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Messaggi del 17/05/2015

La carciofolata

Post n°1620 pubblicato il 17 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

Su l'angolo del vicolo solitario, ove non s'ode altro rumore se non il gorgoglio di una fonte invisibile, un lumicino rischiara fiocamente una madonnina. Intorno a lei, fra mazzetti di fiori appassiti, luccica qualche cuore d'argento. Le casupole, una appoggiata all'altra come le pecorelle nelle reti, dormono quasi nascoste da molte file di panni di tutte le forme, risciacquati nella giornata e appesi a canne e a corde perché il vento della notte gli asciughi. Sui parapetti delle finestre i ramoscelli dei garofani e delle viole a ciocche si aggrovigliano intorno ai vasetti di matricaria, di ruta, di persa e di basilico e scendono addosso ai muri umidi e scuri, ove fra i mattoni rotti o corrosi dai secoli, s'intravvedono nell'ombra tronconi di colonne, pezzi di capitelli e frammenti di sculture antiche. Qua e là, tra le inferriate, le scalette e le loggette di legno, ingombrate da oggetti inutili, qualche condotto di latta arrugginita serpeggia nel buio e sale a congiungersi con le gronde da cui pendono ciuffi d'erbacce nere. Giù in fondo su la miseria dei tetti bruni, ove tra le tegole e i cocci sorgono innumerevoli cappe di camino, sul ciclo palpitante di stelle, campeggia una cupola enorme, coi vetri della lanterna inargentati dalla luna.
Nel silenzio viene da lontano un trillare leggiero di mandolini, e le ultime case del vicolo si veggono colorire a poco a poco da una pallida luce giallognola. Due gatti balzan fuori da un mondezzaio e spariscono nella feritoia d'una cantina, e un cane lupetto si mette a correre verso il chiarore, abbaiando.
I trilli dei mandolini si avvicinano: il chiarore cresce e all'improvviso una festa di luce e di colori, una allegrezza di suoni e di canti invade la stradicciuola. Le finestrelle, le loggette e i mignani s'empiono subito di ragazze dai begli occhi neri e curiosi, e i portoncini e le scalette si affollano di giovinetti e di vecchi che allungano il collo verso il fondo del vicolo, da dove rischiarato con fiaccole e bengala s'avanza un gruppo numeroso e pittoresco di suonatori strimpellando mandolini e chitarre. Essi hanno in capo grandi tube ornate di fiori e son tutti vestiti con abiti vistosi di forme disusate, i quali fan ridere i giovani e ricordano ai vecchi gli anni lontani della loro adolescenza. Le esclamazioni di sorpresa e le dimande si incrociano fra i portoncini e le finestrelle: - Che è successo?... - Chedè?... - È ritornato carnevale?... - Chi so'? E una voce superando il frastuono delle voci, degli strumenti e delle risate di cui ormai il vicolo è pieno, risponde : - So' li pittori che vanno a magna li carciofoli, in Ghetto. - All'udire tali parole gli uomini battono le mani e le donne sorridono. Forse qualche giovinetta ripensa alla Fornarina, e qualche vecchio rammenta Bartolomeo Pinelli.
Li pittori intanto, seguendo i suonatori mentre fiori e foglie di erbette odorose cadono sui loro cappelli, passano, tenendosi a braccetto, ridendo, cantando, e rispondendo ai saluti ed ai sorrisi con un arguto scoppiettare di motti; penetrano in altri vicoletti, sboccano in una piazzetta, la traversano tra una folla di gente che è là da qualche ora ad aspettarli per vederli passare, ed entrano nell'osteria di Pacifico, dalla cui porta pacificamente spalancata esce un odore acuto e appetitoso di carciofi fritti nell'olio.
In tutte le stanze dell'osteria sul candore delle tovaglie di bucato sotto il tremolare delle fiammelle innumerevoli delle lumiere i piatti e i bicchieri luccicano, le forchette e i coltelli brillano, e le lunghe file di bottiglie, piene di un vino che ha il colore dell'ambra, mandano qua e là su le salviette ornate di rose sprazzi di luce gialla. Le tavole vengon prese d'assalto, e ciascuno, come può, si conquista il posto. Gli attaccapanni inchiodati alle pareti, ove sono dipinti vari paesaggi che fan ripensare a Claudio di Lorena e al Pussino, spariscono in un attimo sotto a cumuli di giacche, di tabarri, di fasce e di cappelli, sui quali vengon posati in un grazioso disordine mandolini, chitarre e tamburelli; e comincia subito un rumore infernale di percosse stoviglie. A questo chiasso se ne aggiunge un altro: quello che fa la folla fuori dell'osteria.
Molti vogliono entrare per forza. Il sor Pacifico, un bell'uomo panciuto e prosperoso, rubicondo e ricciuto, un po' con le buone e un po' con le cattive, cerca di persuaderli ad andarsene, dicendo loro: - Me dispiace, signori; ma stasera nun se pò!... Stasera er locale è tutto preso da li pittori... Stasera chi nun è pittore nun magna. - Poi, quando vede che le sue ragioni non vengono ascoltate, chiude la porta in faccia a tutti mandandoli all'inferno. Ma quelli sempre più ostinati a voler entrare, non ci vanno, e seguitano a far baccano. Un vetro va in frantumi. Bisogna sbarrare l'entrata dell'osteria con un tavolino. Durante il lavoro dello sbarramento il rumore delle stoviglie percosse si attenua e un bel tipo ne approfitta subito per alzarsi e per mettersi a parlare: - Signori! - egli dice seriamente. - Prima di mettervi a mangiare sarà bene che voi sappiate come il carciofo appartenga alla famiglia delle composte ed alla singenesia di Linneo. Coltivasi negli orti... - Un urlo formidabile costringe lo sconsigliato oratore a smettere, e non appena egli si siede, ricomincia più che mai violento un fracasso di mille strepiti insieme, in mezzo al quale si sentono squillar cento voci che chieggono i carciofi in cento favelle: - Volerne li carciofoli... Les artichauts... Los alcachofas... Die artischocken... The artichokes...
