiuria al suo desio?

292

[A Giorgio Gradenigo]

Quali occhi al pianto e qual petto a' sospiri
più deono aprire il corso? Oh qual ingegno
che di saldo giudizio arrivi al segno
puote a l'alma apportar maggior martiri,

Gradenico, che i tuoi? Che più non miri,
più non ascolti il tuo pregiato pegno;
e lui, d'eterna laude e gloria degno,
che già in terra fruisti, in ciel sospiri.

Tu 'l vedesti, l'udisti e 'l conoscesti;
tu più ch'altro l'amasti e l'onorasti:
ond'or più ch'altro doloroso resti.

Piangerlo non puoi tu ch'al merto basti;
lodarlo sì, poiché dal cielo avesti
le rime pronte, come i desir casti.

293

A messer Lodovico Dolce

Suo studio volge a gloriosa parte
che d'Arpin segue orando il figlio eletto:
come indicio ne dan con chiaro effetto
mille degne memorie al mondo sparte.

Né da' fioriti campi in tutto ei parte
ov'han le Muse il lor dolce ricetto;
arma a questi non men d'ardente affetto
la lingua Febo, e spirto infonde ed arte.

Dunque il mio ingegno in tal camin s'affanni,
più per fama acquistar che per tesoro;
e s'io la spero invan, ciò mi conforte:

che potrà, Dolce, il vostro stil canoro,
in cui scorgo d'amor cortesi inganni,
serbarmi eterno a più felice sorte.

294

A messer Paulo Tron

De' miei trascorsi dì picciol guadagno
dietro a le Muse, ond'io prima m'accensi,
trovo; e s'avien ch'al mio stato ripensi,
di me medesmo, e pi? del ciel, mi lagno.

Che, qual da dolce madre innocente agno
presso a cui lieto a pien l'ore dispensi,
da l'alme dee, che già mia scorta fensi,
lasso, per rio destin pur mi scompagno.

E, s'io vivo, cangiar conviemmi il pelo,
per sentier novo, a me gravoso ed erto,
spendendo in corta gloria i dì migliori.

Ma se seguir quel primo, ardente zelo
mi dava il ciel, forse in perpetuo offerto
m'era di Magno il nome onde m'onori.

295

A monsignor Giovan Mario Verdizzoti

Già furo ad altra età, col mondo in fiore,
le sacre dive e 'l figlio di Latona;
e quella fronde ch'i lor crin corona,
di virtù si tenea vanto maggiore.

Or anzi stima il procacciarla orrore
il secol che per l'or tutto abbandona:
onde a l'opinion dietro mi sprona
duro destin, bench'al ver pieghi il core.

E non lunge a Parnaso il camin piglio,
perch'a lui presso di sue cime apriche
s'altro non puote, almen si pasca il ciglio.

Voi, cui stella non è che 'l passo intriche,
seguite de le Muse il bel consiglio:
ch'agguaglierete ancor le glorie antiche.

296

A messer Pietro Nardino

Or sì che, mentre nel tuo stil risuono,
splende chiaro il mio nome infra i migliori;
or sì che m'ergo al ciel dal volgo fuori
assiso in alto e glorioso trono.

Ma in farmi tal d'assai men degno e buono,
sembri, mastro gentil, che ferro indori;
o qual pittor ch'esprima in suoi colori
il più bel posto il vero in abbandono.

Così per te di quel ch'io manco abondo,
del mio avaro destin le forze dome,
e m'assicuro dal morir secondo;

che, del tuo lauro anch'io cinte le chiome,
sotto il tuo ricco e glorioso manto
vivrò ne la tua vita a Febo a canto.

297

A ...

Pon fine a questi tuoi dogliosi lai,
nobil seguace de l'Aonio coro;
e 'n piacer cangia il tuo grave martoro,
che dolce porto ancor seguendo avrai.

La bella stella tua, s'io ben mirai,
promette in vista sol pace e ristoro;
e tal è 'l merto, ond'io t'amo ed onoro,
che sirti e scogli da temer non hai.

Ma dove pur mercé ti venga meno,
l'aver quel divin lume in terra scorto
dovrà far il tuo cor contento a pieno:

ch'è grazia tal che ti dorresti a torto
se ti fesse anco amor, di sdegno pieno,
restar tra l'onde sue sepolto e morto.

298

Al signor Giovan Francesco Pusterla

Quando i begli occhi, ardor de' tuoi desiri,
in quest'aria spiegar sua luce pura
lasciando notte nubilosa e scura
a te, che sole al mondo altro non miri;

al lampeggiar de' lor celesti giri
onde Amor l'alme e i cor sì dolce fura,
a quell'altera, angelica figura
statua sembrai che meraviglia spiri.

Onde, non che per te formar pur detto,
ma non potei, me stesso avendo perso,
ricovrar salvo a pena in altro canto;

e certo indi scampar m'era disdetto
se la bella sirena in me converso
avesse un guardo, o s'io n'udiva il canto.

299

Per Venezia

S'ove nido avean sol palustri merghi
e lorde canne, e vili alghe infeconde,
or regie stanze e d'ogni ben feconde
alzan da l'acque al ciel la fronte e i terghi,

opra fu, quando al ver con gli occhi t'erghi,
di Dio, ch'amico a' servi suoi risponde
benché del rio venen ch'in te s'asconde,
lingua crudel, sì nobil frutto asperghi.

Da Dio sono i tesor, da Dio fra noi
scende ogni essempio degli onor vetusti
per non men chiari e gloriosi eroi.

Tu da regni di Pluto arsi e combusti
vieni, e l'Italia ammorbi, e 'l mondo annoi,
mostro, che 'l fel ne l'altrui dolce gusti.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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