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Messaggi del 08/10/2014

 

A QUALCUNO (NON) PIACE (IL) CAL...CIO 6

Post n°561 pubblicato il 08 Ottobre 2014 da mrjbigmat

CAP. 6 - DIVAGAZIONE AL SUPERMERCATO (DOVE CI SIAMO UN PO' SPINTI, MA SIAMO TUTTI GRANDI E VACCINATI. COMUNQUE LA PEGGIORE DI TUTTI).

Permettetemi un’altra divagazione. Non è solo che, come avrete [is1] capito, io adori le divagazioni, le galoppate mentali, le fughe dallo schema, ma è come se qualcosa mi spingesse a dirvi tutto; come se ogni dettaglio, qualsiasi sfumatura, qualsiasi piccolo fatto successo in quei mesi possa servirvi a farvi un’idea, anzi sia addirittura indispensabile alla comprensione degli eventi.

Della sera del mio licenziamento, ormai sono passati più di sei mesi, ricordo una gran fame, ma anche nessuna voglia di vedere qualcuno. Avevo bisogno di fermarmi a riflettere, di stare solo. Gli eventi si stavano accavallando e non avevo ancora avuto il tempo di fare un resoconto di quello che stava accadendo. D’altra parte poteva essere tutto frutto della mia paranoia[is2] , o addirittura della mia frustrazione, del mio astio, nei confronti di chi vedevo così diverso da me. Era proprio il momento di una serata tranquilla a casa ad analizzare gli eventi con più lucidità. Già sapevo che troppe serate a cenare fuori o addirittura a saltare la cena non potevano essere passate senza aver prodotto danni. Accesi il televisore e mi recai in cucina per vedere che cosa potevo mettere sotto i denti, misi sul telegiornale del secondo canale che stava mandando un servizio su George Best, il calciatore britannico morto il giorno prima, consumato dall’alcool e dagli eccessi. Scorrevano le immagini in bianco e nero e le parole del commentatore: ‘Best è uno dei pochi che non ha avuto bisogno di morire per diventare un mito: gli è bastato[is3]  danzare nell’area’.  Non era la prima volta che lo vedevo e anche in quella occasione mi fece la stessa impressione, quella cioè che il suo divertimento consistesse nel farsi gioco di tutti. E quella azione era il marchio di fabbrica di Best: finta, difensore a terra, finta, un altro difensore steso; potrebbe tirare, ma sarebbe troppo facile, ritorna a prendersi i difensori, forse per dare loro un’altra possibilità, possibilità solo teorica perché quel pallone ha trovato il suo padrone e compagno, il piede fatato di George the Best, che lo lascerà solo per mandarlo in rete. Sono sicuro che il suo scopo non fosse fare gol, lui sentiva dentro di sé che il gol, per quanto stupendo lo puoi fare, è la fine di qualcosa, in un certo senso la morte, è che, invece, fino a quando hai la palla ai piedi e continui a dribblare non devi affrontare la vita vera e ritardi in tutti i modi il ritorno alla realtà. Gli altri, quelli della vittoria ad ogni costo, la chiamano dissipazione, ma di tanti di loro non resterà traccia, di Best si parlerà ancora per un bel po’. Un’altra cosa che me lo rendeva simpatico era la convinzione che George Best in alcuni momenti doveva aver avuto un frigo come il mio. Non nutrivo grosse speranze, ma quello che mi si presentò davanti superava ogni previsione pessimistica: il mio frigo era vuoto. E non è il solito modo di dire, il mio frigo [is4] era proprio vuoto. Se un professore di scienza avesse voluto spiegare ai suoi studenti il fenomeno dei buchi neri sarebbe potuto partire da lì. Non c’era nemmeno la scorza di limone o la busta di latte rancido che si vedono nei film. Se non fosse stato per le macchie di unto si sarebbe potuto pensare che era appena comprato. Il problema è che io odio fare la spesa. Fui tentato, come avevo fatto altre volte, di saltare il pasto, imbottendomi di whisky fino a dimenticare la fame. Ma non me lo potevo permettere, se le cose erano come le vedevo io, qualcosa di grosso stava per succedere o stava già succedendo. E in città c’era chi stava pensando di prendere con la forza quelli che venivano identificati come i centri di poteri, anche a non volerla chiamare rivoluzione era qualcosa che ci si avvicinava molto. Non ero un ‘brigante’ e non condividevo l’azione di forza, ma quella sera non potevo stare a casa a riempirmi di alcool mentre il mondo attorno stava cambiando la storia. Insomma, tante parole per dirvi che solo una rivoluzione imminente poteva portare uno come me al supermercato una volta tornato a casa.

Entrai nel supermercato e acquistai a casaccio, quando ebbi riempito il carrello di cose perlopiù inutili mi avvicinai alla cassa. Davanti a me, nell’altra fila, c’era un tipo con gli occhiali alla Michael Douglas in ‘Un giorno di ordinaria follia’. L’associazione me lo rese interessante: mi aspettavo che da un momento all’altro tirasse fuori anche lui un fucile a pompa[is5] . Aveva un carrello pieno di roba, stracolmo di tutto, pasta, latticini, vino, birra, biscotti, come se sapesse solo lui che a Bush non era piaciuta l’ultima barzelletta di Berlusconi[1] e fosse imminente un bombardamento intelligente sull’Italia, o stesse sopraggiungendo una carestia biblica. Scaricò velocemente sulla cassa ogni sorta di vivande e alimenti[is6] . E alla fine tirò fuori una banana. Una sola. Ricordo che pensai: che cazzo se ne fa di una sola banana? Mi convinsi sempre di più che da un momento all’altro sarebbe successo un pandemonio. Ero certo ormai che quella banana fosse un’arma chimica o una pistola alla James Bond. Come spesso accade nei momenti di tragedia, in quel caso solo temuta, si finisce per pensare alle cose più stupide. Come succede ai funerali alcune volte. Vista la mia predisposizione naturale, non mi fu difficile neanche in quel momento che precedeva la fine del mondo. Fui facilitato dal fatto di avere davanti a me una gnocca bionda di quelle che creerebbero un ingorgo stradale anche alle cinque del mattino. Mi venne da pensare che se proprio dovevo morire in un supermercato avrei voluto farlo fra le sue chiappe. Parlare con Laura al telefono mi aveva messo un’eccitazione[is7]  niente male. La sua voce leggermente roca e il suo accento sudamericano, volutamente calcato in alcune circostanze, avevano sempre un bell’effetto su di me. Ero sicuro che mi avrebbe capito: stava arrivando la fine del mondo e in quei momenti si pensa sempre a come si vorrebbe morire e in giro non c’era di meglio da pensare. Ammesso che in assoluto ci sia di meglio che immaginarsi fra le gambe di una bella donna. Risalii con lo sguardo le gambe abbronzate[is8]  e nude fino a metà. Mi soffermai un po’ sulla piccola piega dietro al ginocchio. Aveva un vestitino di quelli che si alzano un po’ da dietro e sembra che non aspettino altro che di essere sollevati. Ritenendo ormai di avere poco da vivere a causa della banana, presi  coraggio e iniziai a spingere il mio carrello, piano, appoggiandomi quasi impercettibilmente, ma non tanto evidentemente, perché lei se ne accorse. Mi aspettavo che mi spaccasse in testa le due Tuborg che aveva in mano e stava per posare sulla cassa. Lei invece fece qualche passetto indietro e appoggiò il culo sullo spigolo sinistro del mio carrello, strusciandosi lentamente. Si girò e mi sorrise. Mi portò a casa sua dove mi raccontò che sin da piccola era sempre stata molto sensibile in quelle parti, che aveva sperimentato tutti gli oggetti di forma oblunga umanamente pensabili: carote, cetrioli, zucchine, bottiglie di coca-cola, tubi innocenti. Facemmo l’amore due volte e lei mi disse che, pur avendo[is9]  una profonda esperienza in materia, nessuno l’aveva fatta godere come me. Mi sentii una via di mezzo fra Tarzan e Mazinga Z, ma[is10]  la mia legittima soddisfazione svanì come una bolla di sapone quando la cassiera mi ripeté per la terza volta il totale della mia spesa.

