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Messaggi del 26/01/2015

Il Dittamondo (5-22)

Post n°1146 pubblicato il 26 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO XXII

Quanto è maggior la cosa e piú affanno
per acquistarla soffrir si convene;
e quanto ha l’uom piú cuor, men li fa danno. 

Pensa come Alessandro con gran pene 
acquistò il mondo e quanto al nobil core 
parve leggeri e poco tanto bene; 
e pensa quanto Glauco pescatore 
s’affaticava e, se prendeva un pesce, 
rimanea stanco e teneasi signore. 
Dunque, se per valor del cuor l’uom cresce 
in fama, non temer, ma prendi ardire 
e fatti forte, quanto piú t’incresce. 
Questo cammino, onde ora dobbiam ire, 
è tanto grave, pauroso e oscuro, 
quanto alcun altro, ch’io sapessi dire". 
Cosí quel mio maestro caro e puro 
mi disse; e io a lui: "Va pure innanzi, 
ché me vedrai qual diamante duro. 
Ben penso che di’ questo, perché dianzi 
mostrai d’aver paura di coloro, 
dov’io dissi: "Per Dio, che qui non stanzi! –". 
Non mi rispuose né fe’ piú dimoro; 
prese la strada dritta in vèr levante, 
che giá cercato avea di foro in foro. 
Grande il paese e sonvi genti tante, 
che pare un formicaio e, se ben vidi, 
poveri alberghi v’hanno per sembiante. 
"Tutta Etiopia in due parti dividi, 
disse il mio sol: l’una è questa in ponente; 
l’altra suso in levante par s’annidi. 
Tra l’una e l’altra non abita gente; 
sí v’è la terra rigida e selvaggia, 
ch’a la vita de l’uom non vale niente". 
Cosí parlando, trovammo le piaggia 
del Negro, un grande e nobile fiume, 35 
che bagna l’Etiopo e che l’assaggia. 
Vero è che, per natura e per costume, 
questo col Nilo un’acqua si crede: 
e tal lo troverai in alcun volume. 
Io vedea per tutto andare a piede 40 
uomini e femine e stare in brigata, 
come fra noi le mondane si vede. 
Mentre io mirava, disse Solin: "Guata 
questa gente bestiale e senza legge 
come al piacer di Venere s’è data. 45 
E sappi che di quante se ne legge, 
non truovi schiatta di questa piú vile: 
niun conosce il padre, ben ch’el vegge. 
E per natura il mondo ha questo stile: 
che ne’ piú stremi i men nobili pone 50 
e per lo dritto suo i piú gentile. 
Al gran calor, che ’l sole qui dispone, 
Etiopi funno primamente ditti, 
secondo che alcun vuole e propone. 
Sotto il cardin meridian son fitti: 55 
assai ci sono i quali, spesse volti, 
lo sol biasteman, sí da lui son fritti. 
Piú popoli diversi, e bestial molti, 
si ponno annoverare in questa parte 
e genti nude, per le piagge sciolti. 60 
Poco si curan di scienza o d’arte; 
la terra han buona e bestiame assai, 
oro e gemme quanto in altra parte. 
Truovi ove funno, s’al mezzodí vai, 
Antipodes da presso a l’oceano, 65 
di cui i poeti parlâr come sai". 
Cosí cercando il paese lontano 
e ragionando, giungemmo a un lago 
ch’assai mi parve di natura strano. 
"Non si vuol esser di quest’acqua vago, 70 
disse Solin, per sete che l’uom abbia, 
perché quella d’Acon non fa piú smago: 
però che chi ne bee o ello arrabbia 
o che dal sonno egli è si forte preso, 
che come morto il portaresti in gabbia". 75 
Di lá partiti, io andava sospeso 
tra quelle genti e davami lagno 
di veder quel ch’io vengo a dir testeso. 
Pensa, lettor, se mai fosti in Bisagno 
o in Poncevere, nel tempo del Gemini, 80 
per festa, ch’uom non cerchi alcun guadagno, 
e veduto hai donne, donzelle e femini 
coi volti lor piú neri assai che mora 
e i denti come neve, che ’l ciel semini, 
tali eran quei di questi ch’io dico ora: 85 
e cosí degli azzurri e verdi scuri, 
sí come quivi, non vedesti ancora. 
Barba non hanno o poca i piú maturi; 
le labbra grosse dico e i nasi corti; 
crespi i capelli e ne la vista oscuri. 90 
Assai dei corpi lor son duri e forti, 
freddi del cuore e vil quanto coniglia 
e ne l’atto de l’armi poco scorti. 
Se di guardarli m’era maraviglia, 
minor non parea lor di veder noi: 95 
ridean fra lor, rivolte a noi le ciglia,
e l’uno a l’altro n’additava poi.
 
 
 

Mariotto Davanzati 07-08

Post n°1145 pubblicato il 26 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

VII

Ad Antonio di Meglio. Mandato all'araldo in preghiera della canzona.

Messer Anton, della più eccelsa petra
e dove men valore ha sempre Appollo,
in grembo al più quïeto e vago collo,
che di Muse o d'Orfeo sentisse cetra,

col basso ingegno mio, ch'amore aretra,
per forza svelsi, e non al primo crollo,
questa tremante e rozza in atto brollo,
tal ch'assai più merzé che fama impetra.

Però, siccome a giusto e caro padre,
a voi ricorre, e me priega ch'i' prieghi
la vostra immensa e solida eccellenza,

che, coll'opere vostre alte e leggiadre,
l'amaestrate sì ch'ogn'uom si pieghi
dov'ella arriva a farle reverenza.


VIII

Sonetto del detto mandato al cardinale di Colonna nobilitandolo. E fu a dì 5 di luglio 1441.

