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Messaggi del 03/05/2015

Li du gatti

Post n°1575 pubblicato il 03 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

Li du gatti

Un Gatto grasso, de ’n so che barone,
disse a ’na Gatta misera, affamata,
de ’n so che pover’omo:
Io nu’ rubbo ar Padrone,
io rispetto la proprietà privata!
- Allora - fece lei - Sei ’n galantuomo?
- Macché - rispose lui - Manco pe’ sogno!
Nu’ rubbo più, perché ’n ciò più bisogno!

Leone Ciprelli (Ercole Pellini, Roma, 1873-1953)

 
 
 

Alle fonti del Clitumno

Alle fonti del Clitumno

Ancor dal monte, che di foschi ondeggia
frassini al vento mormoranti e lunge
per l’aure odora fresco di silvestri
salvie e di timi,

scendon nel vespero umido, o Clitumno,
a te le greggi: a te l’umbro fanciullo
la riluttante pecora ne l’onda
immerge, mentre

ver’ lui dal seno del madre adusta,
che scalza siede al casolare e canta,
una poppante volgesi e dal viso
tondo sorride:

pensoso il padre, di caprine pelli
l’anche ravvolto come i fauni antichi,
regge il dipinto plaustro e la forza
de’ bei giovenchi,

de’ bei giovenchi dal quadrato petto,
erti su ‘l capo le lunate corna,
dolci ne gli occhi, nivei, che il mite
Virgilio amava.

Oscure intanto fumano le nubi
su l’Appennino: grande, austera, verde
da le montagne digradanti in cerchio
L’Umbrïa guarda.

Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte
nume Clitumno! Sento in cuor l’antica
patria e aleggiarmi su l’accesa fronte
gl’itali iddii.

Chi l’ombre indusse del piangente salcio
su’ rivi sacri? ti rapisca il vento
de l’Appennino, o molle pianta, amore
d’umili tempi!

Qui pugni a’ verni e arcane istorie frema
co ‘l palpitante maggio ilice nera,
a cui d’allegra giovinezza il tronco
l’edera veste:

qui folti a torno l’emergente nume
stieno, giganti vigili, i cipressi;
e tu fra l’ombre, tu fatali canta
carmi o Clitumno.

testimone di tre imperi, dinne
come il grave umbro ne’ duelli atroce
cesse a l’astato velite e la forte
Etruria crebbe:

di’ come sovra le congiunte ville
dal superato Cìmino a gran passi
calò Gradivo poi, piantando i segni
fieri di Roma.

Ma tu placavi, indigete comune
italo nume, i vincitori a i vinti,
e, quando tonò il punico furore
dal Trasimeno,

per gli antri tuoi salì grido, e la torta
lo ripercosse buccina da i monti:
tu che pasci i buoi presso Mevania
caliginosa,

e tu che i proni colli ari a la sponda
del Nar sinistra, e tu che i boschi abbatti
sovra Spoleto verdi o ne la marzia
Todi fai nozze,

lascia il bue grasso tra le canne, lascia
il torel fulvo a mezzo solco, lascia
ne l’inclinata quercia il cuneo, lasci
la sposa e l’ara;

e corri, corri, corri! Con la scure
e co’ dardi, con la clava e l’asta!
Corri! Minaccia gl’itali penati
Annibal diro.-

Deh come rise d’alma luce il sole
per questa chiostra di bei monti, quando
urlanti vide e ruinanti in fuga
l’alta Spoleto

i Mauri immani e i numidi cavalli
con mischia oscena, e, sovra loro, nembi
di ferro, flutti d’olio ardente, e i canti
de la vittoria!

Tutto ora tace. Nel sereno gorgo
la tenue miro salïente vena:
trema, e d’un lieve pullular lo specchio
segna de l’acque.


Ride sepolta a l’imo una foresta
breve, e rameggia immobile: il diaspro
par che si mischi in flessuosi amori
con l’ametista.

E di zaffiro i fior paiono, ed hanno
dell’adamante rigido i riflessi,
e splendon freddi e chiamano a i silenzi
del verde fondo.