“89 euro e 35 centesimi, signore”.

“Ah sì, mi scusi”, risposi con la faccia di uno che ha un foruncolo gigante e purulento sul naso. Vidi la bionda, che nella mia fantasia era diventata ormai miss cetriolo, andare via con Michael Douglas; capii allora a che serviva quella banana. Almeno avevamo evitato la fine del mondo[is11] .



 

 
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A QUALCUNO (NON) PIACE (IL) CAL...CIO 5 BIS

Post n°560 pubblicato il 08 Ottobre 2014 da mrjbigmat

CAP 5- SECONDA PARTE

Quando ebbi finito di parlare, Ale assunse un atteggiamento conciliante nei miei confronti, un’aria da fratello maggiore saccente che mi infastidì ancora di più.

“Senti Stefano, ora ti ho ascoltato, ma te lo dico con la massima calma, da amico, da fratello, devi smetterla di andare dietro alle tue fantasie malate. La situazione è difficile, ci sono contestazioni sempre più frequenti, episodi di violenza ripetuti, si può degenerare da un momento all’altro…”.

“Ale, ti chiedo una sola cosa: so che ti sembrerà impossibile, ma fammi ritornare in quella merda di azienda. Ho bisogno di stare là”.

“Smettila Stefano”, disse alzando la voce. Ale però mi conosceva,[is1]  sapeva quanto detestassi quel posto e quel lavoro e capiva che, se ero arrivato al punto di chiedergli di ritornare lì, un minimo di fiducia la meritavo.

Lo portai in piazza XI settembre, dove, da mesi, dopo le notizie continue di scandali politici, unite alle difficoltà di sussistenza, il tasso di disoccupazione più alto d’Italia, nuove tasse, mancanza di acqua in molti quartieri, si era stabilito il centro di operazioni di volantinaggio, manifestazioni, assemblee, sit-in, dell’Unione per il sud. Nel tragitto Ale non disse una parola, sembrava preoccupato, come se la cosa gli stesse sfuggendo di mano.

La pioggia aveva portato via la nebbia e arrivando a piedi da Palazzo degli Uffici era possibile scorgere da lontano un gruppo di manifestanti con degli striscioni. Riuscii a leggerne qualcuno.

‘Sindaco, dammi una consulenza che ti pago la spazzatura”. “Pago l’acqua, ma non mi arriva”. “Lavoro 200 giorni all’anno per pagare lo stipendio di Previti”. “Ne lavoro altrettanti per la barca di D’Alema”. “Ho evaso mille euro: voglio la stessa cella di Previti”. “D’Alema e Veltroni, la casa, pagatevela da soli”. “Pago le tasse per non far pagare l’Ici ai preti pedofili”.[is2] 

Avrei voluto parlarne con Ale, ma rinunciai avendo capito che non voleva parlarne e pensando di conoscere quello che mi avrebbe risposto.

“Qualunquisti”, sono certo mi avrebbe detto.

Allora pensai che tanto valeva darmi direttamente la risposta. “Il qualunquismo è la versione pacifica della rivoluzione ed è l’ultimo passo prima della rivoluzione stessa. Dopo, c’è solo l’uso della forza. Alla piazza non interessano le spiegazioni, i ragionamenti, il fatto che non esista nesso causale fra le tasse e Previti, o qualsiasi altro mascalzone. Tutto questo è il ‘latinorum dell’azzeccagarbugli’ che Renzo con i due capponi in mano non capisce, quello che capisce Renzo, la folla, è che la legge non è uguale per tutti e che il mondo è sommamente ingiusto. Questo lo capisce e, soprattutto, lo sente, e quando non ne può più cerca di aggiustarlo a modo suo, l’unico che ha veramente a disposizione, anche se non si fa illusioni, perché qualche cosa di storia la sa anche la folla anonima. E sa che morto un papa se ne fa un altro e tutto ritorna come prima. Forse è solo che l’uomo non può vivere eternamente senza illusioni”. Queste furono più o meno le mie riflessioni guardando i cartelli e, soprattutto, chi li issava. Facce stanche di aspettare, di arrangiarsi, mani grosse da lavoratori, fortunati ancora per poco da quello che si leggeva. Insomma, le eterne facce della manovalanza dell’umanità. Quella volta però gli occhi erano diversi, erano occhi di chi è pronto a tutto, gli occhi di chi si era stancato di farsi prendere tutto: dignità, futuro, salute, soldi.

Quel giorno capii che Ale non aveva mai voluto una ribellione, che il mio amico era sempre stato solo un teorico che si era alimentato di tutto un immaginario rivoluzionario che cozzava [is3] contro la sua vera natura, che era quella, lei sì, di discernere, di operare distingui, di elaborare collegamenti precisi fatti da cause, concause e effetti. O almeno così credevo fosse.

Ma se era così perché allora li aveva portati fin lì? Perché aveva alimentato, con i suoi articoli e le sue inchieste, il malcontento e la protesta fino a invocare più volte una rivolta? Si era invaghito del ruolo di raffinato[is4]  capopopolo fino a farsi sfuggire la situazione di mano o qualcosa era cambiato in lui?

 

In quel momento non potevo sapere che anche il problema del mio amico Ale si chiamava Johann Baltis.[is5] 

Questo posso solo immaginarlo ora, riflettendo sul fatto che  le cose più lontane, per un dettaglio, per una storia personale, per legami insospettati, possano essere intrecciati in modo inestricabile. Dall’altra parte dell’oceano, più o meno mentre io e Ale eravamo fra la folla manifestante, Johann Baltis[is6]  si alzava come ogni mattina alle 6,30, faceva colazione, un’ora di pesi, e alle 8,30, come ogni mattina di ogni dannato giorno, era nel suo ufficio a Wall Street. Sì lo so, come si fa a dirlo. Avete ragione, magari non fece pesi e fece ginnastica, e magari quel gran pezzo di stronzo non si sveglia alle 6,30, ma alle 7, o non dorme proprio, ma francamente non vedo perché ce ne dovrebbe fottere più di tanto. Quello che conta è che sono più o meno tutti uguali e fanno più o meno tutti le stesse cose. E anche se non le fanno per noi comuni mortali è come se le facessero. Tanto leggeremo sempre su qualche giornale patinato del cazzo che riescono a fare tutto, come se solo per loro esistesse la giornata di 48 ore.

