Creato da amaitti il 28/08/2011

La vita

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Generazione perduta.

Post n°475 pubblicato il 05 Febbraio 2018 da amaitti
 

LA MISSIONE DELLA GENERAZIONE PERDUTA

Siamo nati in un fazzoletto di terra baciato dalla fortuna e nella grazia di Dio.

Viviamo in uno dei paesi più ricchi e prosperi del mondo

e beneficiamo di un patrimonio naturalistico e culturale invidiabile.

Perché allora dovremmo essere scontenti? Siamo forse solo “rancorosi”,

come ha sostenuto qualcuno?

No, gli italiani sperimentando una condizione di depressione sociale perché,

sebbene in senso assoluto non si stia poi così male, in termini relativi

è da un pezzo che perdiamo terreno. Il presente è nebuloso e all’orizzonte

vediamo solo tempeste.

È oggettivamente innegabile che tutto sia peggiorato, il processo

di involuzione è sotto gli occhi di tutti. Avevamo il sistema sanitario

più invidiato del mondo e l’istruzione pubblica più avanzata del pianeta.

Avevamo un’economia che “macinava”, grazie ad uno Stato

che si preoccupava prima di tutto di garantire l’occupazione a tutti

e avevamo un mercato del lavoro protetto. Avevamo uno stato sociale

che ha garantito per un certo periodo di tempo una mitigazione reale

e non solo percepita delle disuguaglianze.

Avevamo, per l’appunto. Ciò non vuol dire che non abbiamo più niente,

ma che abbiamo perso molto e continuiamo a vederci sottrarre

progressivamente, giorno dopo giorno, quel poco che è rimasto.

Alcuni protagonisti attivi del declino hanno propagandato questa involuzione

come necessaria, ineludibile, ineluttabile. “I tempi sono cambiati”

- ci hanno detto - “nel mercato globale si gioca con regole diverse” -

hanno aggiunto e ci hanno ripetuto fino allo sfinimento che non vi era

alternativa alla distruzione di tutto e che anzi dovevamo accogliere

con giubilo questi cambiamenti, adattandoci alla precarietà, all’emigrazione

forzata, alle disuguaglianze crescenti, all’ingiustizia sociale. Avremmo

dovuto qualificare con termini positivi questi abomini. La precarietà

dovevamo chiamarla “libertà di cambiare lavoro più e più volte”,

l’emigrazione forzata doveva essere vista come l’occasione di “essere

finalmente cittadini del mondo”, le disuguaglianze crescenti e l’ingiustizia

sociale erano il naturale risultato dei “meccanismi meritocratici

che premiano i migliori”.

Per un certo periodo di tempo ci abbiamo anche creduto a queste idiozie

e alcuni hanno persino provato ad adattarsi. Qualcuno ha fiutato

prima degli altri la fregatura, altri dopo, altri ancora sono tuttora immersi

in questo liquame di retorica neoliberale fino al collo. Poi qualcuno ha reagito,

ha provato a rileggere la storia, a ricostruire la verità e a proporre alternative.

Ha osservato che nulla è definitivo, niente è ineluttabile, che il futuro

è nelle nostre mani.

È questo il compito della generazione perduta: dimostrare che alla tirannia

del mercato globale è possibile rispondere con un modello di sviluppo

alternativo, che anteponga l’uomo al capitale. Abbiamo la fortuna

di essere nati in questo fazzoletto di terra baciato dalla fortuna

e nella grazia di Dio. Un paese in cui, tanti anni fa, italiani valorosi,

di incommensurabile valore umano, culturale e politico, hanno gettato

le basi per la realizzazione di un modello di sviluppo sostenibile,

di un capitalismo umano, mitigato, in cui lo Stato si prendeva cura

della crescita umana e professionale dei suoi cittadini, garantendo

pari dignità e diritti. Un modello di sviluppo economico che garantiva

al contempo un continua avanzamento dei diritti sociali e dunque la piena

realizzazione dell’uomo.

Quello che abbiamo fatto nei primi trent’anni del dopoguerra resta

un miracolo che non ha compiuto nessuno nella storia dell’umanità,

portando un paese uscito sconfitto da una guerra mondiale a costruire,

sulle sue macerie, un progetto di sviluppo socioeconomico che ci ha visto

scalare i vertici del mondo in termini di reddito, qualità delle produzioni

manifatturiere, influenza artistica e culturale, avanzamento

dei diritto sociali e della qualità dell’erogazione dei servizi pubblici.

Questo sarà il nostro compito: riprendere quel percorso di crescita

e di sviluppo, che si è arrestato negli anni ’80 e che ha ceduto

il passo all’involuzione che abbiamo sperimentato negli ultimi

venticinque tristi anni.

Non è una speranza questa. Non è un auspicio, una preghiera.

È una constatazione e un’esortazione ad agire. È il nostro dovere,

la missione della nostra vita. Lo dobbiamo ai nostri padri, a noi stessi,

ai nostri figli e alla nostra Patria.

Ci libereremo.

cit. G. Baldini

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