Il sor Pacifico si fa innanzi, accolto da una tramontanata di fischi, di urli, di applausi e di risate, sale sur una sedia e con le mani alzate fa cenni per implorare un po' di pazienza; poi scende ed apre la porta di un meschino cortiletto, dove alcuni uomini vestiti di bianco, fra nuvole di fumo azzurro, si affaccendano intorno a caldaie nere, piene d'olio bollente, per estrarne i carciofi, che sembrano d'oro, e gittarli entro a canestre coperte da candidi tovaglioli.
Appena il sor Pacifico apre la porta della cucina, ne esce subito uno degli uomini bianchi, sorreggendo con le braccia robuste una di codeste canestre. Dopo qualche istante è vuota! Altre canestre colme di carciofi vengono recate sulle tavole, altre e poi altre, e subito che vi sono posate mostrano il fondo.
Tutti mangiano ghiottamente e bevono. I carciofi, si sa, prosciugano la gola, e il vino per bagnarla non è mai troppo. I litri si vuotano senza contarli. E il vino da un dolce calore alle vene, arrossa i volti, rinforza i corpi e intenerisce gli animi. I « filetti di baccalà », una specialità del locale, vengono dopo i carciofi ad accrescere di tutti la voglia di bere; e quando una enorme zuppa inglese, scortata da qualche bottiglia di liquore, segue i « filetti », i ricordi, gli aneddoti, le rimembranze e le memorie spropagano da una tavola all'altra, recandovi ora una sincera allegrezza ora una soave mestizia.
Un vecchio parla, e i suoi vicini coi gomiti sulla tovaglia lo ascoltano assaporando le parole.
- Se l'ho conosciuto?! - dice il vecchio staccando le labbra dall'orlo di un bicchierino di alchermes e rispondendo a una domanda che gli viene rivolta - Se l'ho conosciuto?! Ma fin dai primi giorni che venne a Roma.
Aveva lo studio fuori della Porta del Popolo, a Papagiulio.
Quanto lavorava! Sempre! Ricordo ancora quale impressione noi provavamo la domenica tutte le volte che andavamo a cercarlo; quando, dopo di aver percorso la via Flaminia, piena di gente allegra e spensierata, che si recava a Ponte Molle a far bisboccia, lo trovavamo nel suo studio, davanti al suo cavalletto. Solo! Quanto lavorava!
- Povero Fortuny! - esclama qualcuno.
Altri rammentano un altro pittore spagnuolo : Eduardo Rosales.
E pensare, - osserva uno battendo col pugno la tavola su cui una rosa accartoccia i petali, manifestando il dolore che prova nel trovarsi in mezzo a scorze di arance, a foglie di finocchi e a croste di pane! - E pensare che quando egli morì, qui in Roma, si dovette ricorrere alla pietà degli amici per le piccole spese, occorrenti ai modesti funerali!
Le pipe cominciano a mandare verso il ciclo delle stanze qualche nuvoletta azzurra di fumo e le bottiglie seguitano a vuotarsi. E a riempirsi.
Alcuni giovani parlano di un quadro del Faruffini. Uno di loro allontana con un gesto rapido bicchieri e bottiglie e con l'unghia traccia poche linee sulla tovaglia. Cinque o sei teste si chinano a guardarle. E intorno alle linee divampa un violento dibattito, al quale piglian parte dieci o dodici parlando tutti in una volta. Gridano, strepitano e come avviene sempre quando quelli che disputano, sono parecchi, e i bicchieri vuotati sono anche di più, così passano rapidamente da un argomento all'altro, con una facilità che pare fino impossibile.
Più in là, tra il fumo del tabacco e del .caffé, sorge un'altra discussione. L'accende un giovanetto, rammentando Salvator Rosa e recitando qualche verso delle sue satire; l'attizza uno scultore, dicendo, fra l'altro, che il Thorwaldsen una volta, essendo stato invitato a una festa dal re di Danimarca, vi andò col petto ornato dalla sola commenda dell'ordine del bajocco, che egli aveva ricevuta nelle grotte di Cervara; e la spegne un bel vecchio con. una lunga barba bianca, che gli scende sul petto, il quale, dopo di aver raccontato come lui si ricordasse di aver visto in gioventù l'Overbeck scendere in ciabatte dal suo studio e percorrere così un lungo tratto della via Sistina per entrare in una modesta bottega ove egli aveva l'abitudine di andare ogni giorno a sorbire il caffé, conclude con l'affermare gravemente che una volta la vita dell'artista era più semplice.
Mentre tutti convengono in questa affermazione rampollata dal caffé e dalle ciabatte dell'Overbeck, due giovinetti pigliano le chitarre, ne risvegliano, pizzicandole, le corde indormentate, ne cavano alcuni accordi, ai quali s'unisce subito il trillare di un mandolino, e si mettono a suonare il passagallo; quelle poche note lunghe, insistenti, strascicate penosamente in un ritmo lento e monotono, che talvolta i popolani, obliandosi, amano di cantare, allorquando il sole indora i selciati delle piazzette trasteverine o il plenilunio inargenta le acque del Tevere, popolando di fantasmi le rive deserte. Tutti ascoltano in silenzio e più d'uno, con la sensibilità propria dell'artista, acuita dall'eccitazione del vino, negli accordi gravi e solenni delle chitarre, ritrova lo squallore tragico e sublime della nostra campagna, il tardo e paziente incedere dei buoi che trascinano gli aratri e il roteare maestoso delle pojane su le vaste solitudini fra il Tevere e l'Aniene; e nei trilli rapidi e argentini del mandolino rivede in fantasia le mozzatore che tornano danzando dalla vendemmia con le chiome nere ornate di pampini, i salterelli ballati sotto le pergole e fra i roseti nei giardini del Monte Testaccio, e i cocchi infiorati e veloci, pieni di minenti e di fanciulle che sonando gnacchere e tamburelli gittano alla luce infocata dei tramonti d'ottobre gli appassionati stornelli d'amore. Quando il passagallo finisce e gli ultimi arpeggi delle chitarre si dileguano nell'aria, oramai tutta annebbiata dal fumo delle pipe, le stanze dell'osteria si vuotano a poco a poco, e appena gli ultimi ne sono usciti, sorreggendosi alle sedie, vi entrano varie donne coi capelli crespi e negletti, le quali, mentre il sor Pacifico si mette a segnare col gesso qualche numero sur una piccola lavagna, aprono le finestre; raccolgono le salviette biancheggianti qua e là sotto le tavole; rialzano le sedie rovesciate; gittano in terra insieme ai bicchieri rotti, i rimasugli delle vivande che imbrattano le tovaglie; sparecchiano e di tanto in tanto si avvicinano alla porta e rimangono a guardare ridendo li pittori che adunati accanto a una fontana vivamente colorata dai bengala, gridano: - Al Colosseo!... Al Colosseo!...