Perché un uomo così, vi starete chiedendo, avesse a che fare con Ale e dovesse preoccuparsi di quello che succedeva in un piccola città della piccola Italia, per di più dello sperduto profondo sud, rientrava nei misteri più insondabili dell’esistenza. Perché un uomo così, arrivato a un certo punto, in cui ogni starnuto che fa vale milioni di dollari, non chiude tutto e si dedica ad attività meno impegnative e rischiose, più piacevoli ecco, è un fatto che avrebbe potuto non trovare mai uno straccio di spiegazione accettabile. Almeno per me.

Avidità smodata, potere per il potere, piacere di dominare i propri simili, delirio di onnipotenza, intreccio di rapporti da cui risulta a un certo punto impossibile districarsi, paura del vuoto esistenziale che ne deriverebbe, tutto questo, o anche uno solo di questi elementi, probabilmente impediva a Johann Baltis di disinteressarsi anche del più piccolo granello del suo immenso impero. Anche perché Baltis non dimenticava mai da dove era venuto ed era troppo accorto per dimenticare anche solo per un attimo che basta un granello di sabbia per far inceppare anche la macchina più sofisticata. E soprattutto, l’uomo forse più potente della terra non dimenticava mai il puzzo che portava in casa il padre di mattina presto, rientrando dal suo giro a raccogliere l’immondizia di tutta la città. Ed è nel desiderio, diventato col tempo una vera e propria ossessione, di levarsi di dosso quella [is7] puzza di rifiuto che bisogna cercare il motivo del suo amore per il robottino, la sua creatura preferita, lo strumento per raggiungere il suo ideale di vita: la pulizia assoluta, un mondo sterilizzato e asettico. La creatura per la quale si era rivolto agli ingegneri della Nasa, ordinando loro di fare non uno, ma decine di passi in avanti rispetto alla tecnologia disponibile, ossia di costruire un mostro compatto con un motore capace di sprigionare 650 dyne, pari a 3000 W e 18000 giri al minuto; con i circuiti elettrici in oro, con rifiniture in ABS come quelle di una Ferrari; con 70 funzioni, 18 brevetti, 34 marchi di qualità e numero di telaio unico nella gold card. Un mostro, insomma, capace di prestazioni incredibili, che garantivano una pulizia che era quanto di più vicino possibile al suo ideale di perfezione. Non deve sorprendere più di tanto quindi se le notizie sul robottino fossero quelle che gli premevano di più, come se da queste dipendesse la sua stessa vita, o perlomeno quello che ne era il suo scopo principale e se, come conseguenza logica di quanto detto, la prima telefonata di ogni mattina era per il responsabile alle relazioni con le filiali sparse per il mondo per conoscere i dati riguardanti la diffusione della sua amata creatura.

 Quello che è difficile da spiegare è come si arrivi da Johann Baltis, magnate e padrone di metà globo, all’on Mezzatesta[is8] , detto Manolesta, piccolo politico locale, incarnazione dell’affarista senza scrupoli e senza qualità, eletto con i voti controllati da Pa’squalo, capo della malavita locale.

Comincerò col dirvi che uno di quei giorni Arturo Sesti, responsabile della filiale del Sud d’Italia avrà detto a Johann Baltis in persona che nella sua zona c’erano dei problemi, che le vendite non andavano come si sperava e che probabilmente tutto ciò era dovuto al fatto che si viveva in uno stato di agitazione sociale che non contribuiva al successo del prodotto.

E vi aggiungerò che Johann Baltis non la prese bene e decise che si doveva passare alle maniere forti. E quando uno come Johann Baltis decide di giocare duro, lo fa come uno che sa che mezzo mondo gli deve qualcosa e che l’altro mezzo è quello che, nella sua visione, non conta un cazzo. E quando parte uno come Johann Baltis è come una scossa elettrica che va dal midollo giù per la spina dorsale fino al buco del culo del mondo.

 
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A QUALCUNO (NON) PIACE (IL) CAL...CIO 5

Post n°559 pubblicato il 08 Ottobre 2014 da mrjbigmat

5 CAP- PRIMA PARTE. (DOVE L'AUTORE SI COMINCIA A PERDERE PERCHE' ENTRA IN CAMPI NON SUOI).

Primo passaggio: da Miles alla Mundus. E’ già un bel passo, ma siamo ancora lontani e non c’è molto tempo. Loro stanno arrivando e allora tutto sarà finito e voi non saprete mai perché. Bisogna accelerare, dunque, anche se è un verbo che non fa per [is1] me. Da questo momento in poi cercherò di unire più punti in una volta sola, vi accorgerete a un certo punto che i tasselli di questa storia si incastreranno in rapida successione e in modo quasi automatico[is2]  come uno schema crittografato.

Vi sembrerà ancora più strano, ma il secondo motivo, in ordine di importanza, della mia attuale precaria situazione è il mio interesse per gli spam[is3] , i messaggi-spazzatura di posta elettronica, quei messaggi, quasi sempre di pubblicità, che intasano le caselle di posta. Sì, so che, proprio per questo, tutti li odiano, alcune volte aldilà del reale fastidio che arrecano, così come odiano la spazzatura che essi stessi producono. A me invece stanno simpatici. Forse perché li sentivo vicini di destino e di condizione, ma perdevo delle ore appresso agli spam. La cosa che mi piaceva di più erano i nomi improbabili, i nickname, dei mittenti e gli oggetti. Ci sono migliaia di storie in quei messaggi, così come nella spazzatura dei cassonetti. Una cosa alla quale non sono mai riuscito a dare una spiegazione è che fine facciano le mail cancellate. Mi spiego meglio. Un foglio di carta scritto, lo appallottoli e lo butti nel cestino, poi da lì al cassonetto differenziato e infine diventa un’altra cosa, CO2, o un altro foglio di carta: è trasformazione. Ma le mail cancellate dove vanno? Di che cosa sono fatte? Spariscono ed è come se non fossero mai esistite. E quelle bloccate? Rimangono in un limbo e per quanto tempo? Si autodistruggono? Insomma, un giorno in cui come al solito inseguivo i miei pensieri, che si caratterizzavano, allora come oggi, per una speciale disposizione a essere attratti dalle cose generalmente considerate più futili, decisi che da quel momento mi sarei preso cura della spazzatura informatica. Avrei rovistato nei rifiuti come i gatti randagi.

Sì lo so, sto divagando di nuovo, avevo promesso velocità, è che ho sempre pensato che andando di corsa non ci si gusta il paesaggio e poi, ricordate, ogni divagazione, anche quella che sembra più astrusa, ha una ragione di essere. E che vi devo dire, sarà perché sono un jazzista e amo le improvvisazioni, ma a me sembrano tutte necessarie.

Intanto ero di nuovo a spasso e incazzato con il mondo a [is4] cominciare da me stesso, perché constatavo la mia pochezza e la mia incapacità di accettare nella realtà quotidiana quella dannata mancanza di talento necessario a evitarmi di fare i conti con la realtà. Ma stranamente cominciavo a sentirmi sollevato, come se mi fossi liberato di un peso. Non dico che mi sentii rinascere, anche se già soltanto l’idea di non rivedere più Mancuso avrebbe potuto avere su di me effetti miracolosi, ma per la prima volta dopo tanto tempo avvertivo energia positiva che si rimetteva in circolo. A ripensarci adesso, penso che quel posto mi levasse la capacità di pensare, di elaborare pensieri decenti, distruggesse, in qualche modo, anche gli ultimi residui di umanità che mi erano rimasti. È in quel momento, credo, che è cominciato[is5]  tutto. Forse fu proprio quello: la libertà riacquistata, il desiderio di vendetta o semplicemente la voglia di non ammettere un altro fallimento, o tutte le cose assieme, mi indussero a fare quello che non avrei mai pensato di fare, partendo da quello che avevo accantonato come una delle mie frequenti paranoie.