Sacra eccelsa colonna invitta e giusta,
qual per fama e per merto il ciel trascende,
per l'alte alme illustre e reverende
d'appostolica mano e di robusta,

se mai contrari venti ebbe tuo fusta
per fortuna o destino o lor vicende,
or t'allegra, ché 'n te tal luce splende,
qual Pietro in Dio per la Chiesa vetusta.

Tal che più fiamma in vetro non traspare
che 'n te, inclito mio caro signore,
d'ogni cristian la disïata speme.

Tu debbi il mondo in pace collocare
e 'nvïar l'alme al sommo Redentore,
fior, fronde, frutto del tuo santo seme.

 
 
 

Della Casa 04: sonetti

Post n°1144 pubblicato il 26 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

XVI

Tempo ben fôra omai, stolto mio core,
da mitigar questi sospiri ardenti,
e 'ncontr'a tal nemico, e sì pungenti
arme, da procurar schermo migliore.

Già vago non son io del mio dolore:
ma non commosser mai contrari venti
onda di mar, come le nostre menti
con le tempeste sue conturba Amore.

Dunque dovevi tu spirto sì fero,
ver' cui nulla ti val vela o governo,
ricever nel mio pria tranquillo stato?

Allor ne l'età fresca, uman pensero
senz'amor fia, che senza nubi il verno
securo andrà contra Orione armato.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 16 (pag. 9)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 264

Note:
Dialogo fra il Poeta e il suo cuore.
(Carrer, cit., pag. 304)



XVII

Io, che l'età solea viver nel fango,
oggi, mutato il cor da quel ch'i' soglio,
d'ogni immondo penser mi purgo e spoglio,
e 'l mio lungo fallir correggo e piango.

Di seguir falso duce mi rimango,
a te mi dono, ad ogni altro mi toglio;
né rotta nave mai partì da scoglio
sì pentita del mar, com'io rimango.

E poi ch'a mortal rischio è gita invano,
e senza frutto i cari giorni ha spesi
questa mia vita, in porto omai l'accolgo.

Reggami per pietà tua santa mano,
Padre del ciel, ché poi ch'a te mi volgo,
tanto t'adorerò quant'io t'offesi.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 17 (pag. 9)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 265



XVIII

S'io vissi cieco, e grave fallo indegno
fin qui commisi, or ch'io mi specchio e sento
che tanto ho di ragion varcato il segno
in procurando pur danno e tormento,

piangone tristo; e gli occhi a fermo segno
rivolgo, e apro il seno a miglior vento:
di me mi doglio e 'ncontro Amor mi sdegno,
per cui 'l mio lume in tutto è quasi spento.

O fera voglia, che ne rodi e pasci
e suggi il cor, quasi affamato verme,
ch'amara cresci e pur dolce cominci;

di che falso piacer circondi e fasci
le tue menzogne, e 'l nostro vero inerme
come sovente, lasso, inganni e vinci!

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 18 (pag. 10)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 266

Note:
Può leggersi a riscontro quello del Tasso: Arsi gran tempo,e del mio foco indegno, ec.
(Carrer, cit., pag. 304)



XIX

Sperando, Amor, da te salute invano,
molti anni tristi e poche ore serene
vissi di falsa gioia e nuda spene,
contrario nudrimento al cor non sano.

Per ricovrarmi, e fuor de la tua mano
viver lieto il mio tempo e fuor di pene,
or che tanta dal ciel luce mi vène,
quant'io posso da te fuggo lontano:

e fo come augellin, campato il visco,
che fugge ratto a i più nascosti rami
e sbigottisce del passato risco.

Ben sento i' te che 'ndietro mi richiami:
ma quel Signor, ch'i' lodo e reverisco,
omai vuol che lui solo e me stesso ami.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 19 (pag. 10)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 267



XX

Ben foste voi per l'armi e 'l foco elette,
luci leggiadre, ond'anzi tempo i' mora:
sì tosto il cor piagaste, e 'n sì brev'ora
fur le virtuti mie d'arder constrette.

Terrene stelle al ciel care e dilette,
che de lo splendor suo v'orna e onora,
breve spazio per voi viver mi fôra
in pianto e 'n servitù sett'anni e sette;

sol per vaghezza del bel nome chiaro
ch'i' vo cantando, lasso, in dolce suono,
ed ei pur nel mio cor rimbomba amaro.

Ma cheunque lo stato è dov'io sono,
doglia o servaggio o morte, assai m'è caro
da sì begli occhi e prezioso dono.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 20 (pag. 11)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 268

Note:
Sette anni e sette, del v. 8 ricorda i servigi di Giacobbe ad ottenere Rachele.
(Carrer, cit., pag. 304)

 
 
 

I Trovatori (11)

Post n°1143 pubblicato il 26 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847, pag. LXXV-LXXXII

CLXIX. Nella raccolta dei poeti burleschi in 27 volumi si legge un capitolo dell' altalena, spiritoso e vivace ma un poco laidetto, attribuito a Lodovico Martelli. I primi editori in questo andarono grandemente errati, forse perchè in alcuni codici si trova colle iniziali L. M., e non trovando nel catalogo dei poeti cinquecentisti un altro poeta il cui nome cominci colle stesse iniziali, non riflettendo quanto lo stile severo, e 'l pensiero classico di Lodovico Martelli sia diverso da questa ingegnosa ma lascivetta poesia, addirittura l' attribuirono a lui. Ma nel testo a penna, codice 374 magliabechiano, si legge questo capitolo col nome del suo vero autore, e di più con due righe di dedica, che, per la sua brevità e originalità, mi giova a maggior chiarezza trascrivere.

