ASCOLTA TUA MADRE

LE LACRIME DI UNA MADRE NON ASCOLTATA

 

FERMIAMO LA LEGGE CONTRO L'OMOFOBIA

 

TELEFONO VERDE "SOS VITA" 800813000

CHE COSA E' IL TELEFONO "SOS VITA"?
 
È un telefono “salva-vite”, che aspetta soltanto la tua chiamata. E' un telefono verde, come la speranza la telefonata non ti costa nulla,
Vuole salvare le mamme in difficoltà e, con loro, salvare la vita dei figli che ancora esse portano in grembo.
E quasi sempre ci riesce, perché con lui lavorano 250 Centri di aiuto alla vita.
 
Il Movimento per la vita lo ha pensato per te
 
Puoi parlare con questo telefono da qualsiasi luogo d’Italia: componi sempre lo stesso numero: 800813000.
 
Risponde un piccolo gruppo di persone di provata maturità e capacità, fortemente motivate e dotate di una consolidata esperienza di lavoro nei Centri di aiuto alla vita (Cav) e di una approfondita conoscenza delle strutture di sostegno a livello nazionale. La risposta, infatti, non è soltanto telefonica.
 
Questo telefono non ti dà soltanto ascolto, incoraggiamento, amicizia, ma attiva immediatamente un concreto sostegno di pronto intervento attraverso una rete di 250 Centri di aiuto alla vita e di oltre 260 Movimenti per la vita sparsi in tutta Italia.

 
DUE MINUTI PER LA VITA

Due minuti al giorno è il tempo che invitiamo ad offrire per aderire alla grande iniziativa di
preghiera per la vita nascente che si sta diffondendo in Italia dal 7 ottobre 2005 in
occasione della festa e sotto la protezione della Beata Vergine Maria, Regina del Santo Rosario.
Nella preghiera vengono ricordati ed affidati a Dio:
 i milioni di bambini uccisi nel mondo con l’aborto,
 le donne che hanno abortito e quelle che sono ancora in tempo per cambiare idea,
 i padri che hanno favorito o subito un aborto volontario o che attualmente si trovano accanto ad
una donna che sta pensando di abortire,
 i medici che praticano aborti ed il personale sanitario coinvolto, i farmacisti che vendono i
prodotti abortivi e tutti coloro che provocano la diffusione nella società della mentalità abortista,
 tutte le persone che, a qualsiasi livello, si spendono per la difesa della vita fin dal concepimento.
Le preghiere da recitarsi, secondo queste intenzioni, sono:
 Salve Regina,
 Preghiera finale della Lettera Enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II
 Angelo di Dio,
 Eterno riposo.
Il progetto è quello di trovare 150.000 persone, che ogni giorno recitino le preghiere. Il numero corrisponde a quello - leggermente approssimato per eccesso – degli aborti accertati che vengono compiuti ogni giorno nel mondo, senza poter conteggiare quelli clandestini e quelli avvenuti tramite pillola del giorno dopo. Per raggiungere tale obiettivo occorre l’aiuto generoso di tutti coloro che hanno a cuore la difesa della vita.

“Con iniziative straordinarie e nella preghiera abituale,
da ogni comunità cristiana, da ogni gruppo o associazione,
da ogni famiglia e dal cuore di ogni credente,
si elevi una supplica appassionata a Dio,
Creatore e amante della vita.”
(Giovanni Paolo II, Evangelium Vitae, n. 100)

Ulteriori informazioni su: www.dueminutiperlavita.info
 

PREGHIERA A MARIA PER LA VITA GIOVANNI PAOLO II

O Maria, aurora del mondo nuovo, Madre dei viventi,
affidiamo a Te la causa della vita:
guarda, o Madre, al numero sconfinato di bimbi cui viene impedito di nascere,
di poveri cui è reso difficile vivere, di uomini e donne vittime di disumana violenza, di anziani e malati uccisi dall'indifferenza o da una presunta pietà.
Fà che quanti credono nel tuo Figlio sappiano annunciare con franchezza e amore agli uomini del nostro tempo il Vangelo della vita.
Ottieni loro la grazia di accoglierlo come dono sempre nuovo,
la gioia di celebrarlo con gratitudine in tutta la loro esistenza
e il coraggio di testimoniarlo con tenacia operosa, per costruire,
insieme con tutti gli uomini di buona volontà, la civiltà della verità e dell'amore
a lode e gloria di Dio creatore e amante della vita.
Giovanni Paolo II


 

AREA PERSONALE

 

Messaggi del 16/07/2015

UTERO IN AFFITTO E DANNO DA SEPARAZIONE PER IL BAMBINO

Post n°9417 pubblicato il 16 Luglio 2015 da diglilaverita
Foto di diglilaverita

Un parere di Anna Schaub, psicoterapeuta specializzata nell’analisi e nel trattamento delle memorie prenatali e psico-genealogiche, dei traumi della nascita e della prima infanzia.