Ma andiamo per ordine. In realtà, in quel momento l’unica cosa che pensavo era che ancora una volta avrei dovuto raccontare al mio amico Ale che avevo perso l’ennesimo lavoro che mi aveva procurato.[is6]  Non so perché Ale avesse tanta pazienza con me e non mi avesse mollato al mio destino come tutti gli altri. O meglio lo so: per gratitudine. Era convinto che lo avessi salvato, che gli avessi salvato la vita. In una città piccola come Cosenza, non è raro, anzi capita spessissimo, che due persone crescano assieme fin dalle prime classi scolastiche. Così fu per noi due. Quando lo vidi la prima volta era un bambino di terza elementare[is7] , grassottello e con gli occhiali, isolato all’ultimo banco. Un bambino al quale ogni giorno, quasi dal primo giorno di scuola, mi disse poi, veniva rubata la colazione[is8]  dai tre bambini più grossi della classe, che si divertivano a perseguitarlo, minacciandolo e picchiandolo in continuazione.[is9]  I bulli esistevano anche allora, anche senza telefonino. Io arrivai solo in terza e lo salvai da quella situazione. Da quel momento, cominciò a seguirmi dovunque andassi, mi imitava, mi elesse a suo idolo. Ma quel giorno, per Ale, fu anche la svolta della vita. Iniziò a dimagrire, si integrò sempre di più, da lì cominciò la sua “normalità”.[is10]  Ho poche certezze nella vita, ma una è questa: Ale non mi abbandonerà mai.

Chiamai il mio amico e gli dissi che avevo urgenza di parlargli: “Fra dieci minuti sono sotto casa tua”. Non aspettai la risposta, feci appena in tempo a sentire un accenno di protesta bofonchiato. Entrai in macchina e accesi la radio, anch’essa un reperto del mesozoico. Willy Pasini rispondeva ad una signora di Padova, il cui marito non la trombava più. Le stava dicendo che era una questione di menù. Se è sempre lo stesso, prima o poi uno dei due cambia ristorante. La trita metafora culinaria mi fece incazzare ancora di più. Mi risollevai un po’ pensando alla signora di 50 anni e 80 chili che decideva lei di cambiare ristorante e andava da Guilly Pasini con tacchi a spillo e frustino. Siccome a uno che si chiama o si fa chiamare Guilly non chiederei nemmeno se sta piovendo, a prescindere, cambiai stazione. In quel preciso momento mi accadde la prima della lunga[is11]  serie di cose strane che avvennero in quei tre mesi[is12] : due giovani donne si buttarono sotto la mia macchina, anzi non è esatto dire si buttarono, forse è più preciso dire caddero sulla mia macchina, caddero senza forza, esangui come degli zombie. Erano sbucate dalla nebbia come fantasmi. La nebbia di novembre in Calabria non è esattamente la nebbia padana, ma unita alla mia distrazione e a Guilly Pasini, fece in modo che quello scontro mi sembrò frutto di un’apparizione improvvisa. Solo la loro lentezza mi permise di rallentare in tempo e accompagnare la caduta senza gravi conseguenze. Scesi dalla macchina e le aiutai ad alzarsi e qui notai il pallore cadaverico dei loro volti e la loro debolezza. Chiesi loro se volevano essere accompagnate a casa, ma quasi non mi sentirono e lentamente, molto lentamente, si allontanarono come anime in pena. Risalii in macchina un po’ turbato da quanto avvenuto, ma ricordo di aver pensato che quelle due donne probabilmente avevano l’influenza e che i sintomi le avevano colte fuori casa, ma scartai l’ipotesi per il fatto che era improbabile che due persone si ammalassero contemporaneamente, pensai allora che fossero ubriache e che, una volta smaltita la sbornia, avrebbero risolto i loro problemi. In auto, le parole provenienti dalla radio mi distolsero da quei pensieri: i due conduttori, un uomo e una donna parlavano di come si ricicla la carta. Preso nuovamente dal pensiero di Guilly che veniva sculacciato dalla tardona, riuscii a capire solo che si doveva evitare di riciclare quella unta. Mi sembrò più interessante la notizia successiva sui farmaci: “Le pillole, vengono impastate nella stessa betoniera con la quale si impasta la calcina”. Mi venne da pensare al mio amico Gigiotto, di cui più in là farete la conoscenza, ipocondriaco perso che viveva in un garage, che non sapeva di avere la casa dentro lo stomaco. “Devo dirglielo”, dissi fra me e me. Ormai ero sotto casa di Ale.[is13]  Uscì per un attimo dal balcone per dirmi che non era ancora pronto; era, come gli capitava spesso, in mutande, il che mi fece quasi sorgere il sospetto che il momento, come al solito con lui, non era quello giusto. Ma non ero nelle condizioni di umore per sentirmi ulteriormente in colpa. Gli feci cenno che avrei aspettato, “tanto so che l’attesa non sarà lunga”, gli gridai. Alzai il volume della radio per non sentire il suo “vaffanculo”. Dopo due minuti vidi un’ombra che pronunciava parole di scuse cui fece seguito, come risposta, il classico schianto di una scarpa contro la porta. Appena le condizioni di visibilità me lo permisero, continuava infatti a esserci una nebbiolina leggera, di quelle che sembra che piova, vidi arrivare di corsa, con i calzoni e la maglietta in mano, il mio amico Ale.

“Mi pare che non l’abbia presa bene”, gli dissi.

“Brrr che freddo. Sempre al momento giusto tu eh? Che dicevi?”.

“No, la tua amica, non mi sembrava contenta…”.

“Ma vaff… Stefano! Ti metti pure a sfottere. Comunque è che è ancora presto per farle capire certe cose: si deve ancora abituare. Il problema è che appena pare che comincino ad abituarsi mi mollano”.

“Come succede a me sul lavoro, anzi a me neanche si abituano”.

“No, Stefano, non dirmelo, non di nuovo. Ecco che c’era di tanto urgente…”.

“Sì, mi hanno segato un’altra volta”, gli dissi senza giri di parole.

“Porca troia, Stefano! Che cosa hai combinato questa volta?”.

Gli dissi dei tre tipi non proprio fanatici dell’igiene che avevo selezionato e di come lo scherzo non fosse piaciuto per niente a Sesti.

 “Cazzo Stefano! tu la devi smettere di fare la coscienza critica del [is14] capitalismo o di chissà che cosa. Quella è una cosa seria, si fa in un altro modo non deridendo chi lavora, fallo fare a chi lo sa fare…”.

Ale aveva una ruga marcatissima proprio sotto al labbro, tanto grande che sembrava che l’intera testa con il suo peso avesse inciso quel solco. E quando si arrabbiava si allargava ancora di più, tanto che temevi che il viso si aprisse proprio lì all’altezza del mento e si rovesciasse all’indietro. Quella ruga era diventata una specie di termometro della sua collera[is15] .

“Dovresti crescere, Stefano, ecco quello che dovresti fare, oppure decidere di morire con la tua dannata tromba, evitando di rompere i coglioni in giro”.