Ai pié de i monti e de le querce a l’ombra
co’ fiumi, o Italia, è dei tuoi carmi il fonte.
Visser le ninfe, vissero: e un divino
talamo è questo.

Emergean lunghe ne’ fluenti veli
naiadi azzurre, e per la cheta sera
chiamavan alto le sorelle brune
da le montagne,

e danze sotto l’imminente luna
guidavan, liete ricantando in coro
di Giano eterno e quando amor lo vinse
di Camesena.

Egli dal cielo, autoctona virago
ella: fu letto l’Appennin fumante:
velaro i nembi il grande amplesso, e nacque
l’itala gente.

Tutto ora tace, o vedovo Clitunno,
tutto: de’ vaghi tuoi delùbri un solo
t’avanza, e dentro pretestato nume
tu non vi siedi.

Non più perfusi del tuo fiume sacro
menano i tori,vittime orgogliose
trofei romani a i templi aviti: Roma
più non trionfa.

Più non trionfa, poi che un galileo
di rosse chiome il Campidoglio ascese,
gittolle in braccio una sua croce, e disse
Portala, e servi -.

Fuggîr le ninfe a piangere ne’ fiumi
occulte e dentro i cortici materni,
od ululando dileguaron come
nuvole a monti,

quando una strana compagnia, tra i bianchi
templi spogliati e i colonnati infranti,
procede lenta, in neri sacchi avvolta,
litanïando,

e sovra i campi del lavoro umano
sonanti e i clivi memori d’impero
fece deserto, et il deserto disse
regno di Dio.

Strappâr le turbe a i santi aratri, a i vecchi
padri aspettanti, a le fiorenti mogli;
ovunque il divo sol benedicea,
maledicenti.

Maledicenti a l’opre de la vita
e de l’amore, ei deliraro atroci
congiungimenti di dolor con Dio
su rupi e in grotte;

discesero ebri di dissolvimento
a le cittadi, e in ridde paurose
al crocefisso supplicarono, empi,
d’essere abietti.

Salve, o serena de l’Ilisso in riva,
intera e dritta ai lidi almi del Tebro
anima umana! I foschi dì passaro,
risorgi e regna.

E tu, pia madre di giovenchi invitti
a franger glebe e rintegrar maggesi
e d’annitrenti in guerra aspri polledri
Italia madre,

madre di biade e viti e leggi eterne
ed inclite arti a raddolcir la vita,
salve! A te i canti de l’antica lode
io rinnovello.

Plaudono i monti al carme e i boschi e l’acque
de l’Umbria verde: in faccia a noi fumando
ed anelando nuove industrie in corsa
fischia il vapore.

Giosuè Carducci
1876 (da "Odi barbare", libro primo)

Il Clitunno è un fiume conosciuto fin dall’antichità come Clitumnus: il fiume  scorre in Umbria. Sulle rive del Clitunno sorge un tempietto che nel 2011 è stato inserito nell’elenco dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO.

 
 
 

Sonetti di Agostino Lega

Sonetti di Agostino Lega

Tratti da "Scelta di sonetti e canzoni de' più eccellenti rimatori d'ogni secolo" di Agostino Gobbi, aggiornato da Eustachio Manfredi, Volume 4, 1^ edizione, Bologna 1711, per Costantino Pisarri, sotto le Scuole. Il frontespizio del volume reca il seguente titolo: Rime d'alcuni illustri autori viventi aggiunte alla terza parte della Scelta d'Agostino Gobbi.


1. pag. 13

Quando Morte, Signor, voi vide e in voi
L'anima grande, ove pietà risiede,
E i pregi alti, che il Ciel largo vi diede,
Perché fede di lui feste fra noi;

Sospese il negro Arco fatale, e i duoi
Occhi omicidi, come suol chi vede
Cosa, cui grande già per fama crede,
Ma del grido maggior trova esser poi.

E allor ben vide, ch'ella indarno al varco
V'attese, e che in van sempre usar si sforza
Contro virtute il formidabil'arco.

Ne ardì più contro voi mover sua forza,
Che voi veggendo di virtù sì carco
Sembrolle anco immortal la vostra scorza.


