Creato da gandalf350 il 04/03/2010

Papaveri rossi

Il Blog di Dario e Miriam

 

 

IL Canto delle fromiche nere

Post n°7 pubblicato il 24 Marzo 2010 da gandalf350
Foto di gandalf350

Cosa ci sta succedendo?

Mentre passeggiavo ho visto un vecchio trascinato sull’asfalto.

L’hanno derubato, nessuno lo aiuta, i passanti sono ciechi, proprio non lo vedono.

Mi ha ricordato un altro vecchio. Quello era steso sul pavimento del reparto macelleria di un supermercato tra le scatole di detersivi.

Gli avevano messo un sacchetto di croccantini per cani sotto la testa.

E’ rimasto così fermo sotto gli occhiali tra i passi della gente, con le mani sul petto.

Mi sono fatta largo tra la gente e sono uscita. Ho visto una giovane coppia in mezzo alla folla, si baciava.

Ho sentito un signore di mezza età che cercava di bloccarli in quell’atto e minacciava di chiamare la polizia e denunciarli per atti osceni.

Ma cosa ci sta succedendo?

Oggi me ne sto a vivere seduta su una sedia, e non c’è abbastanza tempo per scrivere, per amoreggiare con la penna e mangiarsela tra i pensieri.

C’è solo un paese di montagna dove la luce invade ogni cosa, riuscendo a zoommare lo sguardo anche sui particolari silenziosi che in città solitamente vagabondano distanti.

L’aria è un calderone di profumi alchemicamente dosati, che mi convincono a curiosare tra le case.

Io qui seduta, trattengo il sapore del caffè tra lingua e gola.

Mi do carezze con una mano, pettinando i capelli.

Intorno odori di galline, paglia, fertilizzanti naturali, il fumo di un camino, i fiori tra le strade.

I bambini abbracciano i loro palloni come tesori da proteggere, le ragazze sostano fuori dei loro negozi con le mani in tasca e gli occhi dal trucco disfatto.

Ce n’è una appoggiata ad una staccionata, ha una musica tutta sua nelle orecchie e mentre si muove allegramente canta, lo fa con il piacere di farlo, urlando stonata parole in un inglese rattoppato, ma con un sorriso che incontra i miei occhi e li nutre di una spensieratezza che sembrava perduta.

Altra gente si gira e la guarda. La deridono con i sorrisi eppure l’ammirano nel cuore. Tutti camminano frettolosi, eppure sento che vorrebbero sedersi accanto a lei solo per guardarla ancora, per ricordarsi di come può essere facile fare qualcosa che è naturalmente facile da fare. Qualcosa che è altrettanto facile da dimenticare però, a causa di regole già “regine”.

In quel momento coincidono due immagini per fissare il tempo che scorre: una lucertola si mette a guardarmi con la zampa immobilizzata verso l’alto come se aspettasse la mia reazione per diventare invisibile e scappare, e una bambina per strada che lascia cadere una macchina fotografica giocattolo e con le mani che reggono la testa atteggia un espressione di dolore incontenibile.

Ma c’è un sole che si lascia andare su un campo di erba perché lo preferisce alla strada e alle sue storie, e c’è un vecchio in mezzo al campo che dipinge solitario e sorridente con un cappello di paglia.

La sua immagine mi fa pensare a chi prova la tristezza della noia, a quelli che non sanno mai come impiegare il proprio tempo e si consumano tra loro e le sigarette.

In lontananza un ragazzo steso su una panchina lascia ciondolare la mano, gli occhi sono chiusi però sembrano in perenne movimento, come se continuassero a vedere oltre, si! Oltre la stessa vita della strada con le sue storie.

E cosa sta accadendo ora?

Quel ragazzo non dorme, immagina.

Accanto gli passa gente diversa, gente che ne ha quasi paura e se ne tiene lontana con piccole risate e un chiacchierio sommesso nelle orecchie.

Sono attirati anche loro dal campo e vorrebbero stendersi ma non lo fanno.

Sono incuriositi dal ragazzo e anche da quel vecchio e dal suo dipinto, fissano tutto divertiti parlando ad alta voce.

Solo quella lucertola ricompare all’improvviso su un sasso, chiude gli occhi e si gode il sole.

Come sarebbe bella la mia vita se almeno per una volta riuscissi a ricordarmi di noi capaci ancora di smettere di imparare quelle strane regole e vivere solo di un bacio luminoso e di un canto libero.

Non esiste la noia durante una corsa che si libera del tempo ed apre le braccia ad un presente nuovo di zecca.