Il dibattito sulla maternità surrogata (GPA) deve tornare a concentrarsi sul primo interessato: il bambino. Separarlo da colei che l’ha portato in grembo nove mesi e alla quale si è attaccato è una frattura traumatica dalle conseguenze bio-psico-sociali nefaste, per tutta la vita.
Da più di 50 anni, le ricerche in scienze umane hanno migliorato considerevolmente la nostra comprensione dello sviluppo e dello psichismo così sottile e delicato del bambino. Così, nel caso della maternità surrogata (GPA), vi è modo di gettare uno sguardo profondo sulla nozione di attaccamento, così come sui fondamenti della creazione del legame fra il bambino e la madre naturale. Ciò al fine di valutare gli eventuali effetti deleteri della separazione dei bambini dalla madre naturale. Da qui comprendiamo meglio che le domande sulla GPA devono essere centrate sul primo interessato: il bambino.
I dibattiti pubblici sulla pratica della GPA lasciano il più delle volte passare sotto silenzio l’esistenza del legame fondamentale che si stringe fra il bambino, la madre biologica e il padre biologico fin dal concepimento e lungo i nove mesi della gestazione. Ora, questo periodo è cruciale per la fondazione relazionale e la futura costruzione psichica e cognitiva del bambino, e per tutta la vita. L’esistenza del bambino quale “essere relazionale” inizia dal concepimento!
Le neuroscienze c’insegnano che l’amigdala, una piccola ghiandola a forma di mandorla situata nel cervello “affettivo” costituisce una sorta di “mappa della memoria emozionale” che registra gli impatti e gli ambienti affettivi sperimentati durante la gravidanza, e parimenti nelle circostanze perinatali. “L’amigdala non dimentica!” (Dr Guenguen).
Nella GPA, la cellula famigliare si trova “disarticolata” alla base della propria fondazione. In effetti, osserviamo una serie di fratture dell’unità relazionale bio-psico-sociale uscita dalla relazione carnale feconda: quando si tratta di donatori esterni, l’apporto di materiale genetico estraneo –esso stesso carico di storia; embrioni “fabbricati” in provetta; la perdita e/o surgelamento dei “fratelli e sorelle” del futuro bambino, la gravidanza nel grembo di una donna estranea al bambino; la separazione/abbandono deliberata del bambino dalla madre naturale per trasferirlo ai genitori elettivi. Tutte queste fratture rendono inevitabilmente fragile il bambino nella costruzione della propria identità.
Se un adulto, qui una donna, può decidere di non attaccarsi al bambino che porta in sé per qualcun altro, un embrione, un feto, un bambino non hanno questa facoltà: per lui, il processo di attaccamento che inizia fin dalla gravidanza è un processo biopsichico naturale che ha l’obiettivo di cercare prossimità, protezione e sicurezza presso l’adulto che lo “porta”.
Da quel momento, separare il bambino da colei che l’ha portato in grembo nove mesi e alla quale si è attaccato è per il bambino una rottura traumatica, un trauma maggiore nella sua vita nascente. Ugualmente, le condizioni “frammentarie” nelle quali è concepito lasciano una traccia indelebile e rilevante nello psichismo e nella storia psicosociale del bambino.
Gli viene quindi inflitto un danno esistenziale di separazione. Senza parlare della privazione essenziale della madre o del padre nel caso di una coppia di uomini o di donne.
Nel quadro delle sofferenze infantili incontrate nel corso della mia esperienza professionale, ho potuto costatare che dietro a tutte le separazioni, vissute soggettivamente in utero a partire da circostanze che fanno pensare al bambino di non essere il benvenuto (conflitti di coppia, lutti, mamma ansiosa dopo un aborto spontaneo che evita di attaccarsi al bambino nel timore di perderlo, stress di ogni genere o solitudine della madre che porta il bambino senza il sostegno del padre, ecc.) si pone come tela di fondo l’angoscia più arcaica inerente la nostra umanità: l’angoscia di abbandono. Il bambino piccolo vive un’angoscia d’abbandono maggiore quando ha l’impressione soggettiva di perdere la madre o quando la perde realmente (oggettivamente).
L’apparato psichico e intellettivo del bambino non è ancora dotato di ciò che in psicologia chiamiamo “permanenza del sé e dell’oggetto”. Così, l’allontanamento della madre naturale dalla quale si è lasciato impregnare per nove mesi, crea nel neonato uno stress simile a un’angoscia di morte. Il neonato non ha infatti ancora la maturità cognitiva sufficiente per spiegare in modo cosciente e razionale una situazione di allontanamento della “madre” che conosce da tanti mesi. In altre parole: “Mamma è me e io è mamma. Se non vedo più, non odo più, non sento più mamma vicino a me, perdo il senso della mia esistenza, vado in disperazione e rischio di morire!”. La GPA investe in pieno la realtà del nascente legame reciproco “madre-bambino”, “bambino-famiglia”. La frammentazione delle prime condizioni di esistenza dei bambini nati con GPA comporta per questi conseguenza bio-psico-sociali nefaste e questo per tutta la vita. Di pìù, l’impatto di tali condizioni di concepimento potrebbe toccare le generazioni successive e la società in generale.
Mi faccio qui portavoce di quei bambini che non hanno alcuna voce per gridare questa grave pregiudizio inflitto in modo deliberato all’origine della loro vita.
In conclusione, se distogliamo lo sguardo dall’interesse dei bambini –i primi coinvolti dalla GPA- a favore dell’interesse e del desiderio –lodevole, rispettabile e da accompagnare- degli adulti, scivoliamo verso una società che si rende complice di fantasie umane che daranno vita in modo programmato a disturbi e patologie del legame, generatori di violenze psico-sociali.
Allora, in nome del principio di precauzione, dobbiamo mettere un freno allo sviluppo delle tecnologie che incoraggiano la GPA e vietarla per via giuridica. Si tratta di difendere gli elementi più vulnerabili della società! E chi è più vulnerabile dell’embrione, consegnato dalla natura al buon senso degli adulti? Questi più piccoli sono i nostri adulti di domani, chissà, i nostri futuri dirigenti!
Chi sarà stato trattato con rispetto, intelligenza e sensibilità ha forti speranze di poter trattare gli altri e il proprio ambiente con lo stesso cuore, con la stessa arte della conoscenza umana e del mondo.