2. pag. 13

Se mai, Fillide, giungo a quell'etate,
In cui per tuo cordoglio e mio contento
Veggia estinto in me amore, in te beltate,
E i capei d'oro fin farsi d'argento;

Ecco, vuò dirti, l'alme guance ornate
Degli amanti Pastor pena, e tormento,
Che più desse non son, dal bel cangiate,
Che in lor vedesti in cento rivi, e cento.

La fonte, il fiume in van fuggendo vai,
Per non mirar di tua beltà lo scempio,
E la fronte rugosa, e i foschi rai;

Ch'io vò seguirti, e vò mostrarti a ogn'empio
Cor d'aspra Ninfa, se vi fosse mai,
Delle beltà superbe infausto esempio.


3. pag. 14

Alme, cui stringe Amor fra' nodi suoi
Cui s'alzan mille intorno applausi e gridi,
O qual chiudesi in voi luce, che voi
Fà chiare, e chiari questi nostri lidi!

Spirano un non so che di grande i duoi
Occhi 'ambo, e di lor par ch'ogn'un gridi:
Mirate in noi, che cosa è amore, in noi,
Che siam quaggiù di bell'esempio a i fidi.

Amor vi guarda, e ride, e seco intanto
Gode, e superbo và in sua vittoria,
E stupisce fra se di poter tanto.

Ne sà membrar fra mille, ond'ei si gloria,
Eccelsi, incliti vanti un simil vanto,
Ne fra mille altre glorie una tal gloria.


4. pag. 14

Le crespe chiome, il piè, ch'ovunque tocchi
Fà nascer fiori, il bel giovenil fianco,
L'onesto volto, il balenar degli occhi
Soavemente tra 'l bel nero, e 'l bianco,

La gentil mano, presso cui vien manco
Candor di neve, che per l'aer fiocchi,
Le labbra altrove non più viste unquanco,
Donde par, che ridendo, il mel trabocchi;

Han me da me diviso, e unito a quella,
Ch'or ne' tronchi, or ne' sassi agli occhi miei
Amor dipinge ogn'or più altera, e bella,

E m'han ridotto a tal verso costei,
Ch'io mai non parlo, che non parli d'ella,
Ne pensar posso, che non pensi a lei.

 
 
 

Il Malmantile racquistato 02-3

Post n°1572 pubblicato il 03 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Malmantile racquistato" di Lorenzo Lippi (alias Perlone Zipoli), con gli argomenti di Antonio Malatesti; Firenze, G. Barbèra, editore, 1861)

SECONDO CANTARE

42
In quanto a sposa, omai questo è ascolto (236):
S'ei toccò terra (237), ancor la voglia sputi.
Così Florian dicea: nè stette molto
Che il secondo ne viene a spron battuti,
Che mette lui per morto, anzi sepolto;
Ma il giovane, che dà di quei saluti,
Gli mostra, in avviarlo per le poste,
L'error di chi fa i conti senza l'oste.

43
Comparso il terzo in testa della lizza,
S'affronta seco, e passalo fuor fuora:
Soggiunge il quarto, ed egli te l'infizza;
Sbudella il quinto, e fredda il sesto ancora;
All'altro mondo il settimo indirizza;
L'ottavo e il nono appresso investe e fora:
E così a tutti, con suo vanto e fama,
Cavò di testa il ruzzo della dama.

44
Il re si rallegrò con Florïano:
Sceso di sedia poi colla figliuola,
Gli fece allor allor toccar la mano (238),
Come nel bando avea data parola;
Ond'ogni altro ne fu mandato sano (239):
Ed ei nelle dolcezze infino a gola,
Ben pasciuto, servito e ringraziato,
Rimase quivi a godere il papato.

45
Tre dì suonaro a festa le campane:
Ed altrettanti si bandì il lavoro:
E il suocero, che meglio era del pane,
Un uom discreto ed una coppa d'oro,
Faceva con gli sposi a Scaldamane,
Talora a Mona Luna, e Guancial d'oro (240):
E fece a' Paggi recitare a mente
Rosana (241), e la regina d'Orïente.