Com’è bella questa terra, però mi chiedo cosa ci stia succedendo.

Forse niente di nuovo, mi stendo al sole anche se sto fumando un’altra sigaretta.

 
 
 

Carni e Acciaio di Dario de Giacomo

Post n°6 pubblicato il 15 Marzo 2010 da gandalf350
 
Foto di gandalf350

 

 
 
 

Sboccia come un faro

Post n°5 pubblicato il 14 Marzo 2010 da gandalf350
 
Foto di gandalf350

 

 

Sboccia come un faro - Testo di Miriam Carnimeo

Progetto multimediale di Dario de Giacomo

 
 
 

Fuga di ombre

Post n°4 pubblicato il 05 Marzo 2010 da gandalf350
Foto di gandalf350

 

το λγου δ'ἐόντος ξυνο  ζουσιν ο πολλο ς δαν χοντες φρνησιν   (Eraclito)

 

 

La cecità! Sarebbe un sollievo per me ora?

Appena sveglio ho accostato di nuovo l'orecchio alla finestra, per sentire le voci del mare.

La stanza dove abito è tutto un pullulare buio di ombre, che sfilaccia la solidità delle pareti.

È una strana giornata di ardori spenti.

Se ripenso all'inizio, a come tutto è proseguito dopo, penso che sarebbe inutile accecare di bianco le mie pupille.

Intorno a me un sentore di vita salmastra gocciola sui muri.

La prima notte dopo la partenza di Carmen fu una notte di preveggenza. Ma io ignorai i segnali di quella sera d'agosto, scavai ostinatamente tra il ciarpame accumulato nei quindici anni della nostra convivenza: cercavo solo una traccia che mi guidasse fino al centro delle sue ragioni.

Sbarrate le imposte di legno per tenere fuori i rumori della strada, nel silenzio mi sembrava di soffrire meno.

Forse per un istante riuscii anche ad assopirmi.

Il cuore mi rimbombava dentro sempre più veloce, inseguendo le orbite di pensieri maligni.

Ce n'era uno con la punta velenosa.

Nel dormiveglia lo vedevo chiaramente davanti agli occhi, talmente acuminato che avrebbe attraversato la pelle bianchissima e delicata di Carmen, spaccandola.

La parete di fronte sbiancava.

Se solo fosse possibile - ripetevo con l'ingenua insensatezza di chi non crede al pericolo, eppure lo tiene in mano.

Mi afflosciai fino all'incoscienza.

Sul muro si disegnò la figura di Carmen. Le mie pupille dilatate vedevano le immagini di noi due, insieme in quella stanza.

Lei era lontana e sorridente, rideva di un riso nuovo che non le avevo mai conosciuto quando stava con me.

E accadde.

Il muro si sfibrò perdendo consistenza, come se il collante che teneva insieme tutti gli elementi della parete si smagliasse senza cedere.

Sulla parete c'era una parola, simboli che non riuscivo a leggere.

Le lettere urlavano direttamente nel mio cervello.

Occhiali: una parola sola, incoerente perfino per un'allucinazione.

Allora affondai le gambe nella melma di una corsa attraverso le stanze e la parola mi teneva dietro.

Quasi sfondai la porta della camera di mia sorella: era calda e sicura.

Occhiali - Occhiali - ripeteva la voce.

Mia sorella era di spalle, con la Cavalcata delle Valchirie che ingurgitava l'aria a tutto volume.

Quando la afferrai si girò e mi sorrise, calmando l'ansia irragionevole che mi segregava tra le pareti e la voce.

Occhiali! - I suoi occhi erano liquidi e incolore, densi di una melma incosciente senza  pupille.

Anche lei sorrideva.

Stavo per vomitare, superai la porta per rientrare nella mia stanza.

La macchia era già là, solo un po' più in basso di dov'era prima, ora anneriva il comodino. Appoggiati sul bordo di marmo c'erano degli occhiali rotondi, azzurrati, con una solida montatura di osso marrone.

Me li sistemai sul naso e la mia angoscia si calmò, come l'esaudimento di una preghiera.  

La macchia svanì in un chiaroscuro indistinto.

Notai subito che dai cristalli emanava una pallida luminescenza calda e colorata.

Mi piacque quella sensazione di calore che partiva dai vetri per diffondersi prima sul viso e poi dentro, dentro la mia testa.

Un punto scuro al centro delle lenti mi consentiva di fissare con chiarezza il pensiero sulle immagini.