Fonte:  http://www.lalibre

 
 
 

SUMI, MANISHA ..LE STORIE DELLE MADRI CONTO TERZI​

Post n°9416 pubblicato il 16 Luglio 2015 da diglilaverita
Foto di diglilaverita

Cathy e Dennis vivono nel New Jersey. Lei ha 42 anni, lui è vicino ai cinquanta e ha un figlio, già grande, da un matrimonio precedente, ma non riescono ad averne insieme. Lei lo desidera tantissimo.

Decidono per l’utero in affitto dopo una trasmissione di Oprah Winfrey, che ne parlava. Nasceranno due gemelli, maschi, a Hyderabad in India, con il liquido seminale di Dennis e ovociti da donatrice. Rajappa e Sharada vivono a Andhra, in India, sono sposati da più di venti anni e non hanno figli. A Rajappa hanno consigliato di lasciare sua moglie per una più giovane e fertile, ma lui non vuole: cercano una madre surrogata e troveranno Manju, che partorirà a Bangalore due gemelli, maschio e femmina, concepiti con i gameti della coppia.

Manisha vive a Kathmandu, in Nepal, con un marito senza lavoro e due bambini piccoli. Si è fatta sterilizzare. Sua sorella Bina le svela di aver risolto i suoi problemi economici vendendo prima i suoi ovociti, e diventando poi madre surrogata: la convince ad andare con lei a Mumbai, in India, per fare lo stesso. Manisha non capisce la lingua, contratterà la vendita dei suoi ovociti tramite Bina, che però si spinge troppo oltre.

Stimolazioni pesanti e ravvicinate - 25 ovociti, nell’ultima - le provocano la sindrome da iperstimolazione ovarica: Manisha sta malissimo. Bina, per pagare le cure, sarà di nuovo madre surrogata, stavolta per due gay spagnoli. Il bambino nella sua pancia è concepito con il seme di uno dei due e con gli ovociti di sua sorella Manisha.

Sumi è alla sua seconda gravidanza surrogata, a Anand, in India. Ha avuto già due gemelli da una coppia di giapponesi e adesso ne aspetta di nuovo da Dora e Ben, australiani. Nasceranno un maschio e una femmina, che Sumi allatterà - ben pagata - per tre mesi.

Dall’Australia i contatti continueranno. La sua amica Disha, invece, è stata ingaggiata da una coppia coreana: aveva tre embrioni in pancia, ma uno lo ha eliminato il medico. I coreani sperano di avere maschi, ma rimarranno delusi, e per le due neonate Disha non riceverà nessun extra in denaro. Ram e Meena, sposati da dieci anni, vivono a Chennai in India. Meena si sente colpevole per essere sterile, anche per l’invadenza dei suoceri che glielo fanno pesare. Scelgono la via dell’utero in affitto e trovano una ragazza, Alice, in forti difficoltà economiche perché è rimasta vedova a vent’anni, quando era incinta di sette mesi. Ha donato ad altri i propri ovociti, darà alla coppia due gemelle e seguirà la famiglia a Londra, per allattare le piccole e per aiutare Meena, senza dire a nessuno che è stata lei a partorirle. La ricompensa economica sarà generosa.

Sono le storie raccontate da Gita Aravamudan nel suo 'Baby Makers. A Story of Indian Surrogacy' (Produttori di bambini. Una storia di surrogazione indiana, Harper Collins Publishers, India, 2014).

L'autrice è firma di quotidiani e periodici, da 'Hindustan Times' a 'The Times of India', oltre che di saggi come quello sulle bambine mai nate 'Disappearing Daughters: the tragedy of female foeticide' (Figlie scomparse: la tragedia del feticidio femminile). Questo suo ultimo libro è un’originale inchiesta sull’utero in affitto che intreccia episodi ricostruiti realisticamente e fatti documentati, insieme a importanti contenziosi giuridici. Ne risulta un grande e inquietante affresco della maternità surrogata, di cui l’India rappresenta oramai uno snodo mondiale: un enorme mercato con profitti da capogiro: 445 milioni di
dollari all’anno, secondo una stima del 2010. Le protagoniste emergono con tutti i loro sentimenti, dall’orgoglio di portare a casa i soldi per far studiare i figli, alla rassegnazione per la propria condizione, specie per l’abbandono dei piccoli appena nati. «Disha non voleva piangere, ma sentiva le lacrime scendere lungo le guance.

Aveva sempre saputo, fin dall’inizio, che i bambini non erano i suoi. Lei non era legata a loro in alcun modo. Eppure... li aveva portati per così tanti mesi. Aveva sofferto le nausee al mattino, il dolore, la fatica. Era stata così attenta a tenerli protetti. Che diritto avevano queste persone di essere infelici perché i nati erano femmine? Avrebbe voluto inseguirli e portarsele via con sé».