Al Colosseo? La via è lunga! - osserva qualcuno.
Ma i suonatori accordano gli strumenti, principiano a strimpellare la marcia del Carlo il Guastatore, s'avviano verso un vicolo e vi entrano. Il vicolo muore oscuramente davanti a un voltone enorme, sorretto da alcune colonne scannellate. Tutti vi passan sotto cantando e rammentando il Piranesi; poi traversano in silenzio la piazza Montanara, ove qua e là, sul selciato, dormono gruppi di contadini, aspettando che l'alba li svegli; girano in un labirinto di stradicciuole deserte e, lasciandosi dietro un grande e vecchio palazzo nero e disabitato, il quale per non morire di inedia s'è dovuto mettere a fare il magazzino di legname, proseguono verso una torre così rovinata e desolata che par che mediti il suicidio, e sboccano alfine in un largo sterrato, dirimpetto a una strada lunga diritta e solitaria, in fondo alla quale, sul ciclo scintillante di stelle, sorge un colle, coronato di cipressi: il Palatino.
- Qui, una volta, si tagliavano le teste! - dice un vecchio. Nessuno aggiunge niente, e tutti seguitano a camminare finché un altro, fermandosi davanti ad alcuni ruderi, esclama: - Ecco tutto quello che rimane del Circo Massimo! - E dopo una breve pausa, alzando le braccia soggiunge :
Muoiono le città, muoiono i regni: Copre i fasti e le pompe arena ed erba.
Nell'aria fresca, che incomincia a odorare di erbette aromatiche, viene da lungi l'uggiolare di un cane.
- Avanti!... Camminate!... - gridano diverse voci, e uno che già sente la lunghezza della strada, polverosa, dimanda: - Ma dove andiamo? A Frascati?
Le abitazioni cedono via via il posto alle siepi di pruni e di sterpi, interrotte di tempo in tempo da un albero annoso, da un casolare abbandonato, o da viottole che si perdono nel buio. Indicandomi una di codeste viottole, un pittore un po' innanzi negli anni mi dice : - Guarda ! Qui ci nascondemmo per salvarci dai gendarmi pontifici.
- Quando? - dimandano parecchi.
- Nel sessantasette.
- Tombola! - esclama subito uno, che sorretto pietosamente da altri due, gli cammina alle spalle.
Il pittore si volta, lo guarda, sorride e continua:
- Ci avevano detto di andare ad assaltare la caserma di San Paolo. - Ma le armi? - Andate a villa Matteini - ci risposero - e le troverete. - Andammo a villa Matteini e laggiù, invece di trovarci le armi, ci trovammo i gendarmi. Mi pare ieri! Mi par proprio di risentire lo scalpitare dei cavalli dei dragoni sulla terra dura e i passi spietati delle pattuglie che ci davano la caccia.
- Ma camminate! - gridano ancora altre voci lontane. - Vi pesano le gambe? Muovetevi! - E noi ci muoviamo ed entriamo in uno stradone fiancheggiato da vecchi olmi che non finiscono mai; raggiungiamo un arco gigantesco e, finalmente, dinanzi a noi, appare il Colosseo.
Le chitarre e i mandolini ripigliano a suonare; e mentre faci e bengala ci avvolgono in un puzzo di zolfo insoffribile, passiamo sotto ad arcate maestose su le cui pietre antiche le nostre ombre moderne si allungano e si accorciano bizzarramente, ed entriamo nell'arena. Una civetta ci vola sul capo, stridendo, e alcuni pipistrelli, spaventati dal chiarore insolito, ci svolazzano intorno.
Prima che le faci e i bengala si spengano uno si arrampica sopra a un rudero e accompagnandola col suono della chitarra canta con voce stanca una canzone: appena l'ha finita, un altro prende subito a dire: - Signori! In questo luogo, ove i cristiani divoravano le belve... - Seguita per un po' a infilzare scemenze; ma poi le parole gli muoiono sulle labbra e s'azzitta. La grandezza tragica del luogo non vuole scherzi. Difatti a poco a poco ognuno sentendosi oppresso dal peso delle memorie, finisce col tacere e incomincia a sentire il desiderio di andarsene. Uno guardando l'orologio mormora: - È tardi! Mi pare che sarebbe ora di ritornare... a Roma! - e s'avvia verso l'uscita dell'arena; tutti lo seguono a piccoli passi, in silenzio, quasi temessero di svegliare la Storia che dorme nelle rovine auguste.
Quando son fuori dell'anfiteatro un mandolino, a cui è rimasta la metà delle corde, aiutato da una chitarra scordata, intona una marcia, e tutti si allontanano in fretta.
Due che camminano barellando, rimangono indietro. All'improvviso uno di loro piega le ginocchia e si ferma : guarda qua e là in terra, come se cercasse qualche cosa, poi, levando lentamente l'indice della mano destra verso il cielo stellato, si volge all'amico che lo sostiene e gli dice: - Vedi: il Colosseo, non si "può negarlo, è una gran cosa antica; è una grandissima cosa storica; pero tu puoi esser certo che se domani, al mondo, non ci fosse più il Colosseo, il mondo seguiterebbe a camminare lo stesso; ma se, invece, domani, al mondo non ci fosse più il vino, tu devi convenire, con me, che il mondo non potrebbe pili camminare. Ne convieni?
- Ne convengo - gli risponde l'altro, ridendo e sorreggendolo. E mentre lo sorregge e ride, pensa che i mondo non cammina più, anche quando ne ha bevuto troppo.