46
L'andare, il giorno, in piazza a' Burattini
Ed agli Zanni, furon le lor gite;
Ogni sera facevansi festini
Di giuoco, e di ballar veglie bandite:
E chi non era in gambe nè in quattrini
Da trinciarle (242) e da fare ite e venite (243),
Dicea novelle, o stavale a ascoltare,
O facea al Mazzolino (244) o alla Comare (245).

47
Altri più là vedevansi confondere
A quel gioco chiamato gli Spropositi (246);
Che quei ch'esce di tèma nel rispondere,
Convien che 'l pegno subito depositi.
Ad altri piace più Capanniscondere (247);
Hanno altri vari umor, vari propositi,
Perchè ognuno ad un mo' non è composto;
Però chi la vuol lessa e chi arrosto.

48
Chi fa le Merenducce (248) in sul bavaglio;
Chi coll'amico fa a Stacciaburatta;
Chi all'Altalena, e chi a Beccalaglio;
Va quello a predellucce, un s'acculatta.
Per tutti in somma sempre vi fu taglio (249)
Di star lieto così in barba di gatta (250):
E tra Floriano, il re e la figliuola
Non fu che dir 'n un anno una parola.

49
Non fu tra lor fin qui nulla di guasto;
Se non che Florïan vòlto alle cacce,
Avendone più volte tocco un tasto (251)
E sentendosi dar sempre cartacce (252),
Dispose alfin di non voler più pasto (253);
Nè curando lor preghi nè minacce,
Fece invitar dai soliti bidelli
Per l'altro dì i Piacevoli e i Piattelli (254).

50
Benchè il suocero allora e la consorte
Maledicesser questo suo motivo (255),
Dicendogli che là fuor delle porte
Un Orco v'è sì perfido e cattivo,
Che persèguita l'uomo insino a morte,
E che l'ingoierebbe vivo vivo;
Con genti ed armi uscì sull'aurora,
Gridando: andianne, andianne, eccola fuora.

51
Senza veder nè anche un animale,
Frugò, bussò, girò più di tre miglia:
Pur vedde un tratto correre un cignale
Feroce, grande e grosso a maraviglia;
Ond'ei che, il dì (256), dovea capitar male,
Si mosse a seguitarlo a tutta briglia;
Non essendo informato che in quel porco
Si trasformava quel ghiotton dell'Orco,

52
Che apposta presa avea quella sembianza:
E gli passò, fuggendo, allor d'avanti,
Per traviarlo, sol con isperanza
D'aver a far di lui più boccon santi.
Così guidollo fino alla sua stanza,
Dov'ei pensò di porgli addosso i guanti:
Poi non gli parve tempo; perchè i cani
Avrian piuttosto lui mandato a brani.

53
Però, volendo andare sul sicuro,
Non a perdita più che manifesta;
Perchè a roder toglieva un osso duro,
Mentre (257) non lo chiappasse (258) testa testa,
Gli sparì d'occhio, e fece un tempo scuro
Per incanto levar, vento e tempesta,
E gragnuola sì grossa comparire,
Che avrebbe infranto non so che mi dire.

54
Il cacciator, che quivi era in farsetto,
E dal sudore omai tutto una broda;
Avendo un vestituccio di dobretto,
Ed un cappel di brucioli (259) alla moda;
Per non pigliar al vento un mal di petto
O altro, perchè il prete non ne goda,
Non trovando altra casa in quel salvatico
Che quella grotta, insáccavi da pratico.

55
A tal gragnuola, a venti così fieri,
Ch'ogni cosa mandavano in rovina,
Tal freddo fu, che tutti quei quartieri (260)
Se n'andavano in diaccio e in gelatina:
Ed ei, ch'era vestito di leggieri
Nè ma' meglio facea la furfantina (261),
Non più cercava capriuolo o damma,
Ma da far, s'ei poteva, un po' di fiamma.

56
Trovò fucile (262) ed esca e legni vari,
Onde un buon fuoco in un cantone accese:
E in su due sassi, posti per alari (263),
Sopra un altro sedendo, i piè distese.
Così con tutti i comodi a cul pari,
Dopo una lieta (264), il crògiolo si prese (265):
Essendosi a far quivi accomodato,
Metre pioveva, come quei da Prato (266).