«Nessuno sa cosa passiamo. Quell’inutile marito che parla solo di soldi, soldi, soldi. E quei genitori che comprano i nostri servizi? Non sanno neanche la metà di quel che ci capita. Non hanno mai dovuto sopportare tutta quella roba terribile. Le nausee, il dolore, le doglie. Non sanno come ci si sente con quei piccoli piedi calciare dentro lo stomaco. Io canticchiavo loro le ninnenanne. Ma lo sanno, o gliene importa qualcosa? Queste persone che vengono e ci ingaggiano non vogliono mai guardarci in faccia o sapere i nostri nomi. Per loro siamo solo uteri». Dall’altra parte, c’è l’ostinazione di avere figli a ogni costo nonostante i ripetuti fallimenti della fecondazione in vitro, che però si trasforma in terrore quando stanno per nascere davvero: «Con chi si dovrebbe legare? Con due feti invisibili, nell’utero di un’aliena? Feti con cui lei non ha alcun legame biologico, né emotivo?».

E’ completo il controllo dei medici sulle madri surrogate, e forte la volontà di convincerle, e di convincersi tutti che «sarebbe stata solamente una transazione commerciale pulita, senza coinvolgere nessuna emozione».

Sullo sfondo i casi famosi: la prima surrogata americana, che a otto anni dal parto si pente e racconta ai media una storia tutta diversa da quella sbandierata durante la gravidanza. E poi Baby M. e il bambino giapponese che il divorzio dei committenti ha reso apolide e che, dopo un lunghissimo contenzioso internazionale, è affidato in Giappone alla nonna paterna. E, ancora, i gay americani Mike e Mike, che nel loro blog raccontano la storia delle due bambine avute a Mumbai: hanno usato lo sperma di entrambi e gli ovociti di una sola donatrice, perché le piccole fossero legate geneticamente fra loro. Gli embrioni sono stati impiantati in due differenti madri surrogate, rimaste incinte contemporaneamente. Rose, figlia di un Mike, è nata il 24 marzo, ed Eva, figlia dell’altro Mike, il 12 aprile successivo. Una clinica, due bambine, tre madri e due padri: costo totale 60mila dollari. Negli Usa avrebbero pagato il doppio, più o meno. In India non c’è ancora una legge che regola la surroga materna, ma linee guida stabiliscono che il nato deve essere legato geneticamente almeno a uno dei due genitori committenti, «perché il legame di amore e affetto con un bambino viene innanzitutto da una relazione biologica».

E in mezzo a tutte le storie raccontate da Gita Aravamudan emergono i problemi per passaporti e cittadinanza: nato in India, da surroga nepalese, con genitori committenti europei, americani o australiani: chi deve dare il visto? E soprattutto: chi è la madre? La committente, ma anche chi ha partorito. E chi ha dato i propri ovociti non può essere considerata una totale estranea.

Cathy, Sharada e Meena piangono di felicità nel vedere i neonati, mentre Disha e Sumi soffrono la mancanza dei piccoli appena partoriti, e Bina accarezza la sua pancia, perché sa che il bambino che porta è geneticamente di sua sorella, e lo sente più suo. Un simile campionario di casi non può essere privo di conseguenze: tanto da spingere Aravamudan a sostenere che «il concetto di maternità va ridefinito» e, coerentemente, a dire nella conclusione che «in questo mondo che cambia, dove le nazionalità e le religioni, le classi e i generi si uniscono mischiandosi per produrre bambini, lo sperma, gli ovociti e l’utero hanno acquistato un significato diverso».

Ne scaturisce dunque una posizione problematica ma senza pervenire a un giudizio, ponendo semmai domande, prendendo atto dei cambiamenti radicali e delle implicazioni anche gravi ma senza opporvisi, quasi che l’autrice di questo importante contributo alla comprensione di un fenomeno drammatico fosse convinta della loro ineluttabilità. Non parliamo di scenari futuribili ma di un presente ben consolidato, che sta accadendo adesso ma che ancora non è pienamente compreso in tutta la sua inquietante portata.

Assuntina Morresi - avvenire.it -

 
 
 

UTERI AFFITTATI, RITORNO ALLA SCHIAVITU’

Post n°9415 pubblicato il 16 Luglio 2015 da diglilaverita
Foto di diglilaverita

Quando ho saputo la prima volta di essere incinta ero davvero una squinternata. Ancora più di adesso, dico subito per chi mi conosce bene, e se lo sta chiedendo. Ero ancora più squinternata, e di parecchio. Eppure sapere di avere una vita dentro di me ha cominciato immediatamente – non si vedeva ancora niente, niente era cambiato, apparentemente, ma io sapevo – un cammino di guarigione, un miracolo di allegria, consapevolezza, paura, responsabilità, terrore, coraggio, un cambiamento che io non controllavo in nessun modo, e che mi ha stupita per la sua irruenza. Uno sconvolgimento radicale di ogni cellula, e insieme la certezza inattesa di essere nel mezzo dell’avventura per la quale ero programmata da sempre.

