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Messaggi del 24/11/2017

Er più der panorama

Er più der panorama

I


Sforbicia qua, farcia là, nun je resta
manco più un zeppo addosso a st'arberone
a daje un'illusione de riparo:
gnudo se sente e rapata la testa.
E ce mastica amaro.

Lui lo sa ch'è de regola
potà ogni tanto l'arberi giganti.
Ma trovasse davanti
a un popolo de nani che a l'ariaccia
riggida de febbraro
s'àggita tutto, e chiacchiera, e spettegola
su li fattacci sui, je tufa forte.

Certo che, propio ar centro de lo spiazzo
che s'apre ne la macchia, co le braccia
monche tozze scontorte,
e intesito così, pare un pupazzo
pe spaventà l'ucelli.

E d'ucelli era pieno.
E tutti assieme, sciò! via pure quelli:
come cacciaje l'anima ...
Ma arméno
nun poteveno sfugge a quer pignolo
che l'ha stroppiato, du' zeppetti in croce?

In tant'avvilimento
- mo ch'è restato solo,
mo ch'è rimasto muto -
je sarebbe piaciuto fermà er volo
a un passero, tentà un filo de voce
a ogni botta de vento.

II

E er tempo passa e ammucchia lento, eterno,
giorni su giorni d'acqua e nebbia e gelo,
giorni su giorni de strazio: l'inverno
in agonia se piagne l'animaccia.
E dà l'urtimi tratti in un inquacchio
de marciume e mollaccia
che impiastra er paesaggio fino ar celo.

E intanto l'arberone, poveraccio,
abbòzza: mai scenario così racchio
l'ha visto recità da prim'attore
la parte der pajaccio.

Ma era lui, propio lui quer gran signore
attrippato de verde e co una rama
arta spettacolosa pe pennacchio,
come segno der più der panorama?

Dio, poté come allora, da lassù,
svarià la vista nell'aria tranquilla
e riempilla de chiaro e lontananze;
e poté fionnà er core e facce un ponte
da la macchia a la piana a la marina
che sfavilla turchina a l'orizzonte
pinticchiata de vele de paranze!

Ma lui lo sa: in cent'anni
de scòla, er sempiterno
rotà de le staggioni j ha imparato
che addannasse è peccato e nun bisogna
mai dubbità. Fra poco, da un inferno,
un paradiso ha da nasce; e l'affanni
via tutti, e la vergogna
darà er passo a un trionfo.
Questo dice,
fra lui, er colosso. E mo, che la tempesta
e er fiele je se scarichino addosso
quanto je pare! Lui spiana la cresta,
se lassa annà e s'appènnica. E s'insogna
che scocca l'ora der tempo felice.

III


«Popolo de la macchia!

Razza pettegolona de spaporchi,
nun me risponni? Eppure, co la pacchia,
m'è tornata la voce e parlo chiaro.
Capisco. A un pipinaro
de manichi de scopa zozzi sporchi
compagno ar vostro, pe sputà veleno
je ce vò che lo sbatteno li venti
de maestro o libbeccio, e perde er fiato
come torna er sereno.

Gnente più urli, qui, gnente lamenti
e no fischi, e no scrocchi
de zeppi e spine. Solo chi ha fijato
robba speciale pò cantà ner coro
che ar bacio de ponente arza er tesoro
nato dar sugo mio.

E mo, poveri cocchi,
se a comparì sfiatati ve confonne,
sta a voiartri abbozzà. Ma ce so' io
che possa arméno ricreavve l'occhi
co sta grazia de Dio.
Guardate qua, che rame fresche! E un fascio
fitto de rame pe ogni braccio, e fronne
e fronne e fronne, a sfascio!»

IV

Benedetto sia er sonno
se fintanto che dura,
porta sogni a mannà, fòr de staggione,
tra arberelli e arberone er conto in paro.

Ma aprile ha già bussato de premura
a le porte d'un monno
in miseria, ch'aspetta er bene raro
de scialà co le prime margherite.

E già, pe' grazia de madre natura,
una peluria de verdino chiaro
spunta ar gigante sopra a le ferite
ancora fresche de la potatura.

C.A. Zanazzo
Da: Strenna dei Romanisti, 1964, pag. 504

 
 
 

Elegia albana

Post n°4395 pubblicato il 24 Novembre 2017 da valerio.sampieri
 

Elegia albana

Scendevo quasi portato da un'estasi della memoria
la galleria dei lecci da Castel Gandolfo ad Albano,
scendevo sotto la volta che gli antichissimi alberi
di sulle rocce incurvano con nervature nere
di bracci intrecciantisi, mentre le foglie minute
trapuntano contro cielo un lavorato soffitto.
Scendevo fra gli alberi, senza pensieri ma non dismemore,
scordavo la vita di oggi, più memore della lontana,
perché con mio padre già venni fanciullo fra questi lecci
e poi con Onofri poeta e altri amici anche cari;
ma tante volte che v'ero passato ammirando,
mai scorto avevo sul cielo quel fino ricamo di foglie.
Tanto ci vuole, una vita intiera, a vedere! E ti accorgi
d'un tratto che l'occhio ha sempre meglio imparato
l'arte di guardare e comincia a vedere davvero le cose
quando la luce del mondo gli sta tramontando dinanzi.
Mentre così nell'intimo scoprivo un luogo già amato,
passarono carri veloci coi grappoli della vendemmia,
(una volta erano asini lenti lenti con doppia bigoncia!);
lasciarono in quel fuggire una scia odorosa di uva,
e credetti di bere il mosto, inebbriandomi solo all'odore
come della vita fuggita mi dà un capogiro il ricordo.
E dopo passò un uomo e mi dette la buona sera
col gentile costume della gente che ancora saluta
in questo paese di vigne, in questa terra albana.
Così, fra poco, o miei cari, ci saluteremo laggiù.

Giorgio Vigolo
Da: Strenna dei Romanisti, 1964, pag. 484

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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