Cesare Pascarella
Tratto da Prose

 
 
 

Er tisico

Er tisico

Cuesto oggnuno lo sa: ppila intronata
va ccent’anni pe ccasa: e tte l’ho ddetto.
Mó mm’accorgio però cch’er poveretto
sta vviscino a ssonà lla ritirata.

Già ffin dar tempo che sposò Nnunziata
le scianche je fasceveno fichetto;
e ffinarmente s’è allettato a lletto
perch’era ppiú ll’usscita che ll’entrata.

Nun tiè ppiú ffiato da move le bbraccia:
e cchi lo va a gguardà ssu cquer cusscino,
je vede tutta Terrascina in faccia.

Io metterebbe er collo s’un quadrino
che nnu la cava: e ggià la Commaraccia
secca de Strada-Ggiulia arza er rampino.

Giuseppe Gioachino Belli

Nota: La comare secca, cioè "la morte", di Strada Giulia, dalla via di questo nome, nella quale è la Chiesa dell'Orazione e Morte.

 
 
 

Una lingua nova

Una lingua nova

Cuer Giammaria che tt’inzurtò a Ttestaccio,
e mmo assercita l’arte de la spia,
passava mercordí dda Pescaria
co ttanto de tortore sott’ar braccio.

Ner travedello, io che nun zo che ssia,
ma nu lo pòzzo sscerne cuer mustaccio,
arzo un zercio da terra, e ppoi jje faccio:
"A la grazzietta padron Giammaria".

"Chi è?" ddisce svortannose er gabbiano:
e, ppunf, in ne li denti io je rispose
co cquer confetto che ttienevo in mano.

"Nun ve pijjate pena de ste cose",
dico "perché cquest’è, ssor paesano,
la lingua de parlà co le minose".

Nota: Ttestaccio: Luogo dove la plebe corre nella primavera, e più in ottobre, gozzovigliare, stanteché nel monte formatosi ne’ bassi tempi di rottami di vasi (testa) e quindi detto Testaccio, sono scavate grotte entro le quali si mantengono freschissimi vini. Il prato inoltre, che trovasi innanzi al detto monte e alla famosa piramide dell’epulone C. Cestio, è molto opportuno ai sollazzi romorosi. Anzi ne’ secoli andati la città di Roma suoleva darvi i pubblici e talora crudi e cruenti spettacoli. In un canto di esso prato trovasi il cemetero de’ riformati.

Giuseppe Gioachino Belli

 
 
 

Mercoledì 31 ottobre

Post n°1617 pubblicato il 17 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

Mercoledì 31 ottobre

Sono arrivato questa mattina alle sette, dopo aver attraversato la campagna romana all'alba. Una grande desolazione. Greggi intraviste nella nebbia. Terreni tristi dall'erba rada. Qualche costruzione dalle tegole giallastre, che mi ha ricordato il Midi. Fattorie tristi e bruciate. Il deserto.

