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V. V. G.

Post n°2364 pubblicato il 07 Ottobre 2017 da gratiasalavida
 

Credo di aver dormito a lungo.

Il risveglio è stato doloroso.
Il dolore alla testa è lancinante.
Ora sono sveglio, ma non ricordo come sono arrivato in questo posto.
Ricordo di essermi addormentato in un campo, questo me lo ricordo.
Qualcosa non quadra. Faceva caldo, quando mi sono addormentato. Molto caldo. Ora sento freddo, e non solo perché non sto bene. No. Fa freddo. La luce non è estiva. Me ne intendo di luce, io: è la mia fissazione, quella di trasferire su una tela l'impatto della luce sui colori.
I colori non sono sempre gli stessi, perché la luce non è sempre la stessa. C'è quella del primo mattino, ancora invischiata negli umori notturni, poi di colpo piena. Abbagliante. C'è quella corposa del mezzodì. C'è quella matura e fibrosa, quasi languida, del tardo pomeriggio e quella esanime del crepuscolo. Un ventaglio infinito di declinazioni della medesima luce: come le mutevoli disposizioni di un animo che si apra alle infinite sollecitazioni di cui la vita è foriera.
Che ne è stato della luce estiva? Questa è spenta, come solo la luce d'autunno può esserlo.
E che ne è stato del campo? Qui mi trovo a vagare in una strada di città, di una strana città che non riconosco.
Vedo dei singolari veicoli che si muovono a una velocità folle.
Prima ho provato a muovere qualche passo lungo la strada e per poco non sono stato investito da uno di quei trabiccoli che sputano un fumo poco denso ma puzzolente.
Il dolore alla testa non mi abbandona. Mi viene da pensare che non mi sia addormentato, ma che sia svenuto per un colpo alla testa. Non ne sono sicuro. Mi ricordo che avevo bevuto, certo, ma non riesco a ricordare cosa sia successo esattamente prima che mi addormentassi.
Che sono un artista, però, me lo ricordo. Ricordo ogni singolo quadro che ho composto e potrei riferire dettagliatamente di ogni pennellata che ho impresso sulla tela.
Ogni singola pennellata una maledizione.
Perché la luce è una bestia ritrosa. Non si lascia avvicinare facilmente. Non vuole essere domata, catturata, imprigionata dalla tela. No. Si ribella. S'impenna. Ti sputa addosso a ogni istante, nella sua mutevolezza, il senso pernicioso del tuo fallimento, quella puttana.
Ti si offre, talora, come una puttana, solo per sputarti addosso l'imprecazione di un demone scatenato, che ti urla contro che non lo prenderai mai.
Mai.
Percorro lentamente questa strada di una città sconosciuta dove non so come sono arrivato. E perché.
A tratti ricordo il buio. Un buio scevro di colori, in cui sono sprofondato nel sonno. Per quanto tempo, non ne ho idea, ma deve essere stato tanto.
D'improvviso. Qualcosa.
Laggiù. Dall'altra parte della strada.
Attraverso. Devo stare attento a quei trabiccoli che si muovono a una velocità impressionante. Raggiungo l'altra parte della strada.
Non è possibile.
Riconosco una delle mie tele.
Pure non è esattamente una mia tela. Lo è e non lo è.
La vedo riprodotta su un gigantesco foglio di carta.
Però è la mia, ne sono certo.
Mi faccio largo tra la folla che si accalca davanti alla tela, alla effigie della mia tela.
Molti mi guardano con aria di disprezzo, perché li sto urtando per vedere meglio.
Mi accorgo di essere vestito diversamente da tutta questa gente. Sono sporco e puzzo.
Loro profumano, invece, e indossano abiti di foggia eccentrica, ma che hanno l'apparenza di essere molto costosi. Quasi mi vergogno dei miei panni sporchi. Del fatto che puzzo.
Se ne sono accorti in molti, infatti si scansano, al mio passaggio, con aria schifata.
Passo dalla vergogna a un senso di umiliazione che mi fa arrabbiare.
Divento un cane rabbioso.
Che volete da me? Avete un naso troppo fine per starmi vicino? Andatevene, allora! E lasciatemi guardare in pace la mia tela che si mostra da un enorme foglio di carta che non sono stato io a dipingere!
E' il mio quadro, ne sono certo! I mangiatori di patate! Come fanno a essersi trasferiti dalla tela che ho dipinto a questo enorme foglio di carta?
E che ci fa qui tutta questa gente ben vestita che si scansa al mio passaggio solo perché non sopporta la puzza che emana dal mio corpo?
Già. Perché puzzo tanto?