CLXX. «L' altalena di Alfonso di Lionfante da Massa, capitolo indirizzalo a mosser Ferrando Malvone da Campiglia. - Io vi fo parte, messer Ferrando mio, di tulle le mie fatiche, che a me pare che voi siate uno specchio non solamente della terra vostra, ma di tute le maremme del mondo, e per questa cagione vi mando un capitolo fatto dell' altalena, della quale molto maggior lodi dirsi poteano, e molti e vari e artificiosi e piacevoli modi di altaleneggiare; pure, perch' io non so più, qual' ella sia, ve la mando. Voi intendete il giuoco eccellentemente, per ciò che voi siate in quello ammassicciato, secondo che per li atti, e per le parole, e per le infinite virtù e buone qualità vostre ne dimostrate. Leggete il capitolo, e non abbandonate cosi dolce passatempo, che voi fareste torto a voi stesso».

CLXXI. Ma se io volessi rigorosamente notare tutti gli errori ne' quali son caduti gli antichi e i moderni editori e commentatori di rime antiche, sarebbe troppo lungo discorso. E mi converrebbe incominciare da quelle piccole cose da me pubblicate ne' tempi addietro, e risalir fino alle prime edizioni veneta e giuntina. Mi ristringerò adunque a venir notando e correggendo a suo luogo, e quando assolutamente il soggetto lo richieda, gli errori più gravi e di maggior conseguenza.

CLXXII. È debito sacro d'onore e di giustizia il rendere a ciascuno il merito delle opere sue, frutto dei suoi studi e delle sue onorate fatiche, per mala fede di amanuensi usurpate ai legittimi autori, e per negligenza di editori attribuite altrui; come avvenne del Trattato delle virtù morali, stampato in Roma nel 1612, da Federigo degli Ubaldini, sotto nome di Roberto re di Napoli, e sotto tal nome accettato e riconosciuto nella repubblica letteraria, ristampato nella stamperia reale di Torino, e inserito nella raccolta palermitana delle rime antiche toscane del marchese Villarosa; il quale non è altrimenti opera di re Roberto, ma di Graziuolo Bambagiuoli, bolognese, che fioriva nel 1331. Graziuolo dedicò il suo libro a Beltrame del Balzo, conte di Montescaglioso, cognato del re (per avere sposato Beatrice sorella di Roberto, vedova di Azzo marchese di Ferrara), il quale fu eletto capitan generale della lega guelfa toscana dopo la sconfitta di Montecatini. Il Conte la presentò al suo cognato. Trovato dopo molti anni fra le carte del re, come filosofo e amatore della poesia, per esser possessore del codice, Roberto fu stimato addirittura autore del libro, e sotto tal nome è giunto sino a noi.

CLXXIII. Ma il tempo ha fatto scoprire il codice originale di Graziuolo, moltissimo più corretto che non è il testo stampato, nel quale si legge una lunga lettera dedicatoria dell' autore in latino, che comincia: «Illustrissimo , excellentissimo domino, domino Beltrame de Baucio, clarissimo comiti Montiscaveosi, Gratiolus de Bambusolis, bononiensis, exul immerite, et olim civitatis Bononiae cancellarius, humilis servus etc. etc.». E così il nome di re Roberto è giunto insino a noi circondato di tre corone, di re, di filosofo e di poeta; e il nome dell' autore del Trattato delle virtù morali, il povero Graziuolo, immeritamente proscritto, è rimasto finora sepolto nell' oblio.

CLXXIV. A molti rincrescerà il veder così ad un tratto, e direi senza altra forma di processo, toglier via a Pier delle Vigne, a Federigo II, al Notare da Lentino, a Guido Guinizelli, ai Ruggeri, a Bonaggiunta da Lucca, a re Roberto, e agli altri autori quelle poesie che oramai da tanto tempo sono state credute parto del loro ingegno , e come tali si trovano citate in mille volumi dagli scrittori d' ogni maniera. Io risponderò, che dovendosi col tempo a questo finalmente venire, meglio ora che poi onde evitar per l' avvenire que' tanti errori onde ridondano i volumi di quelli che hanno scritto della storia letteraria d' Italia.

CLXXV. Per questa medesima ragione son certo, che non potrà se non riuscir caro agli amatori della nostra letteratura primitiva, il veder confermate e autenticate ai loro veri e legittimi autori (con la grande autorità del libro reale), le poesie già conosciute, edite o inedite, le quali si possono certamente e fermamente dire autentiche, purché si trovino sotto il medesimo nome nel libro reale, che per la sua maggior antichità, e maggior correzione, e per la somma diligenza, e pel savio discernimento di chi lo compose, d' or innanzi è destinato a servir di norma a tutti gli editori di rime antiche.

CLXXVI. Già si sarà da molti notato, in queste poche righe di prefazione, e meglio si scorgerà nel progresso della medesima, che i primi autori italiani che dettarono versi volgari, per lo più, non son da me chiamati poeti ma trovatori; il che non essendo avvenuto a caso, ma per deliberato consiglio, e per un sistema da me adottato di chiamarli trovatori, e non poeti, mi è d' uopo dover ora render ragione di questa novità.

CLXXVIL Impropriamente, al mio parere, furon chiamati finora poeti tutti quelli che dettaron versi volgari ne' primi principii della lingua italiana; e son di avviso che una distinzione tra i trovatori e i poeti era, ed è, e sarà sempre necessaria per la più facile intelligenza degli andamenti della poesia medesima, e per poter meglio rendersi ragione della gran trasformazione che subiva sul principio della seconda metà del dugento, e della gran diversità che corre tra la maniera di trovare della prima, e la maniera di poetare della seconda metà di quel secolo.