“Ma dai, lo sai anche tu che non vedeva l’ora di togliermi dalle palle…”, gli risposi fissando un po’ preoccupato il solco che aveva raggiunto dimensioni ragguardevoli.

“Appunto, e tu gliene hai data l’occasione. Stefano, sai che devi fare per un po’: rimettiti a suonare la tua tromba, se ci riesci, e non ti preoccupare di altro. Per il lavoro vedrò che posso fare, cercherò di trovartene un altro”.  

Sono sicuro che fu in quel momento che scattò qualcosa, quell’invito a non preoccuparmi di altro era una nemmeno tanto implicita considerazione di non essere all’altezza delle cose serie, quelle dei grandi, ma, soprattutto, la difesa che Ale aveva fatto di Sesti, che mi aveva appena sbattuto fuori, risvegliarono quella sensazione; quel palo che sentivo ogni volta che ero in “Mundus” riprese a farmi male, anche se nulla, in quel momento, faceva pensare che avrei avuto ancora rapporti con la mia ex azienda. Lo interpretai come un segno, una spinta all’azione.

Non so se vi è mai capitato che un fatto trascurato, ignorato, rimosso, diventi improvvisamente un’ossessione che ti si piazza lì davanti agli occhi e non si decide a levarsi se non dopo avergli dato tutta l’attenzione possibile. Decisi allora di raccontare ad Ale quello che fino a quel momento avevo considerato come un fatto curioso e nulla più e che ad un tratto mi si era parato davanti come una rivelazione.

Senti, io devo andare da Pancho, ne approfittiamo per mangiare qualcosa. Le acrobazie mi mettono una fame…”.

“No, non posso, ho da fare e poi non sono proprio dell’umore giusto”.

“Ma dai, vedrai che risolviamo anche questa volta”.

“No no veramente non mi va…”

“Come vuoi, allora portami in piazza che là poi trovo qualcuno che mi accompagna”.

“Non vuoi ascoltare quello che ho scoperto?”.

“Lascia stare, ti conosco e so che quando fai quella faccia sei sulla rampa di lancio per uno dei tuoi voli e ora non mi interessano i tuoi deliri, non è il momento delle nostre chiacchiere da tiratardi…”.

“Senti Ale, ci conosciamo da trent’anni, a chi posso dire quello che penso di aver scoperto se non a te?”.

Ale era sempre sensibile all’aspetto sentimentale e io ne approfittavo ogni volta che mi rendevo conto che le altre armi erano spuntate.

“Falla corta, però”. Ero riuscito a riempire un po’ il solco.

“Come sai, quando arrivo in ufficio la prima cosa che faccio è controllare la posta elettronica. Qualche giorno ho notato che oltre, come sempre, a decine di curriculum, c’erano diversi spam, cosa molto meno ovvia visto che l’azienda possiede filtri sofisticatissimi per impedirne l’arrivo”.

“Mah, forse non sono così sofisticati come credi. Da quel che ne so io non esistono fortezze inespugnabili”.

“Probabilmente hai ragione, ma, che ti devo dire, è stata una sensazione, come se quegli spam mi stessero richiamando. Forse è stata solo curiosità, insomma, ho cercato di aprirne qualcuno, ma mi sono subito reso conto che tutti messaggi spazzatura erano protetti da una password. Perché arrivavano spam nonostante un filtro che si presume efficientissimo? Non erano nemmeno con il suffisso di paesi extraqualcosa che sembra, da quel che ho letto, [is16] che sia l’ultimo espediente per aggirare i filtri. E soprattutto, perché erano protette da password? Tutti i nostri pc erano collegati in rete, tutto quello che arrivava era accessibile a tutti. Era un fatto di per sé irrilevante, quelle cose strane come ne succedono a decine ogni giorno, e avevo lasciato perdere. Ma ora,  il licenziamento, il fatto che tu abbia difeso quegli stronzi, mi hanno ricordato la prima sensazione che ho avuto e cioè che si volesse coprire qualcosa. Prima l’avevo attribuito al fatto che mi stanno tutti sul cazzo e che covavo la speranza di poterli smascherare nei loro loschi intrighi, nei traffici nei quali la mia fantasia li aveva più volte immaginati coinvolti. E avevo accantonato il fatto rimuovendolo. Ma poco fa, mentre parlavi, è stato come se il bastone che mi premeva dietro ogni volta che stavo in quell’azienda fosse diventato improvvisamente un tizzone ardente.[is17]  E mi stava dicendo: ‘guarda che hai lasciato dietro qualcosa di importante”.

 

 
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A QUALCUNO (NON) PIACE (IL) CAL...CIO 4

Post n°558 pubblicato il 08 Ottobre 2014 da mrjbigmat

Cap 4 (dove comincia qualche ripetizione dovuta a vari cambiamenti).

Tutto quello che volevo fare, nella vita, era suonare la mia tromba, vivere della mia musica. Ma a modo mio, quando ne avevo voglia e con chi mi andava. Io e la mia tromba e nient’altro. Come Miles Davis, il mio idolo, il più grande di tutti. Purtroppo per me però io sono solo Stefano Biondi. Gli amici, quando ancora ne avevo, mi chiamavano Cet, come Chet Baker, un altro grande trombettista, che per il suo aspetto era considerato il James Dean del jazz. Il soprannome risale a quando il mio amico Ale si era messo in testa di farmi da manager e gli era venuta l’idea di lanciarmi come il Chet Baker italiano. Devo dire che, non so come, funzionò. La suggestione della musica, la penombra, un sapiente gioco di luci, qualche donna che cominciò a sospirare e il gioco era fatto. Da allora, per tutti, anche se non suono più, sono Cet.

Come tutto questo mi abbia condotto alla situazione attuale è una storia lunga e difficile da credere. Così incredibile che, in questo momento, anche la portinaia del palazzo dove abito, che come tutte le portinaie del mondo non si fa sfuggire nulla, anche lei dicevo, sbirciando dalla finestra, si starà chiedendo cosa c’entra la mia tromba con quella folla di brutti ceffi assatanati, una ventina di uomini della CIA, una dozzina di sicari della ‘ndrangheta, un paio di robot e agenti di tutti i corpi di sicurezza dello Stato. Anche a lei sta sulle palle la mia tromba, ma lo spiegamento di forze deve sembrarle un tantino esagerato. E anche a voi che ancora non mi conoscete deve sembrare un po’ strano.

La prenderò da lontano e vi dirò che è tutta colpa del talento, di quello che uno ha e, soprattutto, di quello che uno non ha. Il mio problema era che suonavo bene, ma non abbastanza da farmi perdonare la mia incostanza. Diciamo che il mio genio non era tale da farmi perdonare la mia sregolatezza. E nella mia situazione hai due strade: o continuare a credere in te e in quello che fai e rischiare di affogare o non provarci proprio e rientrare nei ranghi. Ero consapevole dei miei limiti, ma il problema era che il resto, al di fuori della mia tromba intendo, la cosiddetta normalità, era per me come un giornale stinto dalla pioggia: incomprensibile e inutile.