Lentamente cominciai a capire la strana virtù degli occhiali, che riversava i colori solo all'interno. Fuori, invece, il vetro proiettava solo un bianco-nero senza sfumature, però si poteva concentrare lo sguardo.

Mi sentii al centro della stanza, del mondo e di me stesso, quando fissai lo sguardo in quel punto scuro.

Carmen ormai era solo una  silhouette  insignificante, piatta come tutto il resto che mi circondava.

Stentavo addirittura a credere di aver diviso il mio letto con quella cosina scialba.

Bastava concentrare un solo pensiero per annerire la sua immagine, annullarla definitivamente per sempre.

Il potere delle lenti verso l'esterno era davvero tremendo.

Tanto potente fuori, quanto sicuro e tranquillizzante all'interno.

Davanti a quegli occhiali perfino dio era solo un giocattolo dipinto sui muri senza prospettiva.

Blu intenso, indaco, verde bottiglia. Io, solo Io immerso in un mare di gradazioni diverse. Tu - urlai - sei solo una sfumatura priva di spessore. Posso cancellarti con uno sguardo -.

Ma anche in un mondo monotono arriva la notte, progredendo flebilmente dal nero a un nero più scuro.

Il muro di fronte si annerì, tutto si macchiò di nero, dissolvendosi sotto il mio sguardo concentrato.

La stanza si era amalgamata col buio fino a sparire, sentivo solo gli odori e i rumori del mare.

Fu allora che cominciai quasi a dubitare delle mie infinite tonalità.

Dove avrei potuto specchiarmi? Dove far esplodere i miei colori?

Una distesa monocroma ingoiava le sfumature e i riflessi.

Sì, i riflessi! Era quella la soluzione, pensai. C'era uno specchio nella mia stanza e prima che la luce si affievolisse dovevo specchiarmi.

E accadde.

Il lampo dei miei colori divampò nel buio. Erano così intensi da accecarmi, provocandomi uno svenimento. Caddi riverso sul letto.

Furono i rumori della strada a riportarmi bruscamente indietro alla coscienza.

Ebbi paura che gli occhiali si fossero spaccati nella caduta, ma erano intatti, ancora integri in quella sfavillante luce argentata di notte alta.

Vidi il blu della notte striato dal chiarore lattiginoso di luna.

Carmen però non c'era, se n'era andata davvero.

Provai l'impulso fortissimo  di urlarle contro il mio risentimento.

In questa vertigine io ero qui da solo, e lei in giro con la sua massa di capelli biondi e profumati, la sua carne sfiorata da tanti sguardi diversi.

Di nuovo quel senso di vomito.

La gelosia mi raggelava, specchiandomi ora in bianco e nero dentro un mondo di colori.

Da allora è così: sono una figura monocroma, circondata da infiniti toni di vita colorata.

Ed ora anche se mi accecassi, il bianco negli occhi non cancellerebbe le immagini che ho visto.

Occhiali - Occhiali - ecco che sento di nuovo quella voce.

Dentro di me le ombre stanno crescendo, c'è solo il rumore del mare a farmi compagnia.

Gli occhiali sono solo una speranza di vedere.

 

Senza colori, senza occhiali, senza speranza...

 

                       B u i o.

 

 

http://www.myspace.com/dariodegiacomo

 

 
 
 

Come un filo di miele stretto in un pugno (Miriam Carnimeo)

Post n°3 pubblicato il 05 Marzo 2010 da gandalf350
 
Foto di gandalf350

bersinski1984 

Mi preparai con la massima cura. Cercavo spasmodicamente un vestito bianco, da indossare in quell’occasione.

Lo trovai nell’armadio di mia madre. Strappati via i nastri che appesantivano la sagoma, tagliai via l’ultimo lembo che copriva le ginocchia, poi piegai con garbo le maniche sin quasi ai gomiti.

Di fronte allo specchio infilai me stessa in un immagine diversa che nei suoi riflessi raccontava di un desiderio alimentato e nutrito come un avido figlio, un figlio che ai primi morsi della fame urla nello stomaco il suo bisogno d’abbandono.