Io, addirittura io, perfino io sono capace di fare questa cosa incredibile? – mi chiedevo incredula. E la responsabilità di cui mi sono sentita investita mi ha in un secondo fatto venire il desiderio di fare tutto il meglio per il mio corpo cioè per il mio bambino o bambina, di mangiare decentemente, di dormire abbastanza – fino ad allora dormire più di quattro ore a notte era contrario ai miei principi morali, una spregevole perdita di tempo – e tutto fatto con slancio ed entusiasmo, tranne rinunciare agli affettati, quello sì che era un sacrificio supremo (ogni volta che ho partorito, arrivata alla fine del travaglio ho supplicato mio marito di andarsene a comprarmi un panino al salame, col doppio risultato di non avere uomini in sala parto e di approntare il dovuto risarcimento della fatica che stavo per fare).

Eppure non ero, non credevo di essere votata alla maternità, non avevo mai creduto nella mistica del sacrificio femminile, tra l’altro ero un’atleta e non ho mai smesso di correre, magari un po’ più lenta, fino al giorno del parto. Non avevo aspettato quel momento sin da quando ero bambina, non avevo amato particolarmente le bambole, piuttosto a volte avevo cullato i fagiani o le beccacce morti portati a casa da mio padre, cacciatore, sperando di farli rinvenire, adoravo lo sport e i libri, non sapevo rompere un uovo senza farmelo colare tra le mani e l’unica cosa bella che la gravidanza mi sembrava prospettarmi era la possibilità di passare a una taglia di reggiseno degna di nota (cioè, diciamo la verità, di passare al reggiseno tout court). Questo per dire che non c’è bisogno di essere supermaterne, o molto femminili, o avere una particolare inclinazione all’accudimento di pargoli per sapere che avere un figlio tra le proprie viscere è una cosa che coinvolge e sconvolge ogni singola fibra del corpo di una donna.

Ora, mi chiedo, come possiamo fingere di dimenticare che pagare una donna perché porti una vita dentro di sé per nove mesi, farla partorire, e poi portarle via quel bambino, è una violenza inenarrabile, forse la peggiore che si possa infliggere a una donna? Come possono le istituzioni mondiali sedicenti paladine dei diritti umani non gridare allo scandalo davanti al ritorno alla schiavitù, alla compravendita di esseri umani, e addirittura ammonire l’Italia perché non permette questo commercio di vita? Come possiamo gridare contro lo sfruttamento della prostituzione e non contro l’utero in affitto, quando a essere venduta è solo un’altra parte dello stesso apparato del corpo? Come possiamo manifestare contro la violenza sulle donne, e non alzare un sopracciglio contro questa violenza suprema? Sono libere, ci dicono. Sono libere? Davvero qualcuno può pensare che ci sia una donna che faccia questa cosa liberamente, e non per necessità assoluta disperata di soldi? Come possiamo fingere di credere che una donna, anche se indiana, anche se del terzo quarto ultimo mondo, povera e lontanissima dalla nostra cultura, a cui si chieda di far crescere un bambino dentro di sé per poi lasciarlo andare via nel momento del parto, possa non soffrire in modo devastante, oserei dire letale, e possa accettare di farlo per la simpatia umana e la carità che prova verso due facoltosi sconosciuti? Che possa essere spinta da qualcos’altro che non sia il bisogno? Perché non ne trovano una in Occidente, benestante e realizzata? E le donne povere che si prestano dicono di farlo per garantire possibilità di riscatto ai figli che già hanno, solo questo pensiero permette loro di sopravvivere allo strappo di vedersi portare via un neonato appena partorito.

Possiamo dimenticarlo, certo, o pensarci solo distrattamente, perché i media ci raccontano queste storie dicendo solo la parte, per così dire, bella: vediamo i due genitori, che siano dello stesso sesso o meno, che tengono in braccio un piccolino e gli sorridono commossi. Cosa c’è di più bello di un grande che accoglie un bambino? – è la domanda che sembra suggerirci la copertina del settimanale patinato, il pezzo del tg, la paginata del quotidiano.

A parte la questione dei due genitori dello stesso sesso – ne abbiamo parlato, ne riparleremo – la bestialità è la stessa anche quando i committenti del prodotto bambino sono due genitori di  sesso diverso, che usano i soldi per soddisfare i loro desideri sfruttando il corpo di una donna nel bisogno. È solo una questione di soldi, ricordiamolo. A parte l’aumento della taglia di reggiseno per quelle piatte come me, non c’è niente che una farebbe gratis, in una gravidanza. Tutti i disagi, come minimo un po’ di mal di schiena, ritenzione idrica – che pizza – doloretti vari, difficoltà a dormire o a digerire, o proprio il minimo sindacale di un po’ di pelle rilassata, una donna li affronta con gioia non perché siano piacevoli in sé, ma solo perché sa che sta dando la vita al suo bambino, sa che sta cooperando a un miracolo, che sta cominciando a spendersi per quell’essere umano a cui sarà legata per l’eternità.

Con quel bambino, anche se l’ovulo e lo spermatozoo sono stati comprati da un catalogo in qualche parte lontana del mondo, la mamma, anche se non ha fornito il suo ovulo, mischia il sangue (qualche genio ha scritto che tra la mamma che presta l’utero e il bambino non c’è legame biologico!), le cellule, il nutrimento, il respiro, il battito del cuore per nove mesi. Il bambino si abitua a sentire quel cuore che batte, quella voce, quel respiro, e poi all’improvviso viene strappato via a quella mamma, per essere stretto e baciato e stropicciato da due perfetti estranei. Ci credo che il bambino che si è procurato Elton John ha pianto per due anni, e chissà gli altri di cui nessuno ci parlerà.

