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Messaggi del 05/04/2015

Un bon testimogno

Post n°1440 pubblicato il 05 Aprile 2015 da valerio.sampieri
 

Un bon testimogno

Quanti so' stati, dua? -No: uno, uno.
Nun senti? - Poverello! - Er' ammojato?!
E' stato preso? -Dice ch'è scappato.
Però j'è curso appresso un zocchiduno.

Io, sposa, stav' a fà 'r caffè abbruscato.
M'affaccio e, ne lo scerne que' riduno,
so' scenta e me so' trova, sarvognuno,
propio quanno quer boja l'ha gelato.

La moje, che robb' è! faceva pena.
L'hanno portata a casa in sei persone,
che, si vedevio, arispirava appena!

...Ched  le guardie?!  Se vedemo gente.
Nun voj' impicci. Io poi, de 'sta questione;
secca la lingua mai, si ne so gnente.

Giggi Zanazzo

 
 
 

Massimo Della Pena

Post n°1439 pubblicato il 05 Aprile 2015 da valerio.sampieri
 

Stupidario Giuridico - Massimo Della Pena - BUM Mondadori - Milano 1993, pag. 33 I Magistrati preparati in tutte le branchie del diritto

A questo punto, preso atto dello svenimento dell'imputato, viene fatta intervenire un' autoambulanza, previa la sospensione dell'udienza.

Il giudice delle indagini preliminari non può facoltizzare questa procedura.

L'istanza del sindaco, pertanto, va respinta perché la frse "Il primo cittadino ha un' intelligenza fuori del comune", pur prestandosi a un evidente doppio senso, di per sé non si può recepire univocamente come un insulto.

da un cartello sulla porta di un ufficio giudiziario:
L'udienza è rinviata a data da destinarsi per congedo di paternità del giudice istruttore.

pag. 45 I testimoni oculari
... ma non troppo

Come mai il testimone non è presente in aula? - Oggi non si pente molto bene, vostro onore...

Ho sentito che stava succedendo qualcosa giù in strada perché io la notte dormo con un orecchio solo.

(dalla testimonianza oculare di un incidente avvenuto in una strada periferica di Milano)
Della targa ho potuto prendere solo la provincia: MI.

Il suicida ha raggiunto in bicicletta la diga forense...

Lo spaccio ha luogo notte e giorno alla luce del sole.

Appena si è seduto al tavolo ha ordinaqto il vino e ha cominciato a bere a tutta birra.

Ero con mia moglie e mia cognata, e alla rapina abbiamo assistito ambetré.

Ho visto la vettura uscire dal cancello e immergersi sulla statale.

 
 
 

Tabarrino

Post n°1438 pubblicato il 05 Aprile 2015 da valerio.sampieri
 

Lo spirito delle maschere (storia e aneddoti), di Giuseppe Petrai, 1901, Roux e Viarengo, Torino

"La maschera del Tabarrino data dal 1570, ma fino al 1618 non ha importanza. Gliela dette in seguito un milanese, il cui vero nome rimase sempre un mistero, e che si faceva chiamare e si sottoscriveva: Tabarrino di Valburlesca". A conclusione della descrizione della maschera, l'autore del volumetto scrive:

"Tabarrino era religiosissimo. A modo suo, però. Faceva abitualmente tre pranzi al giorno nelle varie famiglie ove il suo parassitismo si era abbarbicato, e a tale scopo teneva in apposito taccuino diligente nota de' suoi anfitrioni.
Era un simpatico chiacchierone, e si tratteneva volentieri a fare quattro ciarle allorché lo si incontrava per via; ma nel tempo di quaresima avveniva un fenomeno singolare. Se in quel periodo dell'anno incontrava per strada qualche conoscente, non si tratteneva, come era solito, a chiacchierare, ma salutava con un inchino o con un cenno affettuoso della mano, secondo le circostanze, e tirava via. Il perché di questo suo contegno quaresimale era noto a tutti. Egli conciliava il precetto ecclesiastico del digiuno e il non mancare ai suoi tre giornalieri inviti a pranzo ad ore diverse, con un suo metodo ingegnoso, che però lo costringeva necessariamente al silenzio per la via. Nei tempi di digiuno la Chiesa permette di mangiare quanto si vuole, purché si faccia in una sola commixtio oris, vale a dire non permette che un solo pasto ogni ventiquattro ore. Tabarrino, per non trasgredire questo precetto, quando si levava dal suo primo pranzo, aveva l'avvertenza di portare seco qualche boccone, che strada facendo continuava a masticare adagio adagio fino a che fosse giunta l'ora del secondo pranzo, ed altrettanto faceva nell'intervallo tra il secondo pranzo e il terzo. Quando poi, nei giorni che egli chiamava meno disgraziati, gli capitava un quarto invito straordinario, continuava collo stesso metodo, facendo sempre, in omaggio alle sacre leggi, un solo pasto al giorno".

 
 
 

La fama

Post n°1437 pubblicato il 05 Aprile 2015 da valerio.sampieri
 

La fama

Un Centogamme disse: - Stammatina,
ner contamme li piedi, me so' accorto
che ce n'ho solamente una trentina!
Io nun capisco come
me so' fatto 'sto nome
se er conto de le gambe nun combina...
- E nun te fa' sentì, brutt'imbecille!
- je disse sottovoce un Millepiedi -
Pur'io so' conosciuto: ma te credi
che li piedi che ciò so' proprio mille?
Macché! So' centottanta o giù de lì;
io, però, che lo so, nun dico gnente:
che me n'importa? C'è un fottìo de gente
ch'è diventata celebre così...

Trilussa

 
 
 