Perché il talento va dove vuole. Come tutti sanno, il talento è un dono, ma è anche un castigo, una maledizione, perché da solo non basta, a meno di non averne tanto, tanto da far male. A meno, cioè, di non essere come Miles che se ne fotteva del resto, se ne fotteva di tutto quello che serviva ai comuni mortali, di quelle tre cose che fanno la differenza fra chi ce la fa e chi annega: tecnica, applicazione e culo. Per lui esisteva solo la sua tromba. E il suo talento. Immenso. Miles non si esercitava, lui suonava e basta, all’eterna ricerca di qualcosa. Negli ultimi tempi, si esibiva di spalle al pubblico. Il suo pubblico era da qualche altra parte, in un posto che vedeva solo lui. Ho sempre pensato che volesse dire: fate silenzio, basta rumore, ci provo io a parlarci. Ma nemmeno lui ci riusciva. Forse perché di là non c’è nessuno con cui parlare. Le note andavano sempre più profonde e lontane, ma tornavano vinte, irrimediabilmente consumate dal vuoto.

Scusate la divagazione, conoscendomi vi avviso che non sarà la prima, so che vi starete già chiedendo cosa c’entra Miles Davis con la Cia e tutto il resto? Sapete, ogni tanto me lo chiedo anch’io e spesso perdo il filo, ma poi lo ritrovo e tutto mi sembra chiaro, anzi quasi obbligato. Quello che vi chiedo è solo un po’ del vostro tempo, pazienza, due buone orecchie e vi garantisco che saprete tutto.

I fatti che vi sto per raccontare mi colsero probabilmente nel mezzo.

 E poi c’è un altro talento che bisogna avere nella vita: nascere nel posto giusto e a me il meno che si possa dire è che non è toccato di nascere nella patria del jazz[is2]. Se nasci e vivi in una città come la mia, infatti, vivere suonando la tromba è probabile quanto un neonato con un dente del giudizio. Cosenza è una città del sud d’Italia come tante altre, ne tanto meglio, né tanto peggio delle altre, una città in cui qualsiasi cosa fai ha un peso minimo, irrilevante, nella vita e nella storia del mondo. La differenza sta solo in chi se ne accorge e chi invece pensa di cambiare i destini dell’umanità o dà l’impressione di pensarlo. Una città da cui andare via al più presto se si desidera vivere la vita a modo proprio[is3] .

 Ma qualche volta capita anche alle città ‘normali’ di diventare teatro di esperienze notevoli e io sono qui per raccontarvela.

Come tutti sanno, la distanza più breve fra due punti è la linea retta, ma quella è geometria e questa invece è vita. Se andassi diritto, infatti, voi non capireste quasi niente e, in ogni caso, vi perdereste tutto il gusto. Quello che posso fare per voi è andare avanti a modo mio, con curve, soste, deviazioni e tutti gli imprevisti di un viaggio. Mi piacerebbe che lo vedeste come un assolo di tromba[is4] . La speranza è che, almeno per una volta, si avvicini a quelli del grande Miles, ma so che quello che vi posso  promettere è soltanto che ogni nota, anche se sarà lunga e ripetuta, per un orecchio poco allenato o solo distratto, a volte, addirittura superflua,[is5]  ogni nota conquistata, dicevo, sarà un passo per colmare la distanza fra i due punti, quello iniziale e quello finale, che ora sembra tanto ampia, tanto ampia da farli apparire due punti che corrono su due rette parallele, destinate a non incontrarsi mai. Alla fine però, anche se pochi lo sanno ma anche due rette parallele, se non le si consideri sul piano euclideo, finiscono per incontrarsi.

Allora, è arrivato proprio il momento di iniziare sul serio. Punto di partenza, o forse è meglio dire, prima nota[is6] : Miles.

È quello il punto iniziale perché è chiaro come la luce di un giorno di mezza estate, e Shakespeare mi perdoni per l’indegno uso che faccio delle sue parole, che se avessi avuto il talento di Miles[is7]  non avrei avuto bisogno di lavorare nella ‘Mundus Mundus spa’, o che comunque non ci avrei mai lavorato.

La ‘Mundus’ è[is8]  una multinazionale americana che da due anni ha aperto una filiale proprio nella mia città. Ancor oggi occupano un appartamento al secondo piano di un bel palazzotto al centro[is9] , nella zona di edilizia di epoca fascista, caratterizzata da costruzioni semplici e lineari.

È uno di quei posti in cui tutti scimmiottano la casa madre,  e per uno come me sarebbe stato difficile sopportare gli originali, figurarsi i replicanti. Per capirci meglio è un ambiente pieno di quelli che invece di dire: ‘abbiamo una riunione per decidere i nostri obbiettivi’, dicono: ‘è in schedule un briefing per riformulare la mission’, che ti viene automatico rispondere con la voce di Alberto Sordi: “oh yeahh, wots american bois”. All’ingresso c’è un manifesto giallo con la frase Your attitude will determine your success. Musica a tutto volume per caricarsi, tutti sempre di corsa, frase simbolo: vogliamo il 110%. Non ho mai capito che cazzo volesse dire. Ma il vero protagonista era il mostro: Goty, una specie di robottino dalla mille funzioni che veniva venerato come una divinità e non considerato semplicemente per quello che era: il più efficace strumento di pulizia di ambienti chiusi presente in quel momento sul mercato.

La mitizzazione di Goty era la vera, unica filosofia, il pensiero dominante, che percorreva l’azienda dal grande capo agli addetti alle pulizie. Tutti in Mundus sapevano, o erano presto indotti a sapere, che quel mostriciattolo era l’essere più caro a Johann Baltis, il grande capo della multinazionale.

 
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A QUALCUNO (NON) PIACE (IL) CAL...CIO 3

Post n°557 pubblicato il 08 Ottobre 2014 da mrjbigmat

CAP 3

Arrivammo al Caffè Renzelli e, visto che era tornato a splendere il sole, ci sedemmo all’aperto, quasi sotto alla targa che informa che quel Caffè è un ‘locale storico’ perché è lì dal 1800. Mi venne da pensare a quanti stronzi si erano seduti a quei tavoli in tutti quegli anni e che uno in più non avrebbe fatto differenza.

“Tu sei la classica persona che gode del suo dolore”, mi disse così, a bruciapelo.

“Mi conosci da venti minuti e hai già emesso la tua sentenza”.

“È il mio lavoro. E poi la prima impressione, c’era una frase di Oscar Wilde sull’importanza della prima impressione, che non ricordo bene ma faceva più o meno così: ‘solo i superficiali non si fidano della prima impressione’, sì, qualcosa del genere…”.

“Mah, anche ‘sta storia di Oscar Wilde, gli attribuiscono qualsiasi cosa, a credere a quello che si legge, doveva essere un tipo che andava in giro a rompere i coglioni a tutti quelli che incontrava. Un professionista della devastazione testicolare letteraria”.

Solo dopo aver pronunciato quella frase mi resi conto di averle dato, senza volerlo, solo per fare lo spiritoso, della scassacoglioni. Ripresi allora il discorso iniziato da lei: “Voi invece vi impegnate a costruire uomini senza memoria, esseri più manipolabili, più controllabili”, dissi cercando di colmare più in fretta possibile quell’attimo di silenzio che si era creato.

“Voi chi? io sono solo una tutor e poi noi cerchiamo solo di rimuovere i ricordi negativi”.

“L’uomo è la sua memoria, tutta intera...”.

“Ma gli errori del passato portano a nuovi errori, alla sconfitta”.