Deve essere stato lo stesso pianto accorato, disperato, inconsolabile dei bambini le cui mamme muoiono nel parto, come raccontano i medici. Però quei bambini un giorno sapranno che quella mamma che non li ha potuti stringere, consolare, abbracciare, attaccare al seno a ciucciare le prime gocce di colostro, non è una mamma che li ha venduti, ma al contrario è una mamma che è morta per loro, per farli nascere, e quindi il dolore, che sempre c’è, sarà pacificato, avrà una risposta. Un bambino che sa di essere stato amato fino all’ultima goccia di sangue dalla mamma potrà affrontare la sua assenza con la forza che viene dalla certezza di essere stati amati. Un bambino che sa di essere stato venduto come potrà fidarsi dell’amore, della gratuità, come potrà ascoltare quello che dice la sua carne, quella carne che ha cellule di una mamma che l’ha venduto?

E il dolore della mamma? Nessuno ne parla perché nessuno ritiene le donne indiane degne di essere intervistate, forse, né ascoltate. Ma qui non è questione di fede o di cultura: può forse una madre dimenticare il frutto delle sue viscere?, dice la Bibbia per parlare dell’amore più certo e indubitabile, del legame più forte e violento che ognuno di noi conosce (anche le cattive madri, anche quelle che impazziscono hanno viscere che fremono per i loro bambini). Forse è il caso di dare il nome a questo dolore che permettiamo e incoraggiamo con leggi pseudocivili, con falsi miti di progresso, per cui uomini politici possono orgogliosamente annunciare che presto avranno un bambino col loro compagno, senza che nessuno si preoccupi di tutto il dolore che il soddisfacimento di questo desiderio seminerà, seppure a pagamento.

C’è poi tutta la questione degli ovuli e dei semi venduti (basta con la parola donatore, qui è di vendita che si parla), e anche qui ogni fibra dell’umano si ribella – e non c’è bisogno di essere cattolici per inorridire, basta essere umani. Bambini che non sanno da dove vengono, quale storia hanno alle spalle, a chi somigliano, e quale parte invece del loro corredo è tutta nuova, e solo loro. Neanche la psichiatria è pronta a fare i conti con uomini e donne senza passato. Io vedo solo dolore, o peggio, vuoto, buio, assenza, indefinitezza, che è qualcosa di peggio del dolore. Persone che passeranno tutta la loro vita a farsi domande destinate a rimanere senza risposta, persone sole, senza passato. Che è anche peggio del dolore. È avere a che fare con il nulla, l’indefinitezza, l’angoscia totale e irrimediabile. Leviamo gli scudi del buon senso, difendiamo quello che è umano, il diritto di sapere da dove si viene, perché ognuno possa almeno decidere dove andare.

di Costanza Miriano

 
 
 

FESTA E SUPPLICA ALLE ORE 12 ALLA BEATA VERGINE DEL MONTE CARMELO

Post n°9414 pubblicato il 16 Luglio 2015 da diglilaverita
Foto di diglilaverita

Breve resoconto.

L’ordine dei Padri Carmelitani, nato sul Monte Carmelo (in Palestina) , ha vissuto la sequela di Cristo ispirandosi alla Vergine Santissima ed ha dedicato ad essa la prima cappella meritando il titolo dell'Ordine dei "fratelli della Madonna del Monte Carmelo".
La nuvoletta vista sul Monte Carmelo "come mano d'uomo" che indicava al Profeta Elia la fine della siccità, è stata sempre vista come il segno di Maria che avrebbe donato al mondo la Grazia e le grazie, cioè Gesù.
Maria Madre e Regina, continua ad essere il modello di quella preghiera contemplativa che rapì Elia, dopo avere ascoltato quel "suono di un sottile silenzio", sull'Oreb. Maria è pure considerata la stella del mare che conduce a Gesù. Ma l'attenzione a Maria non è rimasta chiusa nei chiostri dei conventi Carmelitani. L'espandersi dell'Ordine nel mondo ha fatto in modo che moltissime persone consacrassero la loro vita a Maria.Questa consacrazione o affidamento, come oggi si dice, viene realizzato attraverso un segno, il Santo Abitino, che rappresenta il manto di Maria sotto la cui protezione i fedeli vogliono vivere. L'abito religioso d'altronde era diventato nei secoli non solo una manifestazione di uno stile di vita differente da quello del mondo, ma una identità, un riconoscimento della famiglia di appartenenza. La sua forgia riportava agli anni della nascita dell'Istituto. Gli addetti ai servizi in quei tempi portavano una specie di grembiule che scendeva davanti e dietro le spalle. Era comodo per non sporcare la veste sottostante e per portare frutta o materiale superiore alla capienza delle mani. Era chiamato scapolare, perché pendeva dalle scapole. Il colore spesso indicava a quale famiglia appartenesse il servo.
L’abito, quando i carmelitani vennero in Europa, divenne marrone (i primi tempi era a strisce). Così il suo scapolare. Anzi proprio questo acquistò il significato di appartenenza non solo ad un Ordine di Maria, ma a Maria stessa. La tradizione ce lo fa vedere donato dalla stessa Vergine Santissima, nel 1251, in un momento di particolare necessità come segno di protezione e predilezione per l'Ordine Carmelitano e per tutti coloro che l'avessero indossato. Questa protezione di Maria sarebbe stata un dono non solo per la vita presente, ma anche per quella futura. Così si attribuì al Papa Giovanni XXII° una promessa della stessa Santissima Vergine, che il Sabato successivo alla morte, sarebbe scesa in Purgatorio a liberare le anime rivestite di quel Santo Abito per portarle in paradiso (Privilegio Sabatino).
La Chiesa, ha riconosciuto e apprezzato questo segno attraverso la vita di tanti Santi e di molti Sommi Pontefici che l'hanno raccomodato e portato. In seguito, adattandosi al costume dei tempi, l' abito della Beata Vergine Maria, fu ridotto nelle dimensioni e divenne un "abitino" , formato da due piccoli pezzi della stessa stoffa dell'abito Carmelitano, uniti da fettucce che permettono di portarlo appoggiato sul petto e dietro le spalle. Più tardi il papa Pio X, per venire incontro alle esigenze moderne, concesse di sostituire quest'abitino con una medaglia recante da una parte l'immagine di Gesù e dall'altra quella della Madonna. Insieme alla Corona del Rosario, il Santo Scapolare ha acquistato nel mondo un forte segno mariano di protezione da parte di Maria, che ci porta a Gesù, e di impegno da parte nostra di lasciarci guidare da lei, cioè di volere, almeno nel desiderio, vivere come Maria e con Maria, "rivestiti" di Gesù.