CLXXVIII. Al contrario dei provenzali, che chiamarono sempre trovatori anche i loro poeti, gl'italiani chiamarono tutti poeti anche i primi trovatori. Eppure essendo i trovatori e i poeti una cosa tanto diversa, ben si conviene che con diversi nomi sieno chiamati. Quella gran mente di Dante Allighieri ben seppe distinguere i due diversi modi di poesia, e 'l primo fece sentire, così per incidenza ragionando, che come diversi di sostanza, così dovevansi con diverso nome chiamare, là dove nel libro della volgar eloquenza lasciò scritto: «Ci ricordiamo avere spesse volte quelli, che fan versi volgari, per poeti nominati; il che senza dubbio ragionevolmente avemo avuto ardimento di dire; perciò che sono veramente poeti, se dirittamente la poesia consideriamo; la quale non è altro che una finzione rettorica e posta in musica. Nondimeno sono differenti dai grandi poeti, cioè dai regolati, perciò che questi (i poeti) hanno usato sermone ed arte regolata, e quelli (i trovatori), come si è detto, hanno ogni cosa a caso».

CLXXIX. Non saprei addurre miglior diffinizione dei trovatori, di quella che ci dà il sommo poeta, cioè quelli dicitori in rima «che hanno ogni cosa a caso»; e se questa sia esatta diffinizione, basterà leggere alcune composizioni dei più chiari trovatori, che cominciano e proseguono e finiscono senz' alcun principio d' arte, ma così a caso, come viene viene, e confrontarle con due soli versi delle composizioni dei veri poeti, nei quali l' arte fece l' estremo di sua potenza.

CLXXX. E senza scostarsi dai più famosi trovatori, noi leggiamo in Federigo II:

Di dolor mi conviene cantare,
Com altr' uom per allegranza.

E in Guido Guinicelli:

Contro lo mio valore
Amor mi face amare
Donna di grand' affare.

E in messer Rinaldo d' Aquino:

Venuto m' è in talento
Di gio' mi rinovare.

CLXXXI. Ora sentiamo un poeta: Cino da Pistoia, per esempio:

Quand' io pur veggio che sen vola 'l sole,
Ed apparisce l' ombra,
Per cui non spero più la dolce vista,
Né ricevuto ha l' alma come suole
Quel raggio che la sgombra
D' ogni martire, che lontana acquista, ec.

Qual differenza non corre tra l'una e l'altra maniera? Qual fare più franco, più sicuro, più grandioso, più splendido non si vede nel poeta?

CLXXXII. Il trovatore è propriamente quelli che timidamente incomincia a voler esprimere in versi, con linguaggio novo ed incolto, un sentimento come lo prova, un'idea come la pensa; e movendo i primi passi per un mare sconosciuto, procede incerto e dubbioso nel suo verseggiare e tanto semplice nel suo dire, che si accosta alla lingua parlata, e diventa prosaico, senz'arte di eloquenza, e senz' armonia di stile: o se pur tenta innalzare alquanto lo stile, s'intralcia, si confonde, e diventa oscuro. E con questo, nobili pensieri, sempre, veri lampi di genio, qua e là; sentimenti di un' estrema e squisita delicatezza di animo; una grazia che si sente, ma che non si può ridire; vive immagini, voci, maniere, espressioni di tutta evidenza, di una naturalezza sorprendente, e di una proprietà maravigliosa: ecco il trovatore.

CLXXXIIl. Il poeta al contrario trova una lingua già formata, una serie di utili cognizioni, e un ordine d' idee già acquistate. Egli perfeziona e arricchisce quella lingua accresce e allarga la sfera delle cognizioni, e delle idee, aggiunge allo studio della natura il magistero dell' arte, e con più ardito e più robusto volo s' innalza a cantare le armi, l' amore, la rettitudine, la gloria, le maraviglie del creato, e la divina giustizia. Il poeta non si lascia a capriccio guidar dalla fantasia: egli medita e studia, indi sceglie, crivella ben bene, come dice Dante, le parole, e i concetti; e i concetti e le parole ordina in modo, che la poesia acquisti la maggior chiarezza, la maggior evidenza e la maggior armonia possibile: ecco il poeta.

CLXXXIV. E per toccare più addentro de' modi diversi del trovatore e del poeta, e meglio conoscere l' intima essenza e la diversa ragione della loro poesia, il trovatore non sa cantare che di amore, e di un amore sovente fantastico, qual non esiste, e non può esistere in natura, e tutte le sue ispirazioni derivano dal principio romantico cavalleresco, che è il principio dei barbari conquistatori, quando si cominciano a spogliare degli istinti bestiali, e vergognarsi dei loro feroci e brutali costumi. Ad ogni stanza e ad ogni verso dei trovatori incontri le reminiscenze della Tavola Rotonda, e d' altre simili leggende ch' erano la lettura favorita di quei tempi. Delle frasi intere levate di peso da quel libro, son verseggiate nelle loro canzoni, senz' alcun cangiamento. Le allusioni ai fatti, alle donne, agli amori, ai cavalieri, e alle gesta degli eroi del famoso romanzo ricorrono cento volte nei versi dei trovatori.

CLXXXV. Il poeta parla di amore anch' egli, perchè l' amore e i sentimenti tutti delle umane passioni sono il campo favorito, sono il regno della poesia; ma i poeti cantano amori possibili, amori reali, amori sovente esaltati, ma che non escono dai termini del vero. L'ispirazione del poeta non è più il solo principio romantico cavalleresco, ma vi se ne aggiungono ancora degli altri ben più nobili e più ricchi di grandi affetti e di grandi passioni, come il principio filosofico, il religioso, e soprattutto il patriottico, se non sempre nel tema del canto, almeno in questa veduta, che il poeta spera col suo canto render la patria più illustre e più gloriosa.