Una prima corsa, passando, al Campidoglio. Il Marcaurelio superbo, forte e potente. Vista del Foro, piccolo e grigio. - Di qui al Corso: sensazione di strettezza. La nostra rue Saint-Honoré. I palazzi, grandi masse quadrate, nudi e tristi dal di fuori, con il loro intonaco di un giallo rossastro. Ma all'interno si sente l'immensità: da vedere. - Nel pomeriggio grande corsa attraverso Roma, per un primo colpo d'occhio. Mi tornano alla mente Genova e Aix. Molta grandezza, ma sparsa e triste. L'orrore nauseabondo dei vecchi quartieri. La biancheria alle finestre, appesa ad una corda tenuta scostata dal muro da un bastone. Interi bucati, lunghi drappi che pendono, camicie, biancheria bianca, poi l'accozzaglia della biancheria colorata. L'odore misto d'olio rancido e di miseria. Rivedere Trastevere. Maestà di piazza San Pietro, ma la cupola è troppo arretrata. A palazzo Farnese, dal nostro ambasciatore, saloni magnifici, poi i vani delle finestre in falso marmo mal dipinto. Scale, gallerie, mense il tutto freddo e solenne. E in mezzo l'ambasciatore, monsieur Billot, il topo bianco.

In via del Corso la stessa impressione di strettezza del mattino. Ancora nessuna vettura alle tre del pomeriggio. Bella la sistemazione di piazza del Popolo.

Il Pincio, di un grazioso gusto italiano, ma anch'esso stretto. Una musica militare, troppi ottoni. Busti dei grandi uomini nei viali. Dalla terrazza bella vista su Roma, un po' confusa, con le cupole e le chiese. In fondo, maestosissimo, San Pietro. Dall'altro lato di Roma il Gianicolo, opposto al Pincio. Via del Babbuino (della scimmia) dritta e fredda. Piazza di Spagna con la bella scalinata dal grazioso effetto artistico (alla francese). La fontana di Trevi, molto bella, di un allievo del Bernini. Un rococò grandioso. Villa Aldobrandini in via Nazionale, vista di fronte con il suo giardino per aria, il grande pino marittimo, tutta Roma. Maestosa. Soffia lo scirocco, giornata pesante, con nubi nere e tempestose verso sera.

La conversazione con monsieur Billot: in Francia si sbaglia a disprezzare troppo l'Italia. Potrebbe far molto, soprattutto quella del nord, ma è incapace di uno sforzo prolungato. La Triplice Alleanza ci ha reso il servizio di renderla ambiziosa, di spossarla per mantenere una flotta e un esercito non utilizzati da tempo. E questo che l'ha rovinata.

Inoltre l'Italia era molto più impaziente e desiderosa di una guerra della Germania. La Germania doveva calmarla. La sua flotta, superba d'aspetto, ha già di che temere, invecchiata dopo dodici anni, non più al riparo dai nuovi proiettili; e non è possibile mutarla.

Posizione difficile dell'ambasciatore, poiché gli italiani hanno sempre il pretesto di accusarci di voler ristabilire il potere temporale. È una scusa. Inadeguata.

Piazza Campo dei Fiori, piena di orridi rigattieri.

Molti cocci. Bella vista di ponte Sant'Angelo, guardando verso Trastevere. Pittoresca riva destra. Il Palatino e soprattutto l'Aventino intravisto con le sue tre chiese.

Emile Zola
Tratto da Diario romano
(appunti sul viaggio a Roma dal 31 ottobre al 4 dicembre del 1894 per conoscere l'ambiente dove dovrà muoversi il protagonista di "Rome" un romanzo che fà parte di un ciclo iniziato con "Lourdes" e finito con "Paris")

 
 
 

Una casata

Una casata

Cristoggesummaria, cc’antro accidente!
Sete una gran famijja de bbruttoni.
E nnun méttete in pena ch’io cojjoni,
perché pparleno tutti istessamente.

Dar grugno de tu’ padre a li meloni,
cuelli mosini, nun ce curre ggnente:
e ar vedé mmamma tua, strilla la ggente:
"Monaccallà, ssò ffatti li bbottoni?".

Tu, senza naso, pari er Babbuino:
tu’ fratello è er ritratto de Marforio,
e cquell’antro è un po’ ppeggio de Pasquino.

Tu e Mmadama Lugrezzia, a sti prodiggi,
v’amanca de fà cchirico Grigorio,
pe mmette ar mucchio l’Abbate Luiggi.

Giuseppe Gioachino Belli

Il sonetto di Belli fa riferimento alle "statue parlanti" di Roma, i così detti "Arguti" dei quali ho già parlato anni fa. Le statue alle quali si fa riferimento nel sonetto, sono così definite:

Statua del Babuino: Statua di satiro giacente, la quale, dal nome che oggi gli si dà a cagione della deformità contratta dal tempo, fa egualmente chiamare via del Babuino la vecchia Strada Paolina, aperta già da Paolo III nella quale si trova sopra una fontana.

Statua di Marforio: Statua colossale dell’Oceano, esistente in oggi nel cortile del Museo Capitolino, e situata anticamente presso il Foro di Marte (o di Augusto), e però detta volgarmente Marforio, come via di Marforio si chiama la brutta contrada che corre tra le falde del Monte Capitolino e il sito del detto Foro di Marte. Il popolo tiene Marforio per un soggetto ridicolo, e lo si fa interlocutore nelle così dette "pasquinate" o satire pubbliche, per le quali un tempo i Romani avevano spirito e rinomanza.