Quando è stata l'ultima volta che mi sono lavato?
Divento matto.
Ora ricordo. "Sono" matto Sono stato ricoverato in un istituto perché sono matto: un pazzo cane ringhioso che aspetta solo di mordere la mano che gli offre un rimasuglio di carne stantia.
Di elemosinare l'attenzione altrui è stanco. Ringhia. Latra. Morde.
Dell'istituto ricordo poco. Le cose brutte non le ricordo tanto bene.
Devo entrare in questo edificio. Devo chiedere perché la mia tela è qui. Non ricordo di aver dato disposizioni perché fosse esposta qui.
E poi "qui" dove? Non saprei dire che posto sia "qui"!
Ricomincio a premere contro la folla che si accalca davanti all'entrata.
Reagiscono in tanti, perché li sto urtando. E perché puzzo.
Sono dentro.
Una donna vestita con una specie di divisa mi blocca l'accesso a una sala più interna.
- Biglietto? - mi chiede.
La fisso per un istante, frastornato. Cosa?!
Neanche mi piace. Non la ritrarrei su una tela.
Non mi interessa e non la comprendo. Che vuole da me? 
La spingo via.
Spingo via tutti quelli che posso,  e che si accalcano davanti a me.
Sento che la donna urla: - Sicurezza!
Molti si guardano attorno, spaventati e disorientati.
Ne approfitto per entrare in una seconda sala, e poi in una terza.
E le vedo.
Le mie tele.
Sono lì, lungo le pareti della sala. Mi avvicino sbalordito.
Sono proprio le mie tele. Non comprendo come siano finite qui. In questo edificio sconosciuto di una città sconosciuta.
Qualcuno sta parlando davanti al mio "cappello di paglia". Mi avvicino e cerco di cogliere qualche parola, per tentare di arrivare a capirci qualche cosa.
Un uomo. Pulito. Ben vestito. Azzimato. Parla indicando il mio "Cappello di paglia".
Colgo qualche brandello di un lungo monologo di cui mi sfugge il senso.
"L'impronta antinaturalistica del colore - sta dicendo - diventa emblema di un anelito all'infinito che stigmatizza l'intera vicenda esistenziale dell'artista".
Che dice? Non comprendo.
E perché parla della mia tela e non chiede direttamente a me, che l'ho dipinta?
- Ehi, tu! Che diavolo stai dicendo?
L'uomo si volta. Mi guarda per un istante, disgustato. Poi mi volta le spalle.
- Toglietemi di torno questo animale! - dice.
- Chi lo ha fatto entrare? - dice.
- Animale sarai tu! - dico.
E sto per saltargli addosso. Riesco solo a prendere lo slancio.
Quattro braccia robuste mi sono addosso. Mi frenano.
Mi sollevano. Mi portano via.
Cerco di resistere. Graffio. Sputo. Cerco di divincolarmi.
Qualcosa mi punge il braccio all'improvviso. Perdo i sensi.
Buio.
Mi risveglio in una stanza dalle pareti bianche, accecato da una brutta luce artificiale, bianca anch'essa. Sono sdraiato su una barella. Mi ci hanno legato, non mi posso muovere.
Arriva uno sconosciuto con un camice bianco. L'ennesimo sconosciuto di questo strano mondo sconosciuto. In mano ha un blocco di fogli.
- Nominativo? - chiede.
- Eh? - rispondo io.
- Il cognome e il nome. Su, non farmi perdere tempo. Collabora. - mi dice.
E io rispondo. Rassegnato.
- Van Gogh.
- Come? - dice lui.
- Van Gogh. Vincent Van Gogh.
Poi ricado nel buio.
Il buio.
Credo che cominci a piacermi.

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Commenti al Post:
aliasnove
aliasnove il 08/10/17 alle 17:40 via WEB
Bel racconto Cinzia....in questa nostra società si da troppa importanza all'apparenza e poca all'essere umano. Alcuni giorni fa in tv davano il film Brama di vivere...strana coincidenza. Auguri per il tuo compleanno Cinzia! Ciao un abbraccio :)
 
ziryabb
ziryabb il 22/10/17 alle 12:36 via WEB
Avevo indovinato dalla lettura delle prime righe che si trattasse di VVG. Mi ricorda un tuo ottimo post su Ligabue! https://youtu.be/oxHnRfhDmrk
 
 
ziryabb
ziryabb il 22/10/17 alle 12:44 via WEB
il link non funziona, colpa di Libero. Stary stary night di Don Mc Clean su VVG chiamata anche Vincent: https://youtu.be/oxHnRfhDmrk
 
Gli Ospiti sono gli utenti non iscritti alla Community di Libero.
 

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Tutti i testi qui pubblicati

sono esclusivo frutto della mia creatività. Cinzia M.

Tutti i diritti sono riservati.

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di questo blog e dei testi che vi sono quotidianamente

inseriti.

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