TESTO DELLA SUPPLICA


Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.

O gloriosa Vergine Maria, madre e deco­ro del monte Carmelo che la tua bontà ha scelto come luogo di tua particolare benevolenza, in questo giorno solenne che ricorda la tua materna tenerezza per chi piamente indossa il santo Scapolare, innalziamo a te le più ardenti preghiere, e con confidenza di figli imploriamo il tuo patrocinio.
Vedi, o Vergine santissima, quanti peri­coli temporali e spirituali da ogni parte ci stringono: ti prenda pietà di noi. Il titolo col quale oggi ti celebriamo ri­chiama il luogo scelto da Dio per ricon­ciliarsi con il suo popolo quando questo, pentito, volle ritornare a lui. Dal Carme­lo infatti salì per mano del profetta Elia il sacrificio che dopo lunga siccità otten­ne la pioggia ristoratrice, segno della re­stituita benevolenza di Dio: la preannun­ciò con gioia il santo profeta quando eb­be visto levarsi dal mare una bianca nu­voletta che in breve ricoprì il cielo. In quella nuvoletta, o Vergine immacolata, i tuoi figli carmelitani hanno ravvisato te, sorta immacolata dal mare dell'uma­nità peccatrice e che nel Cristo ci hai da­to l'abbondanza di ogni bene. In questo giorno solenne sii per noi nuova sorgen­te di grazie e di benedizioni.

Salve, Regina...

Per dimostrarci ancor più il tuo affetto, o madre nostra amorosissima, tu riconosci come simbolo della nostra devo­zione filiale l'abitino che piamente por­tiamo in tuo onore e che tu consideri come tua veste e segno della tua benevolenza. Grazie, o Maria per il tuo Scapolare. Quante volte, però, ne abbiam fatto poco conto; quante volte abbiam portato indegnamente quell'abito che doveva es­sere per noi simbolo e richiamo alle tue virtù! Ma tu perdonaci, o madre nostra amabi­le e paziente! E fa' che il tuo santo Scapolare ci sia difesa contro i nemici del­l'anima, richiamandoci il pensiero di te, e del tuo amore, nel momento della ten­tazione e del pericolo. O madre nostra dolcissima, in questo giorno che ricorda la tua continua bon­tà verso di noi che viviamo la spirituali­tà del Carmelo, commossi e fidenti ti ripetiamo la preghiera che da secoli ti rivolge l'Ordine a te consacrato: Fiore del Carmelo, vite prodigiosa, splendore del cielo: Vergine Madre, mite e dolce, proteggi noi tuoi figli che ci proponiamo di salire con te il mistico monte della virtù, per giungere con te alla beatitudine eterna!

Salve, Regina...

E’ grande, o Maria, il tuo amore per i di­letti figli rivestiti del tuo Scapolare. Non contenta di aiutarli perché vivano in mo­do da evitare il fuoco eterno, ti prendi cura anche di abbreviare ad essi le pene del purgatorio, per affrettare l'ingresso in paradiso. Questa è una grazia, o Maria, che conduce una lunga serie di grazie, e vera­mente degna di una madre misericordio­sa, quale tu sei.
Ed ecco: come Regina del purgatorio tu puoi mitigare le pene di quelle anime, tenute ancora lontane dal godimento di Dio. Pietà ti prenda dunque, o Maria, di quelle anime benedette. In questo bel giorno si riveli loro la potenza della tua intercessione materna.
Noi ti supplichiamo, o Vergine pura, per le anime dei nostri cari e per tutte quel­le che in vita furono ascritte al suo Scapolare e si sforzarono di portarlo pia­mente. Per esse ottieni che, purificate dal sangue di Gesù, siano ammesse quanto prima alla felicità eterna.
Ed anche per noi ti preghiamo! Per gli ultimi istanti della nostra vita terrena: assistici pietosa e rendi vani i tentativi del nemico infernale. Prendici tu per ma­no, e non lasciarci sinché non ci vedrai vicini a te in cielo, eternamente salvi.