CLXXXVI. I trovatori, per lo più, scrivono per solo diletto, e a sfogo dell' amore o dell' odio personale che li agita. Scherzano volentieri sopra le cose religiose, e ridonsi dei più sacri doveri del cristiano, perchè non conoscono quanto vi ha di santo e di augusto nella religione, e non sentono quanto vi ha di sublime e di terribile nel pensiero dell' infinita grandezza dell' Onnipossente. I poeti veri hanno e dimostrano sempre un gran concetto della divinità, e un rispetto grandissimo per le cose attenenti alla religione -, essi tendono all' ammaestramento non meno che al diletto degli uomini; un principio filosofico, e un principio religioso domina sempre nelle composizioni del vero poeta, ond' è che si veggono sparse di belle sentenze morali, e di massime di sana filosofia.

 
 
 

Rime di Celio Magno (361-362)

Post n°1142 pubblicato il 26 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Rime di Celio Magno

361

Al molto magnifico signor Francesco Melchiori

Leggete prima insin al fine, e poi,
se vi parrà, vi mareviglierete;
né legger diece versi o più v'annoi,
ché l'onesta cagione intenderete
c'ha fatto ch'or io vi saluti e scriva:
il qual chi sia forse non conoscete.
Io vi conosco bene, e sempre viva
tengo di voi memoria dentro il core,
e la terrò finché mi regga e viva.
Ma per disporvi la cagione fuore
del scriver mio sì baldanzosamente
in questo fantastico tenore,
sappiate che m'ha posto questo in mente
uno messer Orazio Toscanella,
osservator di voi ben diligente:
ed ogni giorno di voi mi favella
e mi rafferma che pur non si move
parte in voi che non sia perfetta e bella.
Mi dice quanto a le sorelle nove
voi sete caro, quanta in voi dal cielo
gentileza, bontade e grazia piove.
Io sto ad udirlo come un [ ]
e [ ] che son fatto tanto vostro
che non ho in me, che non sia vostro, un pelo.
Or, s'io fossi un'altr'io, più carta e inchiostro
consumerei per rendermivi amico
con dir: — Alto valor del secol nostro; —
ma perché 'n tal lusinghe i' non m'intrico
e andar mi piace ognor a la carlona,
quel c'ho nel cor puramente vi dico.
Io dunque sono una certa persona
c'ha desiderio d'esser di quelli uno
c'han la vostra amistà verace e buona.
E vi dico ch'aver dove alcuno
che v'ama quanto me: ma che mi passi,
per santa [ ], non ve n'è nessuno.
E s'averrà ch'io possa opera e passi
spender per voi con l'alma e ogni altra cosa,
vedrete ben se 'n vostro pro fien lassi.
E benché questa penna sia stat'osa
dimandar quel di ch'io son forse indegno,
ne la vostra bontà pur si riposa:
sperando ch'ella me ne farà degno,
ed accettando il mio voler perfetto
l'alta dimanda mia non avrà a sdegno.
Onde; perché tal cosa io mi prometto,
e mi par già sentir risposta tale:
— Fratel, per quel che vuoi, ti tengo e accetto, —
non have [ ] ancor [ ] quale
sia 'l stato della mia vita; sappiate
che non ho qui la stanza principale.
Io stanzio d'Adria ne l'acque salate,
dico in Venezia, e vengo alcuna volta
a goder queste dolci alme contrate;
e mi sto finché dura la ricolta,
poi volgo i passi all'antico soggiorno
dov'è la nostra famigliuola accolta,
ed ora tosto vi farò ritorno,
da poi che l'aere si rinfresca e 'l sole
ne comincia a menar più breve il giorno.
Però se voi darete, il che far suole
la gentileza vostra, a me risposta,
fate la mansione in tal parole:
— A Celio amico questa in man sia posta. —
Ditemi pur amico, e poi leggiero
se mi sopranomase ben; sua posta
farete poi di sotto: — A San Severo,
preso il fornaro su la fondamenta, —
e darla poi potrete al messaggiero;
o vero, acciò non giunga tarda e lenta,
indrizzar la potrete a queste sponde
per cui l'Adige e l'acque il freno allenta.
Di qui meser Orazio a le nostr'onde
me la rimanderà, né più sicura
credo ch'ella venir mi possa altronde.
Ma per non occuparvi in più lettura
facci qui fine, e a voi mi recomando
con tutto 'l cor, senza fin e misura.
A vederci dapoi, fin Dio sa quando.

