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Messaggi del 15/03/2015

Alcune Facezie di Leonardo

Post n°1372 pubblicato il 15 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

L'uomo con la spada.

Uno vede una grande spada allato a un altro e dice: "O poverello! Ell'è gran tempo ch'io t'ho veduto legato a questa arme: perché non ti disleghi, avendo le mani disciolte e possiedi libertà?".
Al quale costui rispose: "Questa è cosa non tua, anzi è vecchia". Questo, sentendosi mordere, rispuose: "Io ti conosco sapere sì poche cose in questo mondo, ch'io credevo che ogni divulgata cosa a te fussi per nova".

Due viandanti nella notte.

Due camminando di notte per dubbiosa via, quello dinanzi fece grande strepido col culo; e disse l'altro compagno: Or veggo io ch'i son da te amato". "Come?", disse l'altro. Quel rispose: "Tu mi porgi la correggia perch'io non caggia, né mi perda da te".

La stessa.

Uno disse a un altro: "Tu hai tutti li occhi mutati in istran colore". Quello li rispose: "Egli è perché i mia occhi veggono il tuo viso strano".

Il paese in cui nascevano le cose più strane.

Uno disse che in suo paesenasceva le più strane cose del mondo. L'altro rispose: "Tu che vi se' nato, confermi ciò essere vero, per la stranezza della tua brutta presenza".

Un pittore dai brutti figli.

Fu dimandato un pittore, perché facendo lui le figure sì belle, che eran cose morte, per che causa avessi fatto i figlioli sì brutti. Allora il pittore rispose che le pitture le fece di dì e i figlioli di notte.

Il tavolaccio e la lancia.

Uno, vedendo una femmina parata a tener tavola in giostra, guardò il tavolaccio e gridò vedendo la sua lancia: "Oimè, quest'è troppo picciol lavorante a sì gran bottega!".

 
 
 

Er Leone e er Conijo

Post n°1371 pubblicato il 15 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Er Leone e er Conijo

Un povero Conijo umanitario
disse ar Leone: - E fatte tajà l'ogna!
Levate quel'artiji! E' 'na vergogna!
Io, come socialista, so' contrario
a qualunque armamento che fa male
tanto a la pelle quanto a l'ideale.

Me le farò spuntà...- disse el Leone
pe' fasse benvolé dar socialista:
e agnede difilato da un callista
incaricato de l'operazzione.
Quello pijò le forbice, e in du' bòtte
je fece zompà l'ogna e bona notte.

Ecchete che er Conijo, er giorno appresso,
ner vede un Lupo co' l'Agnello in bocca
dette l'allarme: - Olà! Sotto a chi tocca!...-
El Leone je chiese: - E ch'è successo?
Corri! C'è un Lupo! Presto! Daje addosso!
Eh! - dice - me dispiace, ma nun posso.

Prima m'hai detto: levete l'artiji,
e mó me strilli: all'armi!...E come vôi
che s'improvisi un popolo d'eroi
dov'hanno predicato li coniji?
Adesso aspetta, caro mio; bisogna
che me dài tempo pe' rimette l'ogna.

Va' tu dal Lupo. Faje perde er vizzio,
e a la più brutta spaccheje la testa
coll'ordine der giorno de protesta
ch'hai presentato all'urtimo comizzio...
Ah, no! - disse er Conijo. - Io so' fratello
tanto del Lupo quanto de l'Agnello.

Trilussa

 
 
 

La favola vera

Post n°1370 pubblicato il 15 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

La favola vera

La sera s'avvicina
e l'ombre de le cose se ne vanno.
Nonna e nipote stanno
accanto a la finestra de cucina.
La vecchia regge la matassa rossa
ar pupo che ingomitola la lana:
er filo passa e er gnómmero s'ingrossa.
— Nonna, dimme una favola... — Ciò sonno...
— Quella dell'Orco che scappò sur tetto...
È vero o no che l'ha ammazzato nonno?
È vero o no che venne a casa tua
una matina mentre stavi a letto?
Che te fece? la bua?
E perché se chiamava l'Orco nero?
era cattivo, è vero?
— Era giovene e bello!
— dice piano la vecchia e aggriccia l'occhi
come pe' rivedello —
Ciò ancora ne l'orecchia li tre scrocchi
che fece nonno ne l'aprì er cortello... —
La nonna pensa e regge la matassa
ar pupetto che ignómmera la lana;
se vede un'ombra: è un'anima che passa...
che spezza er filo rosso e s'allontana...