“Cazzo! Tutti a parlare di essere vincenti, ma è poi così importante essere vincenti, ammesso che qualcuno lo sia? E poi chi decide che cos’è, essere vincente? Qual è la vittoria? Chi decide che cos’è da considerarsi vittoria e che cosa sconfitta? Io mi sentivo vincente. Avevo una compagna che amavo, un figlio che abbracciavo ogni volta che volevo e facevo quello che desideravo fare, cioè suonare la mia tromba. Ma per tutti, già allora, ero una specie di fallito. E poi credo che, in ogni caso, l’importante non è vincere, ma essere in campo con la voglia di lottare per essere felici”.

“Ma è proprio quello che manca a te, la voglia di lottare. Continue sconfitte distruggono la voglia di lottare, di mettersi in gioco”.

“Mah, forse hai ragione tu e io sono solo un animale ferito che si piange addosso. Ma adesso parliamo di te. Non sei italiana, anche se parli quasi perfettamente la nostra lingua, lavori anche tu nella Mundus, visto che emetti sentenze mi devi dare qualcosa in più, non ti pare?

“Giusto, sono italo-colombiana…e sono da circa un anno a Cosenza…”.

“Dove ovviamente ti trovi male”.

“No, non è vero. Fatico ad accettare alcune cose, ma ne adoro altre…”.

“Sono curioso, ho sempre pensato che solo chi viene da fuori può dare un giudizio lucido sul posto in cui arriva. Ovviamente voglio gli aspetti negativi…”.

“Posso sparare sentenze?”.

“Concesso”.

“Guarda, la prima impressione che mi ha fatto è stata quella di una città triste, che si annoia, annoiata da se stessa. E poi di una città ingessata, troppo rispettosa dei ruoli sociali, delle superiorità vere o solo presunte, quasi sempre autoassegnate. Una città senza ironia e soprattutto senza autoironia, che si prende troppo sul serio e che si dà un tono decisamente più alto di quello che le è congeniale…”.

“Uuhhh, pensavo di essere io quello critico”, la interruppi in quella che stava diventando un’accalorata orazione, anzi un’invettiva.

E ancora non ho finito. Lasciami dire, per favore. Sono cose che quando mi capita di parlarne mi mandano in bestia. Mentre ne parlo mi sale un calore su fino alla testa, su certi argomenti, in particolare il sesso, la libertà sessuale, è come sbattere contro un muro. È come se questa città fosse rimasta a valori dell’800. Mi sembra che quello che conti è solo il decoro, rappresentato dalla famiglia e dal lavoro, la rispettabilità. Ecco credo che vi sia un eccesso di perbenismo. Si fa fatica ad accettare, per ignoranza, per grettezza, anche per cattiveria, la libertà della donna. Non le si riconoscono desideri propri. In questo, credo che la Chiesa cattolica, con la sua morale sessuofobica, abbia fatto danni devastanti. Senso di colpa e peccato ecco quello che mi ha colpito da subito, soprattutto per le donne. Credo che una donna che vuole essere libera, anche solo di assecondare i propri desideri, in un posto come questo possa anche rovinarsi la vita. E le altre donne invece di essere solidali, sono le prime a darti addosso… Sto esagerando?”.

“No, no, un po’ tranchant come ogni generalizzazione, ma ci può stare. Quello che credo io è che ogni città abbia più anime, come le persone, forse ancora di più delle persone. Dipende molto da chi ti è capitato di frequentare. E Cosenza è come una donna tranquilla che cova il fuoco nelle viscere. Qualcun altro potrebbe dirti che Cosenza è la città dei vizi. Il punto è che alcuni sono tollerati e altri no”.

“Mmmh, interessante…e che cosa direbbero ora i tuoi intolleranti se una donna libera come me facesse quello che desidera dal momento in cui un uomo altrettanto libero si è seduto su quella sedia e cioè mettergli le mani sulla stoffa dei pantaloni e tastare quello che da quando è qui è diventato il suo primo pensiero”.

“Quasi tutti penserebbero che questa donna sia una poco di buono”, le risposi sorridendo.

“Ma perché? Cosa ci sarebbe di male? Chi ne sarebbe danneggiato?”.

“Vuoi che ti faccia una lista?”.

“Te la faccio io: cittadini irreprensibili e pii, difensori di quello che una volta si chiamava comune senso del pudore, mogli frustrate che non fanno sesso da anni, mariti che vanno a puttane, magari nei nuovi viaggi della speranza all’est o dalle mie parti, preti che non possono altro che toccare ragazzini di nascosto e che non sanno niente di sesso naturale e libero e pontificano su una cosa che non conoscono. Tutta gente che morirebbe d’invidia se io facessi questo”.

Eravamo seduti di tre quarti: in un ipotetico orologio, se io ero il sei, lei era il nove, e quando lei lasciò scivolare la sua mano prima sulle mie gambe e poi, risalendo, sulla cerniera dei miei pantaloni, persino i gatti si girarono.

“Che dicano quello che vogliono, hombre, nessuno ci può levare questo momento”.

Per uno che la pensa come il regista Bertolucci, quello di ‘Ultimo tango a Parigi’, ossessionato dalle mani sulle patte dei pantaloni, era un gran bel momento. Dissi la prima cosa che mi venne in mente, quasi sempre non sono frasi che rimarranno nella storia come quelle di Oscar Wilde: “Credo che tu sia stufa di stare qui?”.

“Te lo stavo per chiedere io. Da me o da te?”.

“Forse è meglio da te. I perdenti non hanno case dove chi entra dice ‘carino qui’. Il massimo che ho sentito è stato: ‘però, originale’. La scopata è stata una delusione: finta come lei”.

“Anche la mia non è una casa da rivista; le multinazionali sono molto attente ai bilanci, ai loro ovviamente. Ma è una casa calda, hombre, e c’è un letto comodo. E poi è molto vicina…”, disse sfiorandomi la gamba con il ginocchio.

Pagai velocemente e, più veloci di due ciclisti in fuga, scendemmo dal Renzelli, volando prima piazzetta Parrasio e poi largo dei Cavalieri di non so quale ordine, scivolando lungo il Duomo, arrivammo sotto casa sua, un appartamento al secondo piano di Palazzo Campagna, un palazzo a tre piani appena finito di restaurare, ai piedi del Duomo. Eravamo sotto al grande portone di legno, lei stava cercando le chiavi nella borsetta, quando ad un certo punto mi guardò con gli stessi occhi di prima, rimise le chiavi nella borsa, mi prese la mano e mi trascinò nel vicolo, fermandosi sotto una scala ripidissima e strettissima, che, pensai dopo, chi vi abitava era costretto a salire di traverso. Come si fa a raccontare la furia animale, la bestia che ognuno di noi tiene sopita sotto secoli di regole e di buona educazione? Ci provo per voi. Era ripreso a piovere in quell’alternarsi incerto di aprile; non so se fu lei a buttarsi contro un portone nero con delle scanalature o ve la spinsi io, quello che ricordo sono le sue mani che slacciavano la cintura e si infilavano nei miei pantaloni e le mie sotto la sua gonna la stoffa delle sue mutandine i fremiti del suo ventre quando entrai con la mano le sue gambe che premevano suoi miei fianchi e i talloni che spingevano sul mio sedere su cui scivolavano le gocce che scendevano dalla schiena. Ricordo anche che fu velocissimo, probabilmente i trenta secondi più intensi della mia vita, probabilmente di qualsiasi vita. E io li avevo vissuti nell’ex ‘Vicolo della neve’, il poetico nome con il quale avrei ricordato per sempre quegli attimi. Il tempo di sistemarci e salimmo a casa.