362

Pignoccae, marzapani e calissoni,
frittole, torte, gnocchi e zanzarelle,
sé tutte cantafole e bagatelle,
fia mia, respetto ai vostri macaroni.
Potta de san Custù, mò i sé pur boni!
Mò i dà del becco pur fin a le stelle!
La mia gola, la panza e le buelle
va in gloria e in paradiso a 'sti bocconi.
Che ghe avèu messo dentro, cara fia,
che me sa cussì ben e me deletta?
Mò i sé pur rari, Verzine Maria!
Però siéu mille volte benedetta
e ringrazià de tanta cortesia;
ma ve priego, insegneme la recetta.
Benché la sé più schietta
e più segura co mi ghe ne voio,
che vegna a far un puocotin de broio
per no dar in t'un scoio.
Ch'altri, certo che vu, no reinsirà,
a farli bon de sta carattà.
Perché sta so bontà
no vien tanto dall'esser impastai
de bone cose, e meio governai,
se ben questo sé assai;
quanto perché cussì rara vivanda
ha preso qualitae da chi la manda;
ch'è de bontà sì granda
de costumi, de grazia e de bellezza,
retratto proprio de delicatezza
e d'ogni zentilezza.
In summa tutto in vu sé bello e bon
sora la brocca de perfezion.
E però con rason
mi v'amo, e sì ve priesio e reverisso
e adesso più che mai ve benedisso.
Ma ben e v'avertisso
che vu tegnì secreta sta vertù,
azzò che no la galda altri che nu.
Che se 'l se sa che vu
i fe' cussì eccellenti e cussì boni,
inviaré un perdon de macaroni,
e tutti in zenocchioni
ve pregherà che ghe ne dé a cercar:
e stare' tutto 'l dì sul menestrar
e su l'infornaciar;
che vu, che sé l'istessa cortesia,
no ve soffrirà 'l cuor mandarli via.
Donca tasé, fia mia:
feghene per mi solo; e quando che
per grazia vostra me ne mandaré,
più che spesseghiré
e più che vederò 'l piatto mazor,
tanto più caro me sarà 'l favor.

 
 
 

Il Dittamondo (5-21)

Post n°1141 pubblicato il 26 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO QUINTO

CAPITOLO XXI

La novitá de’ volti, ch’io vedea,
diletto m’era; e nondimen temenza
de’ feri denti alan, mirando, avea: 

perché, quando venia in lor presenza, 
digrignavano il ceffo, come i cani 5 
a l’uom, del qual non hanno conoscenza. 
Passato per li poggi e per li piani 
di questa gente, un’altra ne trovai 
di vita e di natura molto strani. 
"O cara spene mia, diss’io, che m’hai 10 
guidato in queste strane regioni, 
dimmi chi son costor, s’a mente l’hai". 
"Agriofagi li nomo e, se ragioni 
di lor, dir puoi che quei cibi, ch’essi hanno, 
pantere sono e carne di leoni 15 
(cosí rispuose) e loro signor fanno 
colui c’ha solo un occhio ne la testa 
e dietro a lui e a le sue leggi vanno". 
Fra me pensai allora e dissi: "Questa 
gente fa come lupa in sua lussuria, 20 
che ’l piú cattivo, quando dorme, desta". 
Poi il domandai se fanno altrui ingiuria. 
Rispuose: "No, se per alcuno oltraggio, 
sí come avièn, non fosson messi in furia". 
Cercato noi quel paese selvaggio 25 
e visto ch’altro da notar non v’era, 
Solin si mosse e prese il suo viaggio. 
Sempre da la sinistra il Nilo ci era 
ed era da la destra un ricco fiume, 
lo qual porta oro per la sua rivera. 30 
Non molto lungi al cerchio, ove il gran lume 
si truova, da poi che la sera vene, 
gente trovammo con fiero costume. 
"Qui, mi disse Solino, ir si convene 
col cuor sospeso e con gli occhi accorti 35 
a’ piè mirarsi, a voler far bene. 
Gli Antropofagi son questi c’hai scorti, 
tanto crudeli e di sí triste foggi, 
che mangiano de l’uomo i corpi morti". 
"Per Dio!, diss’io, fuggiam tosto quei poggi 40 
e, se t’incresce sí che non possi ire, 
quanto tu puoi fa che a me t’appoggi". 
Un poco rise, udendomi ciò dire; 
poi disse: "Non temer, ché giá qui fui 
e senza danno mi seppi partire". 45 
A l’atto e al parlar, ch’io vidi in lui, 
pensai fra me: Se pericol ci fosse, 
non riderebbe, come fa, costui. 
Poi seguitò: "Quel ch’a ciò dir mi mosse 
si è che fanno una e altra cava, 50 
dove uom riman talora in carne e in osse". 
Dato le spalle a quella gente prava, 
noi ci trovammo giunti in su lo stremo, 
dove il grande ocean le piagge lava. 
Gente trovammo qui, dove noi semo, 55 
misera tanto ne l’aspetto, ch’io 
fra me, per la pietá, ancor ne gemo. 
Ahi quanto ha bene da lodare Iddio 
colui, che ’n buon paese e degno nascia, 
ed esser suo col cuore e col disio! 60 
Questa gente, ch’io dico, il corpo fascia 
da lo bellico in giú di frondi c’hanno 
e l’altra parte tutta nuda lascia. 
Lo piú del tempo come bestie vanno 
in quattro pie’; di locuste e di grilli 65 
la vita loro i miseri fanno. 
Non san che casamenti sian né villi; 
tane e spilonche sono i loro alberghi; 
or qua or lá ciascun par che vacilli. 
Dietro Atalante e Morocco hanno i terghi; 70 
gli ultimi questi sono nel ponente, 
neri a vedere come corbi o merghi. 
Io dimandai Solino: "Questa gente 
come si noma? E contami ancora 
se cosa da notar ci ha piú niente". 75 
"Artabatici, mi rispuose allora, 
nomati sono e per questo diritto 
niente piú, che sia da dir, dimora. 
Ma vienne omai, ch’assai di loro è ditto". 
E qui si volse in verso il mezzogiorno 80 
per quel cammin, ch’è dal sol secco e fritto. 
Sol rena e acqua ci parea d’intorno: 
e ’n questo modo camminammo tanto, 
che in Etiopia entrammo da quel corno. 
Vero è che noi ci lasciammo da canto 85 
li Pamfagi, Dodani e piú molti altri, 
che andarli a ritrovar sarebbe un pianto. 
"Qui si convien passare accorti e scaltri, 
disse Solin, ché ci ha diversi popoli 
ch’a’ lor son crudi e via peggiori in altri. 90
E fa che quel ch’è bello in fra te copoli".
 
