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« Curtius IILa Ditta »

Curtius I

Post n°104 pubblicato il 20 Ottobre 2014 da street.hassle

 





Avevano portato il ragazzo in ospedale tre mesi
prima. Si era addormentato su un carro che
portava fieno ed era caduto con le ruote che gli
passavano sopra e gli tritavano le gambe sotto il
ginocchio. L'avevano portato in ospedale che era
tutto viola e le macchie del vomito gli inondavano la
camicia di canapa. Nemmeno si pensava di poterlo
salvare, tantomeno di salvargli le gambe ma, si sa,
i miracoli avvengono, e Curtius era riuscito a preservare
le sue estremità a prezzo di dolori indicibili e sofferenze
inenarrabili. Anche adesso, mentre mordeva la coperta
per non urlare, si chiedeva se fosse più fortunato o
 dannato ad essersi aggrappato con i denti al suo essere
integro e ad averlo difeso contro tutte le previsioni. Tanto
per tirarlo su il medico gli aveva comunque annunciato
che doveva convivere con la possibilità di restare storpio.
E allora, si diceva Curtius, perso per perso vale la pena di
tenersi quelle propaggini inutili e soffrire tutto il dolore del
Mondo, come quel Cristo che pendeva incassato e scarno
dalla parete? Sollevò la coperta e fissò le gambe dentro la
 gabbia di ferri che gli era stata costruita intorno. La carne
era enfiata e violacea, e mandava cattivi odori. Capì subito
che si stava consumando forse per la dabbenaggine di
qualche dottore, forse per un inevitabile giro del Destino.
Tirò su il panno e girò la testa verso il muro, disperato e
scosso dalla pena fisica. E fu proprio allora che si accorse
che la porticina che dava sulla stanza confinante era semi
aperta e poteva vedervi dentro. Per Lui fu come si fosse
spalancato il sole sopra un paesaggio incrostato di nebbia.
Poteva occhieggiare nella stanza e vedere una ragazza
distesa nel suo letto che lo osservava a sua volta. Era
pallida, ma bellissima, riusciva addirittura a individuarne
gli occhi, così grandi da colmarle quasi tutto il volto, talmente
profondi da attirarlo nella sua direzione, simile al pozzo che
 custodisce l'acqua. Curtius si sentiva bruciare. Aveva finito
i liquidi ma non osava suonare il campanello poiché temeva
che l'infermiera, una volta giunta nella stanza avrebbe chiuso
immancabilmente la piccola porticina e gli avrebbe negato
la visione della sua personale salvezza: il volto della ragazzina
che faceva capolino, ora con un grande sorriso stampato sulle
labbra enfiate. Il ragazzo avrebbe voluto parlare ma la voce
non gli perveniva: gli saliva fino in gola ma lì si annichiliva e
 si disperdeva dandogli solo un grande raspo e la sensazione
di fastidiosa impotenza. Tentò più volte finché, alla fine, si
rassegnò e rimase, muto, a osservarla mentre i dolori forti
alle gambe gli davano tregua e andavano in libera uscita.
Per un attimo, mentre scendeva la sera, gli sembrò che
potessero essere fratello e sorella o due teneri amanti, separati
da qualche disavventura nella vita, e iniziò a fantasticare non
togliendo per un attimo lo sguardo dalla ragazza. Il crepuscolo
calava con dolcezza e iniziava a stingere i contorni. Ma anche
se non la vedeva più chiaramente, sapeva che la fanciulla era
 sempre lì, con gli occhioni spalancati e il sorriso gigantesco,
e questo gli offriva lenimento alla pena. Dimenticava di essere
un mezzo uomo.












 
 
 
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