Salve, Regina...
 
Ma tante e tante grazie vorremmo chie­derti ancora, o madre nostra dolcissima! In questo giorno, che i nostri padri dedi­carono alla gratitudine per te, ti suppli­chiamo di beneficarci ancora. Impetraci la grazia di non macchiare mai di colpa grave quest'anima nostra, che tanto san­gue e dolore è costata al tuo divin Figlio. Liberaci dai mali del corpo e dello spiri­to: e se sono utili alla nostra vita spiri­tuale, concedici anche le altre grazie d'ordine temporale che abbiamo in ani­mo di chiederti per noi e per i nostri ca­ri. Tu puoi esaudire le nostre richieste: e abbiamo fiducia che le esaudirai nella misura del tuo amore, per l'amore con cui ami il Figlio tuo Gesù, e noi, che a te siamo stati affidati come figli.
Ed ora benedici tutti, o madre della Chiesa, decoro del Carmelo. Benedici il sommo Pontefice, che in nome di Gesù guida il popolo di Dio, pellegrinante in terra: concedigli la gioia di trovare pronta e filiale risposta ad ogni sua iniziativa. Benedici i Vescovi, nostri Pastori, e gli altri sacerdoti. Sostieni con particolare grazia quelli che zelano la tua devozione, specialmente nel proporre il tuo Scapolare come simbolo e incentivo a imitar le tue virtù.
Benedici i poveri peccatori, perché an­ch'essi sono figli tuoi: nella loro vita c'è stato sicuramente un momento di tene­rezza per te e di nostalgia per la grazia di Dio: aiutali a ritrovare la via verso il Cristo salvatore e la Chiesa che li atten­de per riconciliarli al Padre.
Benedici infine le anime del purgatorio: libera con sollecitudine quelle che ti sono state devote. Benedici tutti i tuoi fi­gli, o sovrana nostra consolatrice. Sii con noi nella gioia e nella tristezza, in vita e in morte: e l'inno di ringraziamento e di lode che innalziamo in terra, ci sia concesso, per la tua intercessione, di pro­seguirlo in cielo a te e al Figlio tuo Ge­sù, che vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Ave, Maria...


Va ricordato che:

Giovanni XXII, mentre era Nunzio Apostolico in Francia, confidava: « Per mezzo dello Scapolare io appartengo alla vostra famiglia del Carmelo e ap­prezzo molto questa grazia come l'as­sicurazione di una specialissima pro­tezione di Maria ».

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: diglilaverita
Data di creazione: 16/02/2008
 

 

LE LACRIME DI MARIA

 

MESSAGGIO PER L’ITALIA

 

Civitavecchia la Madonna piange lì dove il cristianesimo è fiorito: la nostra nazione, l'Italia!  Dov'è nato uno fra i più grandi mistici santi dell'era moderna? In Italia! Padre Pio!
E per chi si è immolato Padre Pio come vittima di espiazione? Per i peccatori, certamente. Ma c'è di più. In alcune sue epistole si legge che egli ha espressamente richiesto al proprio direttore spirituale l'autorizzazione ad espiare i peccati per la nostra povera nazione. Un caso anche questo? O tutto un disegno divino di provvidenza e amore? Un disegno che da Padre Pio agli eventi di Siracusa e Civitavecchia fino a Marja Pavlovic racchiude un messaggio preciso per noi italiani? Quale? L'Italia è a rischio? Quale rischio? Il rischio di aver smarrito, come nazione, la fede cristiana non è forse immensamente più grave di qualsiasi cosa? Aggrappiamoci alla preghiera, è l'unica arma che abbiamo per salvarci dal naufragio morale in cui è caduto il nostro Paese... da La Verità vi Farà Liberi

 

 

 
 

SAN GIUSEPPE PROTETTORE

  A TE, O BEATO GIUSEPPE

A te, o beato Giuseppe, stretti dalla tribolazione ricorriamo, e fiduciosi invochiamo il tuo patrocinio dopo quello della tua santissima Sposa.
Per quel sacro vincolo di carità, che ti strinse all’Immacolata Vergine Madre di Dio, e per l’amore paterno che portasti al fanciullo Gesù, riguarda, te ne preghiamo, con occhio benigno la cara eredità, che Gesù Cristo acquistò col suo sangue, e col tuo potere ed aiuto sovvieni ai nostri bisogni.
Proteggi, o provvido custode della divina Famiglia, l’eletta prole di Gesù Cristo: allontana da noi, o Padre amatissimo, gli errori e i vizi, che ammorbano il mondo; assistici propizio dal cielo in questa lotta col potere delle tenebre, o nostro fortissimo protettore; e come un tempo salvasti dalla morte la minacciata vita del pargoletto Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità; e stendi ognora ciascuno di noi il tuo patrocinio, affinché a tuo esempio e mediante il tuo soccorso, possiamo virtuosamente vivere, piamente morire e conseguire l’eterna beatitudine in cielo.
Amen
San Giuseppe proteggi questo blog da ogni male errore e inganno.

 
 
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