 
 

I Trovatori (10)

Post n°1140 pubblicato il 26 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
 

Dalla Prefazione di "Poesie italiane inedite di Dugento Autori" dall'origine della lingua infino al Secolo Decimosettimo raccolte e illustrate da Francesco Trucchi socio di varie Accademie, Volume 1, Prato, Per Ranieri Guasti, 1847, pag. LXVIII-LXXV

CXLV. Nel libro reale adunque si leggono le canzoni dei seguenti trovatori. E prima Ruggieri di Amici siciliano, III canzoni.

Dolce cominciamento.
Sovente amor mi ha ricorso innanti.
Lo mio cor che si stava.

La prima è stampata nella raccolta fiorentina, sotto nome di Iacopo da Lentino. La seconda si trova sotto nome di Bonaggiunta Urbiciani da Lucca, scorrettissimamente stampata, e comincia in questo modo:

Sovente amor aggio visto manti.

La terza è del pari edita sotto nome di Bonaggiunta da Lucca; ma la maniera è molto più antica, e la lingua e lo stile della canzone precisamente somigliano allo stile e alla lingua di Ruggieri di Amici, come attesta anche il libro reale. Che non sia di Bonaggiunta da Lucca lo prova ancora il commiato della canzone:

Canzonetta gioiosa,
Partiti, e vanne a lo regno.

CXLVI. Paganino da Sarzana, I canzone.

Contr' a lo mio volere.

Si trova a stampa sotto nome di Guido Guinizelli. La maniera di questa canzone evidentemente è più antica, e differisce moltissimo dallo stile proprio di Guido Guinizelli.

CXLVII. Ser Istofane protonotaro da Messina, I canzone.

Assai cretti celare.

L' Allacci la pubblica sotto nome di ser Istofane da Messina: il Valeriani, credendo che l' Allacci avesse errato, la riproduce sotto nome di Pier delle Vigne. Il libro reale la restituisce al suo vero autore, ser Istofane da Messina.

CXLVIII. Iacopo Mostacci, II canzoni.

Allegramente eo canto.
Di sì fina ragione.

La prima è pubblicata dall' Allacci, e attribuita a Ranieri da Palermo: la seconda si legge stampata nella raccolta fiorentina, sotto nome di Ruggeri di Amici.

CXLIX. Ruggieri Pugliese, II canzoni.

In alta donna ho messa mia intendanza.
Uno piacente sguardo.

La prima è attribuita a Galletto da Pisa, dal Crescimbeni: la seconda a Pier delle Vigne dagli editori della raccolta giuntina, e il nome di Ruggieri Pugliese è rimasto finora sconosciuto.

CL. Neri Poponi, I canzone.

Dogliosamente e con gran malenanza.

Edita nella raccolta fiorentina, sotto nome di Freddi da Lucca, e scorrettissimamente, e comincia in questo modo:

Dogliosamente e con grand' allegranza.

Che è un controsenso: e il nome del vero autore è rimasto finora sconosciuto.

CLI. Messer Prinzivalle Doria, I canzone.

Come lo giorno grande dal mattino.

Si trova a stampa sotto nome di Semprebene da Bologna, e mancante dell' ultima strofe. Il nome del vero autore è rimasto finora sconosciuto.

CLII. Caccia da Siena, I canzone.

Per forza di piacer lontana cosa.

Edita nella raccolta fiorentina, sotto nome di Mino di Federigo.

CLIII. Ser Bonaggiunta da Lucca, II canzoni.

Un giorno ben avventuroso.
Lo fin pregio avanzato.

Si legge la prima a stampa sotto nome d' Inghilfredi siciliano; e la seconda sotto nome di Guido Guinicelli nella raccolta fiorentina.

CLIV. Don Arrigo, I canzone.

Amando con fin pregio e con speranza.

Edita sotto nome di Pier delle Vigne: e 'l nome dell' autore è rimasto finora sconosciuto.

CLV. Camino Ghiberti di Firenze, II canzoni.

Lontan vi son, ma presso v' è lo core.
Poiché sì vergognoso.

Edite entrambe sotto nome di Amorozzo di Firenze: e il nome dell' autore è rimasto finora sconosciuto.

CLVI. Pier Moronelli di Firenze, II canzoni.

Donna amorosa.
Poich' a voi piace, amore.

Edita la prima nella raccolta fiorentina, sotto nome di Bonaggiunta da Lucca; e la seconda nelle rime antiche, sotto nome di Federigo II: e il nome del vero autore è rimasto finora sconosciuto.

CLVII. Neri Visdomini, I canzone.

Perciò che 'l cor si dole.

È attribuita a messer Rinaldo d' Aquino: e il nome dell' autore è rimasto finora sconosciuto. Un soaeUo del medesimo autore:

Come l' argento vivo fugge 'l fuoco,

trovasi nella raccolta fiorentina stampato, soiio nome di ser Iacopo da Lentino.

CLVIII. Guido Orlandi, I sonetto.

Chi se medesmo inganna per negghienza.

Edito sotto nome di Bonaggiunta da Lucca nelle rime antiche, e sotto nome di Lapo Salterello nella raccolta fiorentina; è restituito al suo vero autore Guido Orlandi dal libro reale.

CLIX. La confusione e il disordine che regna nelle rime de' trovatori antichi si riproduce nelle rime dei poeti del trecento e del quattrocento, e del cinquecento, quando pare che l' invenzione della stampa avesse dovuto ovviare in gran parte a questi disordini.