57
L'Orco frattanto con mille atti e scorci
Affacciatosi all'uscio, ch'era aperto,
Pregò Florian con quel grugnin da porci,
Tutto quanto di fango ricoperto,
Che, perch'ella veniva giù co' gli orci,
Ricever lo volesse un po' al coperto;
Ritrovandosi fuora scalzo e ignudo
A sì gran pioggia e a tempo così crudo.

58
Ebbe il giovane allora un gran contento
D'aver di nuovo quel bestion veduto:
E facendogli addosso assegnamento,
Quasi in un pugno già l'avesse avuto,
Rispose: volentieri: entrate drento;
Venite, che voi siate il ben venuto;
Chè, dopo (267) il fuggir voi l'umido e il gielo,
Fate a me, ch'ero sol, servizio a cielo (268).

59
Sì, eh? soggiunse l'Orco; fate motto!(269)
Voler ch'io entri dove son due cani?
Credi tu pur, ch'io sia così merlotto?
Se non gli cansi, ci verrò domani.
S'altro, dice il garzon, non ci è di rotto (270),
Due picche te gli vo' legar lontani.
E preso allora il suo guinzaglio in mano,
Legò in un canto Tebero e Giordano.

60
Poi disse: or via venite alla sicura.
Rispose l'Orco: io non verrò nè anco:
Guarda la gamba!(271) perch'io ho paura
Di quella striscia ch'io ti veggo al fianco.
Allor Florian cavossi la cintura,
Ed impiattò la spada sotto un banco.
Disse l'Orco, vedutala riporre:
Io ti ringrazierei, ma non occorre.

61
E lasciata la forma di quel verro,
Presa l'antica e mostruosa faccia,
Con due catene saltò là di ferro,
E lo legò pel collo e per le braccia,
Dicendo: cacciatore, tu hai pres'erro:
Perchè, credendo di far preda in caccia,
Alfin non hai fatt'altro che una vescia,
Mentre il tutto è seguito alla rovescia.

62
Rimasto ci sei tu, come tu vedi,
Senza bisogno aver di testimoni:
E perchè con levrieri e cani e spiedi
Far me volevi in pezzi ed in bocconi;
Così, perch'ella vadia pe' suoi piedi,
Farassi a te, nè leva più, nè poni (272);
Acciocchè procurando l'altrui danno,
Per te ritrovi il male ed il malanno.

Note:

(236) ASCOLTO. Lincenziato, spacciato.
(237) S'EI TOCCÒ TERRA ecc. La donna quando è grossa ove le venga alcuna voglìa che non può appagare, si tocca il corpo in parte che suol esser coperta, o tocca terra o altra cosa, per impedire che il bambino nasca con la voglia, o almeno che non nasca con la voglia in viso: e in pari tempo sputa, dicendo, in terra vadia (vada, cioè la voglia). Ognuno ora intenderà il doppio senso.
(238) TOCCAR LA MANO. Impalmare.
(239) MANDATO SANO. Dal lat.: Vale: Sta sano. Quindi mandar sano, cioè dire addio, licenziare, escludere.
(240) SCALDAMANE... MONA LUNA... GUANCIAL D'ORO o Guancialin d'oro. Son tre giuochi fanciulleschi, il primo dei quali è noto a tutti. Il secondo si fa scegliendo a sorte un fanciullo della brigata a cui si ordina di allontanarsi un tratto. Intanto la brìgata sceglie uno a cui si dà il nome di Mona Luna. Allora si chiama il fanciullo allontanato, e questi va a domandare un consiglio a qual dei bambini suppone esser Mona Luna. S'ei non s'appone, paga il premio o pegno, e s' allontana ancora, finchè si crei nuova Mona Luna: e ciò può farsi per quattro volte, dopo di che il perditore di quattro premi si riunisce alla brigata; e un altro, scelto dalla sorte, è mandato. Se invece quel primo s'appone una od altra volta, Mona Luna perde il premio, ed è mandato egli. La restituzione de' premi fornisce poi materia ad altro giuoco che è delle penitenze. Il Guancialin d'oro differisce dalla Mona Luna in questo, che un fanciullo inginocchiato (forse sopra un guanciale), e ad occhi chiusi, deve indovinare chi è che da tergo gli dà una percossa. Il noto Prophetiza quis te percussit del Vangelo ci mostra che questo o simil giuoco è antichissimo.
(241) ROSANA ecc. Sono due Leggende o Rappresentazioni notissime, dice il Minucci; e il Biscioni aggiunge: Rosana si trova stampata sotto questo titolo: La Rappresentazione, e Festa di Rosana. Firenze, appresso Zanobi Bisticci alla Piazza di Sant'Apolinari l'anno1601, in 4°, p. 30. Senza nome d'autore. La Regina d'Oriente è un poemetto diviso in 4 cantari, che pare scritto da Antonia Pulci, la quale visse di là dalla metà del 400.
(242) TRINCIARLE. Far capriole e salti.
(243) ITE E VENITE del danaro al giuoco.
(244) AL MAZZOLINO. Di una brigata uno si fa Giardiniere, e questi compone un mazzolino, dando a ciascuno dei compagni il nome di un fiore. Il giardiniere dice: Questo mazzo non sta bene per causa (poniamo) della Viola. Se la Viola non risponde subito: Dalla Viola non viene, ma sibbene (per esempio) dal Giglio; o se gli vien nominato un fiore che non è nel mazzolino, paga il pegno
(245) COMARE. Una fanciulla fa la puerpera, e le altre le vanno intorno facendolo visite, cerimonie e regali. Se invece d'una puerpera si finge una sposa, il giuoco si chiama Fare alle zie.
(246) GLI SPROPOSITI. Giuoco notissimo e poco diverso dal Mazzolino.
(247) IL CAPANNISCONDERE detto anche in Toscana fare a rimpiattino in qualche dialetto chiamasi anco Nasconderella.
(248) LE MERENDUCCE. Bambini e bambine imbandiscono la merenda alle loro bambole o pope stendendo il loro tovagliolino o bavaglio su certe piccole mense di legno, e mettendovi su altre loro piccole stoviglie. - Gli altri giuochi o trastulli qui nominati sono assai noti. Il Beccalaglio più comunemente è chiamato Mosca cieca. L'andare a Predellucce o predelline, cioè l'esser portato da due che di lor mani intrecciate gli fan seggiola, in qualche dialetto dicesi andare a Sedia di Papa. L'acculattare, cioè il fare altrui battere il sedere in terra, più che un giuoco, è una delle penitenze
(249) TAGLIO. Agio, mezzo; dal mestiere del sarto, che dice esservi taglio per roba da tagliare.
(250) IN BARBA DI GATTA. Cioè colla barba unta dal gozzovigliare.
(251) TOCCO UN TASTO. Tastato, domandato così alla sfuggita.
(252) DAR CARTACCE. Non rispondere secondo che si desidera; da un giuoco di carte.
(253) NON VOLER PIÙ PASTO. Non voler esser menato per le lunghe con chiacchiere, promesse o altre finte.
(254) I PIACEVOLI ecc. Due allegre compagnie di cacciatori fiorentini, di cui fu perfino scritta una Storia da Giulio Dati.
(255) MOTIVO. Qui sta per voglia, ed e assai proprio, chè la volontà e quella che muove ad ogni azione.
(256) IL DÌ Illo die, quel dì.
(257) MENTRE. Se.
(258) Chiappasse. Sopraggiungesse.
(259) BRUCIOLI. Trucioli, sottilissimo strisce di legno: e se ne vedono anche oggi di questi cappelli.
(260) QUARTIERI. Contorni.
(261) FACEA LA FURFANTINA. Tremare. Il modo è dalla pratica di certi furfanti vagabondi, che per destare l'altrui commiserazìone si gettano per le vie fingendo di esser per basire dalla fame e dal freddo.
(262) FUCILE. Focile, acciarino, istrumento per destare dalla pietra focaia la scintilla che poi appiccava il fuoco alI'esca.
(263) ALARI. Arali, capofochi.
(264) LIETA. Fiamma chiara e breve.
(265) IL CRÒGIOLO ecc. Seguitò a stare accanto al foco dopo cessata la fiamma; dal crògiolo o tempera che si dà ai lavori di vetro tenendoli, appena fatti, ad un calore moderato nella camera.
(266) FAR COME QUEI DA PRATO. Lasciar piovere. Ambasciatori di Prato domandarono ed ottennero dai Signori Priori di Libertà il diritto di celebrare in un dato giorno dell'anno una fiera; e stipularono di pagare per ciò una certa somma. Nell'uscir di palazzo venne loro in capo che se in quel dì piovesse. era pur forza pagar la somma e non far la fiera; onde tornarono in dietro a domandare: Sígnori, e s'è piovesse? - Rispose uno: Lasciate piovere.
(267) DOPO. Oltre.
(268) A CIELO. Grandissimo.
(269) FATE MOTTO. Senti! Udite sproposito!
(270) DI ROTTO. Di guasto, di male.
(271) GUARDA LA GAMBA! Così gridavasi dai ragazzi all'avvicinarsi dei Toccatori o ministri del tribunale civile che portavano una calza d'un colore una d'un'altro: e gridavasi per avvertire il debitore sentenziato a pagare, che corresse a un luogo immune, dove l'ufiziale non potesse, toccandolo, intimargli il termine perentorio. Da ciò Guarda la gamba passò a significare Il cielo me ne liberi! o simile.
(272) NÈ LEVA ecc. Nec addas nec adimas. Per appunto come volevi trattar me.