Trilussa

 
 
 

Li perfidi e l'ipocriti

Post n°1369 pubblicato il 15 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Li perfidi e l'ipocriti

Te dò 'n cazzotto 'n punta a la ciafrocca,
pe' vvéde si fa mmale veramente.
Ma no, ggiocavo, nun è vvero gnente,
te dò 'na ginocchiata su la bbocca.

Te pare che stò a ddì 'na cosa sciocca,
ma, si ciabbadi, vedi che la ggente
de te se ne strafotte totarmente
e tte fa mmale puro si nu' sbrocca.

Chissà perché c'è ttanta cattiveria,
aggratise, nimmanco ce guadambi;
è 'na faccenda che mme sembra seria.

Ma poi si gguardi a cqueli che só' bboni,
che dicheno de l'artri che só' strambi,
de ppiù girà te fanno li cojoni.

Valerio Sampieri
1-15 marzo 2015

 
 
 

La carriera der porco

Post n°1368 pubblicato il 15 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

La carriera der porco

Una vorta un Maiale d'ingegno,
che veniva da un sito lontano,
chiese aiuto a un Somaro italiano
de trovaje un impiego in città.
Er Somaro je disse: — M'impegno
volentieri de datte 'na mano
se me dichi per filo e per segno
qual'è l'arte che mejo sai fa'.
Vendi er vino? — Nun posso soffrillo,
me fa male sortanto a odorallo.
— Sei droghiere? — Nemmanco a pensallo!
So' nervoso e nun pijo caffè.
— Sei tenore? — Pe' gnente! Se strillo
me viè fòra la voce der gallo...
— Se è così torna a casa tranquillo
ché 'sti posti nun fanno pe' te.
— Io, però, — disse allora er Maiale —
faccio er porco, e de più ciò pe' moje
la più bella fra tutte le troje,
co' cert'occhi che fanno incantà.
L'ho sposata, ma è un nodo legale
ch'ogni tanto se lega e se scioje...
— S'è così — disse er Ciuccio nostrale —
resta qui, ché l'affare se fa.

Trilussa

 
 
 

Il Trecentonovelle 85-89

Post n°1367 pubblicato il 15 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

Il Trecentonovelle
di Franco Sacchetti

NOVELLA LXXXV

Uno Fiorentino toglie per moglie una vedova stata disonestissima di sua persona, e con poca fatica la gastiga sí ch'ella diviene onesta.

Nella città di Firenze fu già uno, secondo che io udi', che ebbe nome Gherardo Elisei, il quale tolse per moglie una donna vedova; la quale essendo disonesta e vana con l'altro marito, era stata tenuta assai cattiva di sua persona; e avea nome monna Ermellina. Ora, come questo Gherardo tolse questa donna per moglie, molti suoi parenti e amici, anzi che consumasse il matrimonio, dicono:
- Gherardo, che hai tu fatto? tu sei savio, e hai tolto cui tu hai: che fama ti fie questa? - e molte altre cose.
Dice Gherardo:
- Io vi fo certi che io so chi costei, che io ho tolto, è stata: e so che, s'ella non mutasse modo, io averei mal fatto; ma con la grazia di Dio io credo far sí che con meco ella non fia com'ella è stata, ma fia tutto il contrario; e però di questo non ne prendete piú pensiero che me ne prenda io.
La brigata si strignea nelle spalle, e tra loro se ne facean beffe, dicendo:
- Dio ti dia bene a fare.