CLX. Ma qui ci manca per andar innanzi con sicurezza la guida e la grande autorità del libro reale; e qui farem fine, per non entrar in qualche pericoloso laberinto, alla rassegna critica delle rime antiche. Non lascerem però di notare alcuni altri errori più evidenti; i quali basterà accennare, perchè dagli uomini di senno e di buona fede, senz' altra prova, sieno riconosciuti. Così la canzone:

Deo, poi m' hai degnato,

nel codice di Pier del Nero 2846 riccardiano, ha per titolo «Non so di chi», e va stampata sotto nome di Cino da Pistoia -, ma è di una maniera piìi antica almeno quarant'anni, dei tempi di Gino da Pistoia; e in un codice antico vaticano sta sotto nome di Noffo d' Oltrarno, ed è tutta sua maniera.

CLXI. La canzone:

Non spero che giammai per salute,

attribuita a Dante nelle rime antiche, sta nel codice 7767 della biblioteca reale di Parigi, sotto nome di Sennuccio del Bene: ma Dante nel suo libro della volgar eloquenza la restituisce a messer Gino. All' opposto la canzone che comincia:

Avvegna eh' io nggia più volte per tempo,

che va stampata sotto nome di Guido Guinizclli nell' Allacci, e nella raccolta fiorentina, si trova nel medesimo codice in foglio 7767 della biblioteca nazionale di Francia sotto nome di Gino, con queste precise parole: «Canzone di messer Cino da Pistoia a Dante Allighieri, in morte di Beatrice». E così nel codice 3i2l3, in foglio, vaticano, e nel codice 1118, in quarto, riccardiano, e nel codice del Redi; e Dante stesso nel libro della volgar eloquenza la restituisce a messer Cino.

CLXII. La canzone morale inedita che comincia:

Quella virtù che il terzo cielo infonde,

si trova nel codice XIV -4:2 casanatense (biblioteca della Minerva di Roma), sotto nome di Bindo Bonichi-, in un codice Biscioni, sotto nome di Fazio degli Uberti: ma la maggiorità dei codici riccardiani, palatini e vaticani la restituiscono a maestro Bartolommeo da Castel della Pieve.

CLXIII. E al medesimo Bartolommeo da Cstel della Pieve si deve restituire la canzone:

Cruda, selvaggia, fuggitiva fiera,

stampata sotto nome di Franco Sacchetti, dietro la Bella Mano di Giusto de' Gonti, ed anche fra le poesie liriche del Boccaccio nella raccolta palermitana del Villarosa; perchè in molti codici vaticani, laurenziani, riccardiani, e parigini, si trova ripetutamente sotto nome di maestro Bartolommeo, insieme con le altre poesie liriche dello stesso autore. Mentre all' opposto nella raccolta compiuta di tutte le poesie di Franco Sacchetti, in tre volumi in foglio, non si trova, e neppure nel codice del Giraldi, o nel codice del Biscioni, o nel codice del Redi, che tutti contengono tutte le poesie di Franco Sacchetti.

CLXIV. I quali codici tutti, Redi, Biscioni, Giraldi 3 volumi in foglio, e di più un riccardiano, e un vaticano, e un parigino, contengono tutti la caccia:

Passando con pensier per un boschetto,

di Franco Sacchetti, attribuita in alcune raccolte di rime antiche a Ugolino Ubaldini, e in alcune altre, come in quella dell' Atanagi, edita senza nome di autore. Crescimbeni giudica esser di certo di Ugolino Ubaldini; e così il Zilioli nella sua storia manoscritta dei poeti volgari, e il Perticari nella difesa di Dante. L' Atanagi stimò quella caccia «una reliquia della purità naturale dell' antica lingua toscana», e il Perticari opina che essere stimato autore di tal poesia, è tal gloria da farne onorato non solo un uomo ed una città, ma un' intera provincia. Ma il Crescimbeni e il Zilioli e l' Atanagi e il Perticari furono grandemente indotti in errore, poiché questa caccia, simile alle altre del medesimo autore, che per la prima volta vengono a luce in questa nostra raccolta, si deve assolutamente restituire, per l' autorità dei codici suddetti, e di molti altri ancora che non occorre citare, a Franco Sacchetti.

CLXV. Una ballata, che si trova stampata, e dal Crescimbeni attribuita a ser Salvi sulla fede di un codice chisiano, sta nel codice 1110 riccardiano, sotto nome di ser Durante da Saraminiato. E la canzone:

Il se non fosse il poco 'l meno e 'l presso,

che si legge a stampa sotto nome di Guido Cavalcanti nella raccolta palermitana del Viilarosa e in altri volumi, sta nell' antico codice strozziano 991 sotto nome di Cortese da Siena.

CLXVI. Il sonetto:

Spesse volle ritorno al dolce loco,

pubblicato dal Crescimbeni sotto nome di Meuzzo dei Tolomei, sta nel bellissimo codice 1118 riccardiano, del secolo decimosesto, sotto nome di Fazio degli Uberti.

CLXVII. Il madrigale:

Perchè piangi, alma, se del pianto mai,

che nel testo a penna 719 magliabechiano sta sotto nome di Girolamo Cittadino, si trova a stampa nelle rime oneste del Mazzoleni, sotto nome di messer Iacopo Sannazzaro.

CLXVIII. E il sonetto:

Quando al mio ben fortuna aspra e molesta,

edito nella raccolta del Dolce, e in quella dell' Atanagi, sotto nome di Claudio dei Tolomei, si legge nel medesimo testo a penna 719 magliabechiano con questo titolo, a chiare note: «del reverendissimo de' Medici alla illustrissima donna lulia Gonzaga»; cioè del cardinale Ippolito de' Medici, e si trova in mezzo agli altri sonetti del medesimo cardinale.

 
 
 
 
 

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