Statua di Pasquino: Frammento di statua o di gruppo rappresentante Menelao che sostiene il cadavere di Patroclo. Fu trovata lì presso (piazza Pasquino) al principiare del secolo XVI, vicino alla bottega di un sarto, morto poco innanzi, il quale era di spirito molto satirico e aveva nome Pasquino. Esposta appena la dissotterrata statua alla vista del popolo, fu tosto da lui chiamata Pasquino e divenne il luogo d’affissione delle satire pubbliche, dette perciò fin d’allora "pasquinate".

Statua di Madama Lucrezia: Frammento di colosso dalla cinta in su, ma privo di braccia e di naso. Dal costume egiziano del pallio aggruppato in un sol nodo sul petto, argomenta il Winckelmann poter questo simulacro avere rappresentato una Iside.
Una casata

 
 
 

Beatrice Cenci

Post n°1615 pubblicato il 17 Maggio 2015 da valerio.sampieri
 

Sabato mattina, 11 settembre 1599, i primi signori di Roma, membri della confraternita dei confortatori, si recarono alle due prigioni, a Corte Savella, dov'erano Beatrice e la sua matrigna, e a Tordinona, dove si trovavano Giacomo e Bernardo Cenci. Per tutta la notte dal venerdì al sabato, i signori romani che avevano saputo quel che stava accadendo non fecero altro che correre dal palazzo di Monte Cavallo a quelli dei più autorevoli cardinali, per ottenere almeno che le donne fossero giustiziate all'interno della prigione, e non su un infame patibolo; e che si facesse grazia al giovane Bernardo Cenci, che, appena quindicenne, non poteva aver partecipato a nessun complotto. Soprattutto il nobile cardinale Sforza si è distinto per il suo zelo durante quella notte fatale, ma, benché principe così potente, non ha potuto ottenere nulla. Il delitto di Santa Croce era un delitto vile, commesso per denaro, mentre il crimine di Beatrice fu commesso per salvare l'onore. Mentre i cardinali più potenti facevano tanti passi inutili, Farinacci, il nostro grande giurista, ebbe l'audacia di farsi strada fino al papa; arrivato davanti a Sua Santità, quest'uomo sorprendente fu così abile da toccare la sua coscienza, e infine, a furia di insistere, gli strappò la vita di Bernardo Cenci.
Quando il papa pronunciò questa grande parola, potevano essere le quattro del mattino (del sabato 11 settembre). Tutta la notte si era lavorato, sulla piazza di ponte Sant'Angelo, ai preparativi della crudele tragedia. Però tutte le copie necessarie della sentenza di morte non poterono esser terminate che alle cinque del mattino, di modo che soltanto alle sei fu dato il fatale annuncio a quei poveri sventurati che dormivano tranquillamente.

La ragazza, sulle prime, non riusciva nemmeno a trovare la forza di vestirsi. Gettava grida acute e continue, e si abbandonava senza ritegno alla più atroce disperazione. «Com'è possibile, ah! mio Dio!» esclamava, «che così all'improvviso io debba morire?» Lucrezia Petroni, invece, disse solo parole molto dignitose; prima pregò in ginocchio, poi esortò tranquillamente sua figlia a recarsi con lei nella cappella, dove entrambe dovevano prepararsi al grande passaggio dalla vita alla morte. Quelle parole resero a Beatrice tutta la sua tranquillità; tanto si era mostrata eccitata e furiosa nel primo momento, altrettanto fu calma e ragionevole non appena la matrigna richiamò quella grande anima a se stessa. Da allora in poi, fu uno specchio di coraggio che tutta Roma ammirò. Chiese un notaio per fare testamento, e ciò le fu accordato. Dispose perché il suo corpo fosse seppellito a San Pietro in Montorio; lasciò 300.000 franchi alle Stimmatine (religiose delle Stimmate di San Francesco); questa somma deve servire alla dote di cinquanta ragazze povere. Tale esempio commosse la signora Lucrezia, che, anche lei, fece testamento e ordinò che il suo corpo fosse portato a San Giorgio; lasciò 500.000 franchi in elemosina a questa chiesa, e dispose altri pii legati. Alle otto, si confessarono, ascoltarono la messa, e ricevettero la santa comunione. Ma prima di andare a messa, la signora Beatrice pensò che non fosse conveniente comparire sul patibolo, davanti a tutto il popolo, con i ricchi abiti che portavano. Ordinò due vesti, una per lei, l'altra per sua madre. Queste vesti furono fatte come quelle delle monache, senza ornamenti sul petto e sulle spalle, soltanto pieghettate con larghe maniche. La veste della matrigna era di tela di cotone nera; quella della giovane di taffetà azzurro con una grossa corda che stringeva la cintura. Quando portarono i vestiti, la signora Beatrice, che era in ginocchio, si alzò e disse alla signora Lucrezia: «Signora madre, l'ora della nostra passione si avvicina; sarà bene che ci prepariamo, che mettiamo questi altri abiti, e che ci aiutiamo per l'ultima volta a vestirci l'un l'altra.» Sulla piazza di ponte Sant'Angelo era stato innalzato un grande patibolo con un ceppo e una mannaja (specie di ghigliottina). Verso le tredici (le otto del mattino), la compagnia della Misericordia recò il suo grande crocifisso alla porta della prigione. Giacomo Cenci uscì per primo dalla prigione; s'inginocchiò devotamente sulla soglia, disse le sue preghiere, e baciò le sante piaghe del crocefisso. Era seguito da Bernardo Cenci, il suo giovane fratello, che aveva anche lui le mani legate e una tavoletta davanti agli occhi. La folla era enorme, e vi fu un tumulto a causa di un vaso che cadde da una finestra, quasi sulla testa di uno dei penitenti che teneva una torcia accesa accanto allo stendardo. Tutti guardavano i due fratelli, quando all'improvviso si fece avanti il fiscale di Roma, e disse: «Signor Bernardo, Nostro Signore vi fa grazia della vita; sottomettetevi ad accompagnare i vostri parenti e pregate Dio per loro.» Subito i suoi due confortatori gli tolsero la tavoletta che aveva davanti agli occhi. Il carnefice stava sistemando sul carretto Giacomo Cenci, e gli aveva tolto l'abito per poterlo attanagliare. Quando il carnefice arrivò a Bernardo, verificò la firma dell'atto di grazia, lo slegò, e, poiché era senz'abito dovendo essere suppliziato, il carnefice lo mise sul carretto e lo avvolse nel ricco mantello di panno gallonato d'oro. (Si è detto che era lo stesso dato da Beatrice a Marzio dopo l'azione nella rocca di Petrella). L'immensa folla che era in strada, alle finestre e sui tetti, d'un tratto si commosse; si sentiva un rumore sordo e profondo, si cominciava a dire che il ragazzo era stato graziato. I canti dei salmi iniziarono e la processione si avviò lentamente attraverso piazza Navona verso la prigione Savella. Giunta che fu alla porta della prigione, lo stendardo si fermò, le due donne uscirono, fecero l'atto di adorazione ai piedi del crocefisso, e poi s'incamminarono a piedi l'una dopo l'altra. Erano vestite come si è detto, la testa coperta da un gran velo di taffetà che arrivava fin quasi alla vita.