E cosí dopo alquanti dí monna Ermellina ne venne una sera a marito, e avendo cenato, ed essendo l'ora d'andarsene al letto, n'andò alla camera, là dove Gherardo ancora si rappresentò, com'è d'usanza; e serrato, monna Ermellina, accostandosi al leccone, comincia a ragionare amorosamente col detto Gherardo; e Gherardo si comincia a spogliare in farsettino, e monna Ermellina in giubba. Ed essendo le cose tutte ben disposte a tal vicenda dalla parte di monna Ermellina detta, e Gherardo esce dall'uno de' canti della camera con un bastone in mano, e dà, e dà, e dà alla sposa novella. Costei comincia a gridare, e quanto piú gridava e Gherardo piú bastonava. Quando ebbe un pezzo cosí bastonato, e la donna dicendo:
- Oimè, fortuna, dove m'hai tu condotto? ché, senza saper perché, la prima sera io sono cosí acconcia da colui con cui io credea aver sommo piacere; volesse Dio che io mi fosse ancora vedova, ché io era donna di me, e ora sono sottoposta in forma e a cui io non sarò mai piú lieta.
E Gherardo rifà il giuoco; e bussato insino dove volle, e la donna dicendo pur: "Perché mi fa' tu questo?"; e Gherardo gli dice:
- Io non voglio che tu creda, Ermellina, che io t'abbia tolta per moglie che io non abbia molto ben saputo che femina tu se' stata; e bene so, e ho udito che costumi sono stati e' tuoi e quanta onestà è stata nella tua persona; e credo che, se 'l marito che avesti t'avessi gastigata di quello che ora t'ho gastigat'io, queste battiture non bisognavono. E però considerando, ora che se' mia moglie, gli tuoi passati costumi le tue disonestà e' tuoi vituperi non essere stati gastigati, io, innanzi ch'io abbia voluto teco consumare il matrimonio, ho voluto purgare ciò che tu hai fatto da quinci addietro con le presenti battiture; acciò che, considerando tu se per li passati falli da te commessi quando non eri mia moglie io t'ho data disciplina, pensa quella che io farò e che battiture serebbono quelle che da me averai, se da quinci innanzi, essendo mia moglie, di quelli non ti rimarrai, e piú non ti dico: tu se' savia e 'l mondo e grande.

Brievemente, questa buona donna si lagnò assai, e avea di che, facendo scuse di quello che Gherardo dicea. Alla fine s'andò al letto, e non che quella notte, ma durante un mese o piú non gli giovò trovarsi col marito, come quella che era tutta pesta. Di tempo in tempo, rabbonacciandosi con Gherardo, queste battiture ebbono tanta virtú che, com'ella era stata per li passati tempi dissoluta e vana, cosí da indi innanzi fu delle care, delle compiute e delle oneste donne della nostra città.

Oh quanti sono li dolorosi mariti che fanno cattive mogli! piú ne sono cattive per difetto de' mariti che per lo loro. Da' una fanciulla a uno fanciullo e lascia far loro. Che dottrina imprenderà ella dall'ignorante giovane? e quella via ch'ella piglia, per quella corre.
E non si truova sempre il bastone di Gherardo né quello che si conterà nella seguente novella.


NOVELLA LXXXVI

Fra Michele Porcelli truova una spiacevole ostessa in uno albergo, e fra sé dice: "Se costei fusse mia moglie, io la gastigherei sí, che ella muterebbe modo". Il marito di quella muore; Fra Michele la toglie per moglie e gastigala com'ella merita.

Passati sono circa a trent'anni, che fu uno Imolese, chiamato Fra Michele Porcello, il quale era chiamato Fra Michele, non perché fosse frate, ma era di quelli che hanno il terzo ordine di Santo Francesco, e avea moglie, ed era un uomo malizioso e reo, e di diversa maniera; e andava facendo sua mercanzia di merce per Romagna e per Toscana; poi si tornava ad Imola, come vedea che per lui si facesse. Tornando costui una volta tra l'altre verso Imola, giunse una sera a Tosignano, e smontò a un albergo d'uno che avea nome Ugolino Castrone, il quale Ugolino avea per moglie una donna assai spiacevole e smancerosa, chiamata monna Zoanna: sceso che fu Fra Michel da cavallo, e venendosi rassettando, disse all'oste:
- Fa' che noi abbiàn ben da cena; hai tu buon vino?
- Sí bene, voi starete bene.
Disse Fra Michele:
- Deh, fa' che noi abbiamo una insalata.
Disse Ugolino:
- Zoanna, - chiamando la moglie, - va', cògli una insalata.
La Zoanna torce il grifo, e dice:
- Va', co' tela tu.
Il marito dice:
- Deh va' vi.
Ella risponde:
- Io non vi voglio andare.
Fra Michele, veggendo i modi di costei, si rodea tutto di stizza. Ancora, avendo Fra Michele voglia di bere, dice l'albergatore alla moglie:
- Deh va' per lo tal vino.
E porgeli l'orciuolo.
Dice madonna Zoanna:
- Va' tu, che tornerai piú tosto, e hai l'orciuolo in mano, e sai meglio la botte di me.
Fra Michele, veggendo la spiacevolezza in moltissime cose di costei, dice all'oste:
- Ugolino Castrone, tu se' ben castrone, anco pecora; per certo, s'io fosse come te, io farei che questa tua moglie farebbe quello ch'io gli dicesse.
Disse Ugolino:
- Fra Michele, se voi fuste com'io, fareste quel che fo io.