Rana rana

Post n°1436 pubblicato il 05 Aprile 2015 da valerio.sampieri
 

Rana rana

C'era 'na vorta un re che cciaveva tre fiji; e siccome voleveno pijà' mmoje tutt'e ttre, nun sapeva propio chi ddaje. Quant' un giorno e' re li chiamò e je disse:
- A vvojantri; èccheve: ste tre ppalle d'oro: annate in cima ar monte e ttiratele ggiù; indove 'ste tre palle se poseranno, llì scejerete quella che v'averete da pijà' ppe' spòsa.
Infatti li fiji de' re vvanno sur monte, e, ccome er padre j' aveva commannato, buttorno ggiù ognuno una de quele palle.
Quant'ecchete che la palla der più ggranne entrò drento la bbottega de'na fornara, quella der mezzano anno drent'a la bbottega de 'na macellara, e quella der più ppiccolo, che sse chiamava Nicolino, j'agnede drent'a un fosso.
Li fratelli ppiù ggranni agnédeno subbito in queli siti indove ereno annate le palle, e ddisseno a le regazze che cc'ereno, che lloro se le sarebbeno sposate.
Fatto questo, incominciorno a mminchionà' er fratello ppiù cciuco, dicènnoje che sse fusse annato a ttrova la moje drent'ar fosso.
E Nnicolino infatti se n'agnede giù ar fosso e incominciò a ddì':
- Chi cchiamo, chequi nun c'è gnisuno? Mo' cchiamo 'na ranocchia e bbòna notte.
Infatti incominciò a cchiamà': - Rana, rana!
Quant'ecchete che ddar fonno der fosso se senti'arisponne: - Chi è cche mme chiama?
- Nicolin che ppoco t'ama.
- M'amerai quanno bbella me vederai.
- Che vvòi da me? - je domannò la ranocchia?
E llui allora je disse ch'er padre volenno ammojà' li tre fiji, j'aveva dato 'na palla peromo [Nota: Peromo = per ciascuno. Dicesi sempre così, o che si parli di persone o di cose, e in qualunque genere] e cche la sua era ita a ccascà' drent'a quer' fosso.
- Dunque - dice - te so' vvienuto a ddì cche ttu sei la mi' spòsa.
E llei j'arispose, dice: - Va bbene; quanno me voi, viemme a pijà'.
Lui dice: - Sì.
E sse n'agnede a ccasa dar padre.
Er padre quanno seppe che ttutt'e ttre ss'ereno scerti la moje, disse:
- Va bbene. Mo' pperò vederemo chi de 'ste tre ssarà la riggina.
E ppe' pprovà' quale de le tre ssarebbe stata scérta, diede a li fiji 'na bbracciata de lino, e je disse che l'avéssino portato a le moje loro e cche quella de le moje ch' avesse fatto e' réfe ppiù ffino, quella sarebbe stata la riggina.
Allora quelli préseno ognuno la parte sua: li ppiù ggranni lo portorno da le regazze loro, e je s'ariccommannorno che cciavesseno fatto e' refe ppiù ffino che ssii possibile, perchè cchi lo faceva ppiù ffino, je dìsseno, sarebbe stata la riggina; quello ppiù cciuco se prese er su' fagotto de lino, se n'agnede ar fosso, e cchiamò: - Rana, rana.
- Chi è cche mme chiama?
- Nicolin che ppoco t'ama.
- M'amerai quanno bbella me vederai.
- Che vvòi da me? - je fece la ranocchia.
E llui: - Te so' vvienuto a pportà' ccerto lino da fila'. Io te lo lasso. Però abbada de fa' è' refe ppiù ffino che ssii [Nota: Sia e sii, sono una medesima voce. Sia per solito lo dicono alla fine del periodo, e sii quando è intercalato in esso.] possibile; perchè ha ddetto mi' padre che cquella che lo farà mmejo, sarà ffatta riggina.
La ranocchia se prese e' llino, e Nicolino tutto malinconico se n'arignéde a ccasa.
Passati otto giorni, er padre chiamò li fiji, e je disse che fùsseno iti a pijà' e' refe che aveva da esse' fatto. Li fiji vanno ognuno da la su' regazza, e pijeno e' refe; Nicolino va ar fosso e cchiama: - Rana, rana! - Chi è cche mme chiama? - Nicolin che ppoco t'ama.
- M'amerai quanno bbella me vederai.
- Che voi? - je fece la ranocchia?
E llui: - Hai finito da fila' que' llino?
Dice: - Sì: bbùtteme ggiù un canestro che tte lo manno su.
Nicolino mannò ggiù er canestro, prese e' refe, e se n'annò ddar padre. Er padre incomincia a vvardà' tutti e ttre li gnómmeri de refe, e ddice:
- Quello de la fornara è bbello, quello de la macellara è mmejo, ma cquello de la ranocchia è er più bbello de tutti. Dunque la ranocchia sarà la riggina.
Li fratelli j'incominciorno a ddi':
- Ma Ppapà, che vve dite? Com'è ppossibile che 'na ranocchia sii la riggina?
Allora er padre disse: - Nun famo ppiù cchiacchiere: a vojantri, ripijàteve ognuno e' refe vostro, ariportatelo a le vostre regazze, fàtejelo tesse, e cquella che ffarà la mejo tela sarà la riggina.
E ccome vorse er padre, accusi ffu ffatto. Nicolino, com' er solito, agnede ar fosso e ddisse:
- Rana, Rana.
- Chi è cche mme chiama?
- Nicolin che ppoco t'ama.
- M'amerai quanno bbella me vederai.
E je dette e' refe, dicennoje che cciavesse fatto la tela; che llui da llì a otto giorni la sarebbe ita a ripija. Pàsseno l'otto giorni; e tutti e ttre li fiji de' re vvann'a ripija la tela, e la riporteno ar padre.
Er padre l'incominciò a vvardà' e ffaceva, dice:
- Nun c'è cche ddi', la tela de la fornara è bbella, quella de la macellara è mmejo, ma quella de la ranocchia è bbella assai. Dunque la ranocchia sarà la aggina,
Ma li fratelli de Nicolino incominciorno a ddì':
- Ma Ppapà, che vve fate; le regazze nostre so' ttante bbelle, e vvoi volete fa' riggina 'na ranocchia, Allora e' re disse: - Pe' contentavve ve farò fa' ll'urtima prova.
Eccheve tre bbelli cagnoletti da latte, portateli ognuno a le vostre regazze, e dditeje che fra un mese l'annerete a ripija': quella che l'averà allevato mejo sarà la riggina.
Li fratelli ppiù ggranni portorno li cagnoletti a le regazze de loro, e Nicolino se n'agnede a portallo ggiu ar fosso. Dice:
- Rana, rana! - Chi è cche mme chiama?
- Nicolin che ppoco t'ama.
- M'amerai quanno bbella me vederai.
E je diede er cagnoletto, e je disse che l'allevasse bbene, che llui fra un mese, se lo sarebbe ariito a ripija.
Ecchete che ppassato che fu er mese, li tre fìji vanno ognuno a ripija li tre ccani, e li porteno davanti a' re. Er padre li guarda bbene bbene e incomincia a ffa': - Questo de la fornara è un gran ber cane da caccia! Ma nnoi de cani da caccia ce n' avemo tanti bbelli, che questo cqui è un de ppiù.
Poi guardò er cane de la macellara e ffece:
- Questo pure è un gran ber cane da guardia ma nun fa ppe' ccasa nostra, perchè nnoi ciavemo tanti servitori e ssordati pe' ffacce la guardia, che a mmettecce un cane sarebbe propio inutile.
E quanno vidde er cane de ranocchia, fece: - Oh, questo si ch'è ggrazioso!
Infatti era un cagnolino tutto lindo e ppindo, ciuco, ciuco, che ppareva 'na galanteria. Er padre fece:
- Ecco un cane che ffa ppe' ccasa nostra. E ssiccome è er mejo de tutti e ttre, chi l'ha allevato sarà ffatta riggina.
Li fìji ppiù granni incominciorno a llagnasse com'er solito; ma e' re, senza stalli nemmanco a ssenti', je fece: - Adesso annate ognuno a ppijavve la vostra spòsa, e ddoppo annerete a sposa'.
Li fratelli ppiù ggranni agnédeno a pijà' le spóse loro senza stacce tanto a ppensà', perché ereno du' bbelle giuvinotte. Ma quer povero Nicolino, poveretto, se disperava. Prese, montò in legno e agnede ggiù ar fosso. Dice: - Rana, rana.
- Chi e cche mme chiama?
- Nicolin che ppoco t'ama.
- M'amerai quanno bbella me vederai.
Lui je fece: - Sbrighete, monta in legno; che oggi bbisogna ch'annamo a sposa'.
E ranocchia fece: - Eccheme.
E ccor un sarto zompò drento a' llegno.
Li servitori quanno la vi'ddeno, figurateve le risate che sse féceno, sotto cappotto! E intanto Nicolino smagnava; e tutt' arincantucciato drent'a llegno, piagneva piagneva. Arivati che furno a ppalazzo, la ranocchia fa un zompo, e ssale li scalini; la ggente tutti a ride'; e Nicolino appresso tutt'addolorato.
Quanno che llei fu arivata in de le cammere, senza volè' nemmanco una cammeriera che la vestisse, s'arinchiuse drento e ddisse; - Ce penso da me.
Intanto ereno venuti tutti l'invitati, e li fratelli più ggranni, co' le du' spose vestite de gala, che ereno du' gran bellezze, l'annàveno facenno conosce a ttutti quanti li signori. Antro che quer povero Nicolino nun ciaveva faccia a ccomparì', e sse ne stava tutt'affritto a ssede' da 'na parte de la sala, senza mmanco fa' un fiato. Ma quanno fu ll'ora che sse doveva annà' a sposa', e' re ffece a Nnicolino:
- Nicolino, è inutile che cce stai a ppensà' ttanto; sbrighete a ppijà' la spòsa, e annamo in chiesa.
Allora Nicolino se fece coraggio, e annò ddrento a la cammera a pijà' ranocchia; ma ccerca, cerca, ranocchia nun se trovava ppiù. Entra pe' ccaso in un'antra cammera, e tte trova 'na bbella pacioccona tutta vestita da riggina che stava a ssede' a aspetta'.
Eh! Nicolino arestò dde sale! La salutò e je fece: - Scusate si sso' entrato; ma siccome annavo cercanno la spòsa mia che l'avevo lassata cqui...
- Chi annavio cercanno ranocchia? - je fece quella.
E llui je fece a mmezza bbocca, dice: - Si.
- Bbè', ranocchia so' io - je fece lei.
Figurateve Nicolino! Dice: - Come? voi! Questa nu' mme la bbevo pe' ddavero.
Allora quella je fece: - Sì: sso' ppropio io. Avete da sape' che io ciavevo 'n'affatatura; e rimanevo ranocchia sin'a ttanto che nun avessi trovato un giuvinotto che, ssenza sape' ch'ero bbella, m'avessi sposato.
Nicolino, contento com' un matto, la prese sotto ar braccio, la portò in de la sala andove stàveno l'antre spóse, e ffece a ttutti l'invitati:
- Signori mii, ve presento la spòsa mia.
E arimaseno tutti come ttanti merlotti. Allora er padre vorse sape' ccome stava la faccenna, e quanno ebbe saputo tutto quanto, je fece: - Sete propio degna d'esse la riggina, perchè ggià ssete la riggina de le bbelle.
Furno fatte le nozze. Accusì:

Co' ppani e ttozzi,
'Na gallina verminósa,
Evviva la spòsa!

Giggi Zanazzo (da "Novelle, Favole e Leggende romanesche", TORINO-ROMA, SOCIETÀ TIPOGRAFICOEDITRICE NAZIONALE GIÀ ROUX E VIARENGO, 1907)

 
 
 

Er Culiseo

Post n°1435 pubblicato il 05 Aprile 2015 da valerio.sampieri
 

Er Culiseo

Tutte quele bbuche che sse védeno su li muri e ll'archi der Culiseo ce furno fatte da li bbarberi quanno preseno Roma.
Ce féceno tutte quele bbuche e ddice che ddrento a ognuna ce messeno la porvere co' l'idea de fallo zompà' per aria. Ma quanno je diedeno fôco, feceno fiasco perchè er Culiseo manco se mosse d'un capéllo.
A ppreposito der Culiseo ve vojo dí' quello che mme diceva sempre er mi' bbisnonno bbon'anima : «Fino ch'er Culiseo durerà
Puro Roma su starà ; Quanno er Culiseo cascherà
Puro Roma ha da cascà, Quanno Roma finirà
Tutt'er monno s'ha dda scapicollà'».

Giggi Zanazzo

 
 
 

San Luviggi Gonzaga

Post n°1434 pubblicato il 05 Aprile 2015 da valerio.sampieri
 

San Luviggi Gonzaga

I

San Luiggi insinenta da cratura,
co' tutto ch'era er fijo d'un regnante,
me dicheno ch'invece d'un gargante
pareva 'n angeletto addirittura.

Annav'appresso a' re senza muntura,
nun portava er cappello a la screpante...
insomma er' una pasta come tante,
nate apposta pe' stà fra quattro mura.

Defatti, quand' er patre fu contento
lui se prese du' stracci e, piano piano,
partì pe' Roma per entrà in convento.

Strada facendo fece Pinerolo,
Tor Pugnettara, Palestrina, Arbano
e se fermò tre giorni a Zagarolo.

II

Appena entrato a Roma e stabbilito,
se vorse sceje' subbito un convento;
ma dopo avenne visti più de cento,
pensò mejo de fasse gesuvito.

Ecco infatti quer poro arimbambito,
fra quelli quattro frega-sagramento,
ubbidiente, pentito e strapentito,
pronto a soffrì qualunque patimento.

V'abbastì a di che, benedetto sia,
nun guardava su' madre, pe' suspetto
che je vienisse quarche fantasia.

In vita sua nun fece scappatelle:
Sparò, solo 'na vorta, un mortaletto,
e quattro o cinquemila zaganelle.

Giggi Zanazzo

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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