Ancora pochi minuti. Sul cornicione di una finestra guardavo i bimbi giocare con l’acqua, i piedi scalzi, le risate che echeggiavano nel vuoto. L’acqua schizzava ovunque, frammentandosi nella polvere sollevata dai pesi dei loro piccoli corpi: per loro nessun timido nascondiglio. Hanno fianchi senza la speranza di uno sguardo che li blocchi, cuori puri mescolati all’inganno di una miseria che conserva il suo più antico sorriso senza la paura di farne parte, ma conosce abiti e costumi, li indossa e li intona: eppure la vedrai sempre ritornare alla sua nudità. Che bella vita! Anche ad occhi aperti si riesce a sfiorare il gusto semplice del proprio correre in disparte, toccandosi, percorrendo campi, seguendo i propri passi in un sorriso costante. Per questo non mi sono mai piaciuti i grandi, con le loro mani a frugarmi tra i capelli, cogliendo i sintomi del mio corpo che cresceva in un tempo mai stato mio. Legati i capelli, mettiti le scarpe, non scendere le scale saltandole a gruppi, questo non lo dire, chiudi le gambe quando ti siedi, non spiare gli uomini dietro le finestre. Invece io li guardavo, alitavo sui vetri scrivendo il mio nome sui loro corpi felici, aldilà delle trasparenze, oltre qualsiasi superficie.

Gli uomini seminavano, le donne raccoglievano, e il sole e la pioggia col tempo li mangiavano. Guardavo la porta sempre chiusa, spesso bussavo da sola al mio limite da oltrepassare. Amavo allora come adesso, con il cuore di una bambina, senza conoscere la vergogna della mia nudità, nè il peccato di un abbraccio stretto, dove naturalmente si percepisce il contorno e il trasporto. Desideravo conoscere l’uomo, senza interesse per i sogni, né le proiezioni di domani. Amato presente, io ero viva!

Guardavo il vento passare e gioire nella peluria che si ergeva vitale. Io sentivo! Ma poi un uomo, che cosa ne avrebbe mai fatto di me? Dopotutto dovevo solo stringere i pugni per rimanere in equilibrio, mettere i capelli dietro le orecchie e guardare con chiarezza la strada aperta e la sua immagine che mi aspettava ansiosa. Quella porta fu aperta. Molti fuori dalle loro case mangiavano e parlavano con la bocca piena, io respiravo nell’aria ogni senso d’unione, il pensiero come un serpente lungo 148 passi.

Lui fu con me, ma era un idiota, si stringeva i genitali per avere fiducia; io mangiavo ancora un gelato quando il corpo mi venne spezzato, ma finalmente me ne liberavo mentre lui lo mordeva dolorosamente. La mia testa piegata all’indietro guardava solo il mare. Lui sembrava dirmi, guarda me e non farà male, smetti di pensare al cielo che muore, pensa al sole, come un albero pensa al sole e le nuvole da lontano chiuderanno il cerchio. Osservai me stessa e mi accorsi di avere le mani fredde e le labbra sporche.

Ogni cosa, ogni ombra, ogni suono mi dimostrarono di essere un desiderio scemato, un vero dolore senza una forma. Io pensavo a come un solo uomo avesse così tanti bisogni: -Vorrei che fossi diversa da come ti desidero, Vorrei che facessi finta di dormire,Vorrei che fossi brutta perché sei tanto bella da sembrare finta, Fammi sentire quanto ti piace,Ti voglio e non so perché-.

Allora curiosavo tra quei pensieri, riconoscevo l’illusione camuffata che corteggiava lacrime chiuse e odori amari. Come giocata dalla fantasia mi sentivo l’unica ad essere rimasta sveglia invece che riposare. Scivolai via da lui e mi rimisi in piedi, lui continuò, continuò da solo! Tornai a casa e riaprii quella porta, mia madre pesante mi chiese: -Com’è andata? -Bene, lui mi ha morso, ma perché era felice! -Ti è rimasta attaccata alla pelle l’odore del posto da cui sei venuta - mi disse mia madre - spesso succede e succederà ancora. Saranno in molti a riconoscersi in quell’odore e a riconoscerti solo per quello. Dovevi fingere di non amarlo per lasciarlo sognare. Adesso, io chiudo le gambe quando mi siedo, scendo le scale lentamente una ad una, lascio il cuore da solo con le sue idee, e riconosco un uomo quando lo vedo, con i tacchi ci spacco le noci e gioco con i bambini dentro l’acqua. Però Amare mio se tu fossi un uomo, continueresti a chiedermi un giorno e nient’altro.. Ma quanta paura abbiamo di essere felici, è meglio sognarlo quest’amore ma solo per la paura di viverlo. Prevedibile, retorica finzione, nel credere di vivere, sognando di entrare in anime avare e nell’ancora sbagliare. -Tieni, prendi il mio corpo, grande come il sogno di un uomo.- Click.

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