Fra Michele si consumava di nequizia, veggendo i modi fecciosi della moglie d'Ugolino, e fra sé stesso dicea: "Signore Iddio, stu mi facessi tanta grazia che morisse la donna mia e morisse Ugolino, per certo e' converrebbe che io togliessi costei per moglie, per gastigarla della sua follia". Passossi Fra Michele la sera come poteo, e la mattina se n'andò ad Imola.
Avvenne che l'anno seguente in Romagna fu una mortalità, per la quale morí Ugolino Castrone e la donna di Fra Michele. Da ivi a parecchi mesi, cessata la pestilenza, e Fra Michele adoprò tutti gl'ingegni ad avere per moglie madonna Zoanna; e in fine fu adempiuto il suo intendimento. Venuta questa buona donna a marito, e andandosi la sera a letto, dov'ella si credea esser vicitata con quello che sono le novelle spose, e Fra Michele che non avea sgozzato ancor la 'nsalata da Tosignano, la vicita con un bastone, e cominciagli a dare, e sanza restare tanto gli diede che tutta la ruppe; e la donna gridando, egli era nulla, ché costui gliene diede per un pasto, e poi s'andò a dormire.
Da ivi a due sere, e Fra Michele disse ch'ella ponesse dell'acqua a fuoco, che si volea lavare i piedi; e la moglie, che non dicea: "Va', ponla tu", cosí fece; e poi levandola dal fuoco, e messala nel bacino, Fra Michele si cosse tutti e' piedi, sí era calda. Com'egli sente questo, non dice: che ci è dato? ; rimette l'acqua nell'orciuolo, e riposela al fuoco, tanto ch'ella levò il bollore.
Come questo fu fatto, toglie il bacino, e mettevi l'acqua, e dice alla moglie:
- Va', siedi, che io voglio lavare i piedi a te.
Costei non volea; alla fine per paura di peggio le convenne volere. Costui lavala con l'acqua bollente, la donna squittisce: "oimè"; e tira i piedi a sé. Fra Michele gli tira nell'acqua, e dàgli un pugno e dice:
- Tieni i piè fermi.
La donna dice:
- Trista, io mi cuoco tutta.
Dice Fra Michele:
- E' si dice: "Togli moglie che ti cuoca"; e io t'ho tolta per cuocer te, innanzi ch'io voglia che tu cuoca me.
E brievemente, e' la cosse sí, che piú di quindici dí stette che quasi non potea andare, sí era disolata. E un altro dí gli disse Fra Michele:
- Va' per lo vino.
La donna che non potea appena metter li piedi in terra, tolse la 'nghestara, e andava a stento come potea. Com'ella è in capo della scala, e Fra Michele di dietro gli dà un pugno, dicendoli:
- Va' tosto -; e gettala giú per la scala; e poi aggiunge: - Credi tu che io sia Ugolino Castrone, che quando ti disse: "Va' per lo vino"; e tu rispondesti: "Va'vi tu"?
E cosí questa donna Zoanna, cotta, livida e percossa, convenía che facesse quello che quando ell'era sana non volea fare.
Avvenne che un dí Fra Michele Porcello serrò gli usci della casa per fare l'ottava con lei; questa, avvedendosi, fuggí di sopra, e per una finestra d'in sul tetto se n'andò fuggendo di tetto in tetto, tanto che giunse a una vicina di Fra Michele, alla quale venendognene pietà, se la ritenne in casa; e poi alcuno e vicino e vicina, venendo a pregar Fra Michele che ritogliesse la sua donna, e che stesse con lei come dovesse, egli rispose che com'ella se n'era ita cosí ritornasse; s'ella se n'era andata su per le tettora, per quella medesima via ritornasse, e non per altra; e se ciò non facesse, non aspettasse mai di ritornare in casa sua. La vicinanza sappiendo chi era Fra Michele, feciono che su per le tetta, come le gatte, la donna ritornò al macello. Com'ella fu in casa, e Fra Michele comincia a sonare le nacchere. La donna macera e tormentata, dice al marito:
- Io ti priego che innanzi che tu mi tormenti ogni dí a questo modo, senza saper perché, che tu mi dia morte.
Dice Fra Michele:
- Poiché tu non sai ancora perché io fo questo, e io tel voglio dire. Tu ti ricordi bene quando io venni una sera allo albergo a Tosignano, che tu eri moglie d'Ugolino Castrone; e ricorditi tu quando egli ti disse che tu andassi a cogliere la insalata per mi, e tu dicesti: "Va' vi tu"? - E su questa, gli diede un grandissimo pugno; e poi dice:

- E quando disse: "Va' per lo tal vino"; e tu dicesti: "Io non vi voglio andare"? - E dàgliene un altro.
- Allora me ne venne tanto sdegno che io pregai Iddio che desse la morte a Ugolino Castrone e alla moglie che io avea, acciò che io ti togliesse per moglie. Egli, come pietoso esauditore de' miei prieghi, gli mandò ad esecuzione; e ha fatto sí che tu se' mia moglie, acciò che quello gastigamento che 'l tuo Castrone non ti dava, io te lo dea io; sí che ciò che t'ho fatto infino a qui è stato per punirti de' falli e de' fastidiosi tuoi modi, quando eri sua moglie. Or pensa che, essendo tu da quinci innanzi mia moglie, se tu vorrai tener quelli modi, quello che io farò; per certo, ciò che io ho fatto fino a qui ti parrà latte e mele; sí che a te stia oggimai, se tu con le prove e io co' bastoni e con li spuntoni, se bisognerà.
La donna disse:
- Marito mio, se io ho fatto per li tempi passati cosa che non si convegna, tu m'hai ben data la pena. Dio mi dia grazia che da quinci innanzi io faccia sí che tu ti possa contentare; io me ne 'ngegnerò e Dio me ne dia la grazia.
Fra Michele disse:
- Messer Batacchio te n'ha fatta chiara; a te stia.
Questa buona donna si mutò tutta di costumi, come s'ella rinascesse; e non bisognò che Fra Michele adoperasse, non che le battiture, ma la lingua, ch'ella s'immaginava quello che egli dovesse volere, e non andando, ma volando per la casa, e fu bonissima donna.
Io per me, come detto è, credo ch'e' mariti siano quasi il tutto di fare e buone e cattive mogli. E qui si vede che quello che 'l Castrone non avea saputo fare, fece il Porcello. E come che uno proverbio dica: buona femmina e mala femmina vuol bastone; io sono colui che credo che la mala femmina vuole bastone, ma alla buona non è di bisogno; però che se le battiture si danno per far mutare i cattivi costumi in buoni, alla mala femmina si vogliono dare perch'ella muti li rei costumi; ma non alla buona, perché s'ella mutasse li buoni, potrebbe pigliare li rei, come spesso interviene, quando li buoni cavalli sono battuti ed aspreggiati, diventano restii.

 

NOVELLA LXXXVII

Maestro Dino da Olena medico, cenando co' Priori di Firenze una sera, essendo Dino di Geri Tigliamochi gonfaloniere di justizia, fa tanto che 'l detto Dino non cena, volendo dar poi i confini al detto maestro Dino.

Dino di Geri Tigliamochi fu uno cittadino di Firenze mercatante, uso molto ne' paesi di Fiandra e d'Inghilterra. Era lunghissimo e maghero, con uno smisurato gorgozzule; ed era molto schifo d'udire o di vedere brutture, e per questo, favellando mezzo la lingua di là, avea un poco del nuovo. Essendo gonfaloniere di justizia, fece invitare maestro Dino a cena, e 'l detto maestro Dino era vie piú nuovo che 'l detto Dino. Essendosi adunche posti a tavola, il detto gonfaloniere in capo di tavola, e 'l maestro Dino allatogli, e poi era Ghino di Bernardo d'Anselmo, che era priore, e forse componitore col maestro Dino di quello che seguí della presente novella, posta la tavola, fu recato un ventre di vitella in tavola; e cominciandosi a tagliare, dice il maestro Dino a Dino:

- Per quanto mangereste in una scodella, dove fosse stata la merda parecchi mesi?

Dino guarda costui, e turbatosi, dice:

- È mala mescianza a chi è mal costumato; porta via, porta.

Dice il maestro Dino:

- Che è questo che è venuto in tavola? è ancor peggio.

Dino sconvolge il suo gorgozzule:

- E che parole son queste?

Dice il maestro Dino:

- Sono secondo quello che è venuto in tavola per la prima vivanda: confessatemi il vero; non è questo ventre il vasello dove è stata la feccia di questa bestia, poi ch'ella nacque? E voi sete il signore che voi sete, e pascetevi di sí lorda vivanda?

- È mala mescianza, è mala mescianza; levate via, - dice a' donzelli, - e 'n fé del Criatore vo' non ci mangerè plus.

Dino infino a qui non mangiò né del ventre, né alcuna cosa. Levata questa vivanda, vennono starne lesse; e maestro Dino dice:

- Quest'acqua delle starne pute -; e dice allo spenditore: - Dove le comperasti tu?