 
 
 

Sonetti di Agostino Gobbi 8-11

Sonetti di Agostino Gobbi

Tratti da "Scelta di sonetti e canzoni de' più eccellenti rimatori d'ogni secolo" di Agostino Gobbi, aggiornato da Eustachio Manfredi, Volume 4, 1^ edizione, Bologna 1711, per Costantino Pisarri, sotto le Scuole. Il frontespizio del volume reca il seguente titolo: Rime d'alcuni illustri autori viventi aggiunte alla terza parte della Scelta d'Agostino Gobbi.

8. pag. 11

Ali bianche portava agili, e preste,
E avea le chiome d'or puro lucente,
Di raggi adorno il chiaro volto ardente,
E d'or trapunta la cerulea veste,

Quel dì, che a dileguar l'ombre funeste,
(Onde avvolta giacea l'umana gente)
Scese a Maria dagli astri, e riverente
Le apparve innanzi il Messagger celeste.

Al maestoso, altero, almo sembiante
E a quel temuto suon, che il Rè feroce
Fù de gli abissi ad atterrir bastante,

Qual maraviglia fia, se al cor veloce
Le corse un gielo, e languida, e tremante
Senza moto rimase, e senza voce?


9. pag. 11

Poiche Felsina vede a terra sparte
Per man di voi l'armi nemiche, e indegne
Dell'ozio, e alzarsi di Virtù l'insegne
Per tutta Italia, e ciascun'altra parte;

Mille onor, mille glorie a voi comparte,
L'opre vostre premiando eccelse, e degne
E v'ama sì, che par, che ogn'altro sdegne,
Qual più s'estima per natura, od arte.

E 'l Ren, cui mai non turba altra procella,
Sen và correndo al mar gonfio, ed altero,
E lieto così dice in sua favella:

Or che virtute ha qui l'alto suo impero,
Ceda alla Gloria mia l'illustre, e bella
Garonna, il Tebro, e 'l Pò, l' Arno, e l' Ibero.


10. pag. 12

Io, che al tempo non volli unqua far guerra
Per compiacer mie voglie accese, immonde,
E ch'alsi, ed arsi per mirare in terra
Or due begli occhi, ed or due trecce bionde,

Oggi pavento il Ciel, che opprime, e atterra
Gl'empi, e pavento i venti, e l'aria, e l'onde,
E temo il foco, che si chiude, e serra
Ne le valli d'Inferno, ime, e profonde.

E in pena al mio fallir sì lungo, e folle
Serbo dentro al mio seno un cor di sasso,
Che al Cielo anela, e al Ciel mai non s'estolle.

E son qual'Uomo, che se piomba al basso
Da un'alpestre sassoso, ed erto colle,
Non può reggere il piè, movere il passo.