La signora Lucrezia, nella sua qualità di vedova, portava un velo nero, e babbucce di velluto nero senza tacco, secondo l'usanza. Il velo della giovane era di taffetà azzurro, come la sua veste; aveva poi un gran velo di drappo d'argento sulle spalle, una gonna di drappo viola, e babbucce di velluto bianco, allacciate con eleganza e chiuse da cordoncini color cremisi. Nell'incedere in questo costume, aveva una grazia singolare, e a tutti salivano le lacrime agli occhi man mano che la vedevano avanzarsi lentamente nelle ultime file della processione. Le donne avevano entrambe le mani libere, ma le braccia legate al corpo, di modo che ciascuna di loro poteva portare un crocefisso; lo tenevano vicinissimo agli occhi. Le maniche delle loro vesti erano molto larghe, lasciando scorgere le braccia, che erano coperte da una camicia stretta ai polsi, come si usa qui. La signora Lucrezia, che aveva il cuore meno saldo, piangeva quasi in continuazione; la giovane Beatrice, invece, mostrava un grande coraggio; e levando gli occhi verso tutte le chiese davanti a cui passava la processione, s'inginocchiava per un istante, e diceva con voce ferma: «Adoramus te, Christe!» Nel frattempo, il povero Giacomo Cenci veniva suppliziato sul carretto, e mostrava molta costanza. La processione poté attraversare a stento la parte inferiore della piazza di ponte Sant'Angelo, tanto grande era il numero delle carrozze e la folla del popolo. Si condussero senza indugio le due donne nella cappella che era stata preparata; in seguito vi si condusse Giacomo Cenci. Il giovane Bernardo, coperto del suo mantello gallonato, fu portato direttamente sul patibolo; allora tutti credettero che sarebbe stato ucciso, e che non avesse ricevuto la grazia. Il povero ragazzo ebbe una tale paura, che cadde svenuto al secondo passo che fece sul patibolo. Lo si fece rinvenire con dell'acqua fresca, collocandolo poi di fronte alla mannaja. Il carnefice andò a prendere la signora Lucrezia Petroni; le sue mani erano legate dietro la schiena, non aveva più il velo sulle spalle. Apparve sulla piazza accompagnata dallo stendardo, con la testa avvolta nel velo di taffetà nero; là si riconciliò con Dio e baciò le sante piaghe. Le dissero di lasciare le babbucce sul lastricato; poiché era molto corpulenta, fece un po' fatica a salire. Quando fu sul patibolo e le fu tolto il velo di taffetà nero, soffrì molto d'esser veduta con le spalle e il petto scoperti; si guardò, poi guardò la mannaja, e, in segno di rassegnazione, alzò lentamente le spalle; le vennero le lacrime agli occhi, e disse: «O mio Dio!... E voi, fratelli miei. pregate per la mia anima!» Non sapendo cosa dovesse fare, chiese ad Alessandro, primo carnefice, come doveva comportarsi. Egli le disse di mettersi a cavalcioni sull'asse del ceppo. Ma questo movimento le parve offensivo per il pudore, e ci mise molto tempo a farlo. (I particolari che seguono sono tollerabili per il pubblico italiano, che tiene a sapere ogni cosa con la massima esattezza; al lettore francese basti sapere che il pudore della povera donna fece sì che si ferisse al petto; il carnefice mostrò la testa al popolo e poi l'avvolse nel velo di taffetà nero). Mentre si metteva in ordine la mannaja per la ragazza, un'impalcatura carica di curiosi cadde, e molta gente restò uccisa. Così comparvero dinanzi a Dio prima di Beatrice. Quando Beatrice vide lo stendardo tornare verso la cappella per prenderla, disse con vivacità: «La mia signora madre è davvero morta?» Le risposero di sì; ella si gettò in ginocchio davanti al crocefisso, e pregò con fervore per la sua anima. Poi parlò a voce alta e a lungo al crocefisso. «Signore, sei ritornato per me, e io ti seguirò di buon grado, non disperando della tua misericordia per il mio enorme peccato, ecc.» In seguito recitò diversi salmi e orazioni, sempre in lode di Dio. Quando infine il carnefice le comparve davanti con una corda, disse: «Lega questo corpo che dev'essere castigato, e libera quest'anima che deve arrivare all'immortalità e alla gloria eterna. »