Dice lo spenditore:

- Da Francesco pollaiuolo.

E maestro Dino dice:

- Egli ne sono venute molte a questi dí, e alcuno mio vicino n'ha comperate, credendo siano buone, poi l'ha trovate tutte verminose; e queste fiano di quelle.

E Dino dice:

- È mala mescianza, mala mescianza, nell'ora mala a tanto scostume -; e dà la sua scodella al famiglio, e dice:

- To' via.

Dice maestro Dino:

- E' mi conviene pur pur mangiare, s'io voglio vivere; lascia stare.

E Dino in gote, e non mangia, e parea il Volto santo.

Levata questa vivanda, vennono sardelle in tocchetto. Dice il maestro Dino:

- Gonfaloniere, e' mi risovviene quando e' miei fanciulli erano piccoli, che uscivano loro i bachi da dosso.

E Dino levasi:

- È mala mescianza a chi è mal costumato; per Madonna di Parigi, che non m'avete lasciato mangiar stasera con sí laida maniera di parlare; ma per mie foi non verrete piú a questo albergo.

Maestro Dino ridea e pregavalo tornasse a tavola, e non ci fu mai modo, ché se ne andò tra le camere, dicendo:

- Nostro Signore vi doni ciattiva giornea; un poltroniere venuto in tal magione, e tiensi esser gran maestro di musica, e le sue parlanze sono piú da rubaldi che votono li giardini che da quelli che debbon dare esempli e dottrine, come doverrebbe dar elli, che si può dire esser vecchio mal vissuto.

Ghino di Bernardo, e gli altri signori, che di ciò avevono grandissimo piacere, si levarono da tavola e andorono dove Dino era, e trovaronlo molto in gran mescianza, e non voler vedere il maestro Dino; pur tanto feciono, che un poco si raumiliò: e maestro Dino con lui a' versi, tanto che si conciliò con lui. Ma poco duroe, però che stando un pezzo, e maestro Dino volendosi partire, disse Ghino di Bernardo:

- Maestro, pigliate commiato da Dino e fategli reverenza.

E 'l maestro Dino piglia per la mano Dino, e dice:

- Messer lo gonfaloniere, con la grazia vostra, datemi licenzia -; e quel li porge la mano; e 'l maestro Dino, pigliandola, subito si volge, e mandate giú le brache, a un tratto gli scappuccia il culo e 'l capo.

Or non piú; Dino si comincia afferrare:

- Pigliatelo, pigliatelo.

Ghino e gli altri diceano:

- O Dino, non gridate; anderemo nell'udienza, e là faremo quello che fia da fare.

Maestro Dino dice:

- Signori, io mi vi raccomando che per aver fatta debita reverenza io non perisca -; e pur scendendo le scale si va con Dio.

Dino, rimaso furioso, la sera medesima va nell'audienza, raguna i compagni, e mette il partito, ché era Proposto, di mandare uno bullettino allo esecutore, e che 'l maestro Dino abbia i confini. Metti il partito, e metti e rimetti, non si poté mai vincere. Veggendo Dino questo, col gorgozzule gonfiato chiama li donzelli che facciano accendere i torchi, ché se ne volea andare a casa. Li compagni scoppiavono delle risa, e diceano:

- Doh, Dino, non andare istasera.

E Dino, brievemente, non rattemperandosi, n'andò a casa, e la mattina fu mandato per lui; e non c'ebbe mai modo che lo dí seguente tornasse in Palagio; tanto che uno de' signori, con uno carbone, nella minore audienza ebbe dipinto nel muro proprio Dino con uno gorgozzule grande, e con la gola lunga, che parea proprio desso. Essendo la sera di notte, che Dino non era voluto tornare in Palagio, vi mandorono li signori ser Piero delle Riformagioni, pregandolo dovesse tornare acciò che e' fatti del comune non remanessino senza governo; e ancora per provvedere che 'l maestro Dino fosse punito del fallo commesso. Dopo molte parole, Dino si lasciò vincere e la mattina seguente tornò al Palagio, e come sul dí giunse nell'udienza minore, ebbe veduto, essendo con Ghino di Bernardo insieme, il viso ch'era stato dipinto nel muro; e guardando quello, cominciò a soffiare: e Ghino dice:

- Deh, lasciate andare queste cose, non ve ne combattete piú.

Dice Dino:

- Come diavolo mi di' tu questo, che m'ha ancora dipinto in questo muro? E se tu non mi credi, vedilo.