11. pag. 12

Chi mi sottragge al periglioso incanto,
Che all'Alma fece il Rè temuto, e forte
De' cupi abissi; e chi le funi attorte,
Ch'avvolse intorno al mio terreno ammanto

Discioglie; e il braccio lagrimevol tanto
Ritien dell'empia, ed implacabil morte,
Ch'alza armato a' miei danni, onde alle porte
Non scenda (ahi asso) dell'eterno pianto?

Ah, che indarno mi doglio, e grido in vano,
In van soccorso all'alte mie rovine
Chieggo piangendo da pietosa mano,

Se già chius'io l'orecchio a le divine
Voci, con cui sì spesso il Re sovrano
Pur volea trarmi a più beato fine.

 
 
 

I Ministri del Papa ladri

I Ministri del Papa ladri

St'affare, Checco, de st'arrubbamenti
E' na cosa che rompe li minchioni;
Indove t'arivorti di te senti
Ch'un Ministro harrubhato li mijoni.

Si fossi Papa a tutti st'accidenti,
A st'impiegati ladri, a sti birboni
Na schioppettata senza comprimenti....
Li vorrebbia manna all'antri carzoni. (1) 

- Sì, ammazzalli sarebbe necessario;
Ma p' imità de Cristo la passione
Vedi che er Papa deve fa er contrario.

Perchè si Cristo, che poi era er Padrone,
Tra du ladri morì, lui ch' è er Vicario
Tra ladri ha da campà p' imitazione.

(1) All'altro mondo.

Augusto Marini
(1860)
Da: Cento sonetti in vernacolo romanesco, Perino 1877

 
 
 

Poesie amorose per Laura 4-6

Post n°1569 pubblicato il 03 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

Poesie amorose per Laura


SONETTO IV

Consacrando tutte le sue forze a cantar lei, la farà celebre per tutto il mondo.

Da che presi a cantar l'inclita istoria
vi consecrai de la mia cetra il suono;
da ora innanzi io vi consacro e dono
il voler, l'intelletto e la memoria.

Mentr'io canto d'Amor l'alta vittoria,
e qual di me vi fece eterno dono,
membrando di qual mano prigion sono,
avrò del vincitor via maggior gloria.

S'io vivo, il vostro raggio in me risplende,
e se potrà l'ingegno, quanto puote
l'alta cagion ch'a farvi onor m'incende,

mentr'il sol guiderà l'ardenti rote,
là onde toglie il dì fin là ove il rende,
seran le lode vostre sparse e note.


SONETTO V

Al suo cuore: che se ne stia sempre con la sua donna, dove trova la massima felicità.

Entrò per gli occhi vostri e più non riede
fora il mio cor. Ben forte è chi 'l ritiene!
Se tai son le finestre e sì serene,
onde vostra bell'alma splende e vede,

ella, che dentro signoreggia e siede,
or qual serà? Dunque s'ei più non viene,
meraviglia non è, ché maggior bene
dentro trovò di quel che fuor si crede.

Questo sol, questa luna e queste stelle,
che splendon fuor del ciel, non ne dan segno
che dentro ha cose via più chiare e belle?

Godi, dunque, cor mio, di sì bel regno,
mentr'Amore o Fortuna non ten svelle,
perché di tant'onor sei troppo indegno.


SONETTO VI

Vive felice, pensando sempre alla sua Laura.

Pianta gentil, mentre nel mondo regna
Amor, vivan tue chiome e verdi e folte,
poi che spargesti le ricchezze accolte,
che l'alto possessor mostrar non degna.

Tu spiegasti d'Amor l'altera insegna,
per te fur l'auree treccie al vento sciolte:
deh! che m'avessi allor le luci tolte
per non veder già mai cosa men degna!

D'allor, s'io dormo o veglio, o seggio o vado,
in quel caro gioir lieto soggiorno,
a tutti altri pensier troncando il guado.

Io viddi il sol, tinto d'invidia e scorno,
attuffarsi nell'onde, e, mal suo grado,
ov'ei lasciò la notte, apparve il giorno.

Luigi Tansillo
(dal Canzoniere di Luigi Tansillo)

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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