Allora si levò, disse le sue preghiere, lasciò le babbucce in fondo alla scala, e salita sul patibolo passò lesta la gamba sopra l'asse, posò il collo sotto la mannaja, e si sistemò da sola alla perfezione per evitare d'esser toccata dal carnefice. Con la rapidità dei suoi movimenti, evitò che, nel momento in cui le fu tolto il suo velo di taffetà, il pubblico le vedesse le spalle e il petto. Ci volle molto prima che il colpo fosse vibrato, perché sopravvenne un inconveniente. Nel frattempo, ella invocava ad alta voce il nome di Gesù Cristo e della santissima Vergine. Il corpo ebbe un grande sussulto al momento fatale. Il povero Bernardo Cenci, che era sempre rimasto seduto sul patibolo, cadde di nuovo svenuto, e ai suoi confortatori occorse ben più di mezz'ora per rianimarlo. Allora comparve sul patibolo Giacomo Cenci; ma anche qui bisogna sorvolare su particolari troppo atroci. Giacomo Cenci fu mazzolato. Bernardo fu ricondotto subito in prigione, aveva la febbre alta, gli fu fatto un salasso. In quanto alle povere donne, ciascuna fu accomodata nella sua bara, e deposta a qualche passo dal patibolo, presso la statua di san Paolo che è la prima a destra sul ponte Sant'Angelo. Restarono lì fino alle quattro e un quarto dopo mezzogiorno. Intorno ad ogni bara ardevano quattro candele di cera bianca. In seguito, con quel che restava di Giacomo Cenci, furono portate al palazzo del console di Firenze. Alle nove e un quarto di sera, il corpo della giovane, vestito dei suoi abiti e incoronato di fiori a profusione, fu portato a San Pietro in Montorio. Era di un'incantevole bellezza; sembrava che dormisse. Fu sepolta davanti all'altar maggiore e alla Trasfigurazione di Raffaello da Urbino. Era accompagnata da cinquanta grandi ceri accesi e da tutti i frati francescani di Roma. Lucrezia Petroni fu portata, alle dieci di sera, alla chiesa di San Giorgio. Durante questa tragedia, la folla era innumerevole; fìn dove poteva spingersi lo sguardo, si vedevano le strade piene di carrozze e di gente, le impalcature, le finestre e i tetti coperti di curiosi. Il sole era tanto ardente quel giorno che molte persone perdettero conoscenza. Un numero infinito prese la febbre; e quando tutto fu terminato, alle diciannove (le due meno un quarto), e la folla si disperse, molte persone furono soffocate, altre schiacciate dai cavalli. Il numero dei morti tu molto considerevole. La signora Lucrezia Petroni era piuttosto piccola di statura, e benché avesse cinquant'anni, era ancora molto ben portante. Aveva bellissimi lineamenti, il naso piccolo, gli occhi neri, il viso molto bianco dal bel colorito; aveva pochi capelli ed erano castani. Beatrice Cenci, che ispirerà un eterno rimpianto, aveva sedici anni giusti; era piccola; era piacevolmente grassottella e aveva delle fossette in mezzo alle guance, di modo che, morta e incoronata di fiori, si sarebbe detto che dormisse, e anzi che ridesse, come le accadeva spesso quando era in vita. Aveva la bocca piccola, i capelli biondi e naturalmente ricci. Andando alla morte questi capelli biondi e inanellati le ricadevano sugli occhi, e ciò le dava una certa grazia e induceva alla compassione. Giacomo Cenci era di piccola statura, grosso, col viso bianco e la barba nera; aveva press'a poco ventisei anni quando morì. Bernardo Cenci assomigliava in tutto a sua sorella, e, siccome portava i capelli lunghi come lei, molta gente, quando comparve sul patibolo, lo scambiò per Beatrice. Il sole era stato così ardente, che molti spettatori di questa tragedia morirono durante la notte, e fra loro Ubaldino Ubaldini, giovane di rara bellezza, che prima godeva di perfetta salute. Era fratello del signor Renzi, molto conosciuto a Roma. Così le ombre dei Cenci se ne andarono in buona compagnia. Ieri, martedì 14 settembre 1599, i penitenti di San Marcello, in occasione della festa della Santa Croce usufruirono del loro privilegio per liberare dalla prigione il signor Bernardo Cenci, che si è obbligato a pagare entro un anno 400.000 franchi alla Santissima Trinità di ponte Sisto.

Stendhal
Tratto da "Cronache Romane"

 
 
 
 
 

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