Ghino, che scoppiava dentro sí gran voglia avea di ridere, dice:

- Come, buona ventura, vi recate voi a noia questo viso, e dite che sia dipinto per voi? Questo fu dipinto, già fa piú tempo, per lo viso del re Carlo primo, che fu magro e lungo, col naso sgrignuto. E perdonatemi, Dino, che io ho udito dire a molti cittadini che 'l vostro viso è proprio quello del re Carlo primo.

Dino a queste parole diede fede, e ancora si racconsolò, sentendosi assomigliare al re Carlo primo: e stando alquanto, ritornò in sul maestro Dino, e tiratosi nell'audienza, mette a partito el bullettino e' confini, e non si vince, e disperavasene forte. Alla per fine disse Ghino:

- Poiché questo partito non si vince, commettete in due di noi che mandino per lo maestro Dino, e dicangli quello che si conviene, facendogli una gran paura -; e cosí feciono.

E fu Ghino e un altro, che mandorono per lo maestro Dino: e come fu venuto, e Ghino comincia a ridere, e in fine gli disse che Dino il voleva pur per l'uomo morto, e che tutte l'altre cose averebbe dimesse, e datosene pace, salvo che del trarre delle brache. Dice il maestro Dino:

- Egli è una parte del mondo che è grandissima, ed èvvi un re che è il maggiore, e ha molti principi sotto sé, e chiamasi il re di Sara: quando uno fa reverenza a uno di quelli principi, si trae il cappuccio; e quando si fa reverenza allo re maggiore, si cava a un tratto il cappuccio e le brache; e io, considerando il gonfaloniere della justizia essere il maggior signore, non che di questa provincia, ma di tutta l'Italia, volendogli far reverenza, feci il simile che s'usa colàe.

Udendo li due priori questa ragione, risono ancora vie piú, e tornorono a Dino e agli altri, e dissono come aveano vituperato il maestro Dino, e fattogli una gran villania; e che s'era scusato con la tale usanza che è in tal paese; e se cosí era, non aver elli tanto errato; pregando Dino che non se ne desse pensiero, e che a loro lasciassono questa faccenda. Brievemente, a poco a poco Dino venne dimenticando la ingiuria del maestro Dino, ma non sí che non gli tenesse favella parecchi anni; e 'l maestro Dino di ciò ne godea, e dicea:

- Se non mi favellerà, e io non andrò a medicarlo, quando avrà male -; e cosí stettono buon tempo, infino a tanto che 'l maestro Tommaso del Garbo, dando loro a cena una sera un ventre e delle starne, fe' loro far pace.

Sempre conviene che tra' signori officiali e brigate sia uno che pe' suoi modi gli altri ne piglino diletto. Questo Dino fu di quelli: non già per vizio, ma per costume, era biasimevole delle cose lorde, e non volea udire; e perché maestro Dino ebbe piacere, e' dienne a' signori. E però è grazia a Dio d'avere sí fatto stomaco che ogni cosa patisca.


NOVELLA LXXXVIII

Uno contadino da Decomano viene a dolersi a messer Francesco de' Medici che uno suo consorto gli vuol tòrre una vigna, e allega si piacevolmente che messer Francesco fa ch'ella non gli è tolta.

Fu a Decomano, non è molt'anni, uno contadino assai agiato, e avea possessione insino in su quello di Vicchio; là dove tenea a sue mani una bella vigna, la quale uno de' Medici gli volea tòrre, ed era presso che per aversela. Veggendosi costui, che Cenni credo avea nome, a mal partito, pensò d'andarsene a dolersene a Firenze al maggiore della casa; e cosí fece; ché salito una mattina a cavallo, andò a Firenze, e saputo che messer Francesco era il maggiore, se n'andò a lui, e giunto là, disse:

- Messer Francesco, io vengo a Dio e a voi, a pregarvi per l'amor di Dio, che io non sia rubato, se rubato non debbo essere. Uno vostro consorto mi vuol tòrre una vigna, la quale io fo perduta, se da voi non sono aiutato. E dicovi cosí, messer Francesco, che se egli la dee avere, io voglio che l'abbia; e dirovvi in che modo. Voi dovete sapere, che sete molto vissuto, che questo mondo corre per andazzi, e quando corre un andazzo di vaiuolo, quando di pestilenze mortali, quando è andazzo che si guastano tutti e' vini, quando è andazzo che in poco tempo s'uccideranno molt'uomini, quando è andazzo che non si fa ragione a persona: e cosí quando è andazzo d'una cosa, e quando d'un'altra. E però, tornando a proposito, dico che contro a quelli non si pote far riparo. Similmente quello di che io al presente vi vo' pregare per l'amor di Dio, è questo: che s'egli è andazzo di tòr vigne, che il vostro consorto s'abbia la mia vigna segnata e benedetta, però che contro all'andazzo non ne potrei, né non ne voglio far difesa; ma, se non fusse andazzo di tòr vigne, io vi prego caramente che la vigna mia non mi sia tolta.

Udendo messer Francesco la piacevolezza di costui, il domandò come avea nome; e quel gliel disse; e poi dice:

- Buon uomo, il mio consorto con teco non potrebbe aver ragione, e sie certo che, andazzo o non andazzo che sia, la vigna tua non ti fia tolta -; e disse: - Non t'incresca di aspettare un poco.

E mandò per quattro i maggiori della casa; e dice loro questa piacevol novella; e piú, che chiama Cenni e dice:

- Di' a costoro ciò che hai detto a me -; e quelli 'l disse a littera.

Costoro tutti di concordia mandarono per lo loro consorto che già s'avea messo a entrata la vigna, e riprendonlo del fatto, e brievemente liberarono la vigna dalle mani di Faraone, e dissongli che Cenni avea allegato la ragione degli andazzi, per forma che non potea avere il torto; e che di ciò facesse sí che mai non ne sentissino alcuno richiamo. E cosí promesse loro, poiché andazzo non era, di liberare la vigna, e di non seguire piú la sua impresa.

Per certo la legge non arebbe in molto tempo fatta fare quella ragione a Cenni, che l'allegare suo piacevole dell'andazzo fece. E non se ne faccia alcuno beffe; ché chi vi porrà ben cura, da buon tempo in qua, mi pare che 'l mondo sia corso per andazzi, salvo che d'una cosa, cioè d'adoprare bene, ma di tutto il contrario è stato bene andazzo, ed è durato gran tempo.


NOVELLA LXXXIX

Il prete da Mont'Ughi, portando il corpo di Cristo a uno infermo, veggendo uno su uno suo fico, con parole nuove e disoneste lo grida, poco curandosi del sacramento che avea tra le mani.

Alla chiesa di San Martino a Mont'Ughi presso a Firenze, fu poco tempo fa un prete che avea nome Ser... il quale era poco devoto, ma piú tosto scellerato; e fra l'altre cose, tutta la chiesa tenea mal coperta, e sopra l'altare peggio che in altro luogo era coperto, per tal segnale, che 'l dí della sua festa, piovendo su l'altare, e' vicini e gli altri diceano:
- Doh, prete, perché non cuopri tu che non piova su l'altare?
E quelli rispondea:
- Tal sia di lui, se vuole che gli piova addosso. E' disse fiat , e fu fatto il mondo; ben può dir cuopri, e fia coperto, e non gli pioverà addosso.
E cosí era di diversa condizione in ogni cosa.

Avvenne per caso che, essendo ammalato a morte un suo populano nel tempo di state, fu mandato per lui acciò che portasse la comunione; ed egli pigliando il corpo di Cristo, andò per comunicare lo infermo; e non essendosi molto dilungato dalla chiesa, guardando per un suo campo, vide su uno fico uno garzone che mangiava e coglieva de' fichi suoi; e come uomo non cattolico, né che andasse con la comunione nelle mani, ma come uno malandrino disperato, voltosi a quello, disse gridando:

- Se il diavol mi dà grazia ch'io ponga giú costui, io ti concerò sí che cotesti saranno i peggiori fichi che tu manicassi mai.

Il garzone, che avea del reo, e anco forse avea voglia di farli dir peggio, dice:

- O Domine , voi portate il Signore, et ego vado in tentatione ficorum.

Dice il prete:

- Io fo boto a Dio che m'uccella! Che dirai? Scendine, che sie mort'a ghiado.

Il garzone, avendo il corpo pieno, disse:

- Or ecco, io scendo, e' fichi tuoi ti rendo.

E tirò un peto che parve una bombarda; e 'l prete se n'andò al suo viaggio tutto gonfiato; e 'l nostro Signore tra 'l prete discreto, e 'l ghiottoncello che era sul fico, cosí fu onorato; e l'infermo dal venerabile prete cosí ben disposto fu comunicato.

Che diremo che fosse quella ostia da sí devoto cherico sacrata e portata? Io per me non credo che cattivo arbore possa fare buon frutto. E tutto il mondo n'è pieno di tali, che Dio il sa tra cui mani è venuto.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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