Rimanemmo in casa tutto il giorno, fermandoci solo per[is1]  mangiare qualcosa.

Quinta informazione: lei era una maestra, ma Mancuso, anche se, da quel giorno in poi, sarebbe stato presente a tutte le lezioni, non l’avrebbe mai saputo[is2] .

Come ogni storia che si rispetti non può mancare quella scena. Mi riferisco a quella con i due a letto con lui che fuma e lei appoggiata con la testa sul suo petto che fa domande come se volesse conoscere tutta la sua vita in dieci minuti, fa domande e reclama coccole. E come tutti gli uomini sanno, dopo, è più facile rispondere a delle domande, anzi è meno difficile.

“Che ti è successo per essere così. Hai detto che eri felice e poi?”.

“Mah, niente di particolare. La mia è una storia come tante altre”.

“Ti va di raccontarla?”.

“Mmmh…”

“Ho capito sei uno di quelli che non parla volentieri di sé. Come non detto”.

“Suonavo la tromba in piccoli locali, aspettando sempre il grande giorno, quello in cui qualcuno si sarebbe accorto di me e mi avrebbe fatto fare il grande salto. Invece arrivò solo il giorno in cui Elisa, la mia compagna, se ne andò. Ormai sono tre anni. Una sera tornai da una mia esibizione e non li trovai, se n’era andata portandosi anche Samuele. Ci avevano staccato la luce. Per sei mesi non ebbi loro notizie. Poi mi chiamò e mi disse che era fuori dall’Italia e che stavano bene. Ogni tanto viene per farmi vedere il bambino. Tutto qui. La verità è che forse io ero già così, dentro di me non volevo fare il grande salto, avrebbe comportato impegni, fastidi. A me bastava suonare, suonare bene; non mi importava per chi e per quanti. Ero felice solo in quei momenti, mi sentivo in pace con me stesso, come se solo facendo quello adempiessi al motivo per cui stavo al mondo. Ma Cosenza è una città snob, molto snob. E provinciale. Se non hai una macchina lunga 6 metri e un lavoro regolare ti mettono in difficoltà, ti fanno sentire fallito anche se sei felice e fai quello che vuoi e chi non è forte da fottersene o chi non crede in quello che fai o semplicemente non pensava di aver scelto quella vita prima o poi molla”.

“Come vi eravate conosciuti?”.

“Non ci crederai, ma lei impazziva a sentirmi suonare. Alla fine la odiava quella tromba. E forse me più di lei. Solo una cosa è peggio di vivere con un artista: vivere con uno che ne ha tutte le caratteristiche ma non lo è”.

“E perché ora non vivi come prima, adesso potresti, invece di stare a soffrire in posti come la ‘Mundus’, a rimpiangere quello che poteva essere e non è stato…”.

“Non lo so, è come se si fosse rotto qualcosa, da quel momento non sono più riuscito a fare una nota degna. Ricordo ancora l’ultima canzone che suonai. Quella sera mi avevano chiamato, qui vicino, al Beat club, proprio qui sotto, per un compleanno, un appassionato di jazz. Alla fine suonai per lui ‘Welcome’, c’è una parte in cui somiglia a ‘Buon compleanno’ e per non cantare la solita ‘Happy birthday’ feci quella. Forse tu sai che è una canzone di Coltrane che è un sassofonista, ma ognuno suona con gli strumenti che ha e non c’è canzone che una buona tromba non può fare. Qualcuno mi disse che ne feci una versione straziante, sincopata come un pianto strozzato. Forse la mia parte di artista aveva già sentito che non sarebbe stata ‘Welcome’ la parola che avrei sentito tornando a casa”.

“Beh, Stefano, io non so di Coltrane, di sassofoni e di trombe, forse qualcosa in più so di pianti strozzati, ma ci posso provare; non sarà lo stesso, ma forse per stasera può bastare. Welcome, bienvenido hombre, accomodati”, disse lei salendomi sopra e mettendo il suo sesso nudo sulla mia pancia.

È sempre bello essere il ‘benvenuto’. E quella sera era bastato. E, se aveste conosciuto Laura, non avreste dubbi a credere che bastò per tante altre sere.

Eh sì, un vento dolce e selvaggio era arrivato.

 
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A QUALCUNO (NON) PIACE (IL) CAL...CIO 2

Post n°556 pubblicato il 08 Ottobre 2014 da mrjbigmat

CAP 2 (CORSO)

Un colpo di vento, in effetti, c’era stato un po’ di tempo prima. Una folata improvvisa di quelle che quasi sempre ti buttano addosso solo terra e cartacce, ma che ogni tanto invece ti portano freschi aromi e piacevoli fragranze. 

Sei mesi prima che mi licenziassero, la Mundus aveva deciso di sottopormi ad uno dei programmi motivazionali che periodicamente teneva per i venditori. Vista la mia precaria situazione, per una volta tenni a freno la mia linguaccia evitando di dire che secondo me quelli avevano bisogno di un corso con finalità contrarie, o di un mese in un centro di filosofia Zen, dopo un bella dose di valium. Anche se io non ero un venditore, il mio caso era considerato così disperato da indurre i capi a pretendere la mia partecipazione. Era una specie di pre-ultimatum.

Arrivai a lezione cominciata perché la “Mucca” aveva deciso di chiudersi dentro. La Mucca era la mia macchina da quasi vent’anni ormai, una Taurus del 1983. La chiamavo così perché più che un toro, sembrava una mucca pezzata, colore ruggine con sprazzi di grigio, memoria del colore che doveva aver avuto nel secolo passato. Di sicuro un’esemplare unico e di gran lunga la macchina più bella della città. E soprattutto la più volubile e umorale: era lei, infatti, a decidere se farmi entrare o no. Non so come facesse, ma, se era di cattivo umore o si sentiva stanca o soltanto perché gli girava così, era capace di bloccare la portiera per ore prima di cedere. Anche l’elettrauto mi aveva spiegato che ci aveva perso due giorni smontando e rimontando tutto decine di volte e non aveva trovato niente di guasto, niente che potesse giustificare quel ‘comportamento’, anche lui lo chiamò così.

In ritardo e zuppo di pioggia per un acquazzone improvviso, entrando cercai in tutti i modi di non farmi notare, sgusciando dietro le colonne che dividevano in quattro zone aperte ma distinte l’ampia sala del Convento delle Vergini, dove si teneva il corso. Allo stesso tempo, però, provai ad evitare di sedermi vicino a Mancuso, al quale rivolsi la mia prima occhiata. Non sedermi vicino a lui, e alla sua strana combinazione di peli, infatti, era il primo e unico obbiettivo che mi ero prefissato recandomi al corso. Ovviamente non era rimasto che un posto: al suo fianco.

Lei era in piedi e parlava a una ventina di persone. Capelli corti neri, manageriale, decisa. Si interruppe solo un attimo per guardarmi con la coda dell’occhio. Ricordo perfettamente le prime parole che le sentii dire: “In qualsiasi lavoro, così come nella vita, ma nel vostro lavoro di venditori in particolar modo, è fondamentale dare una immagine di sé vincente. Il cliente ha bisogno di avere risposte, non di sentire domande che voi gli potreste porre con una immagine dubbiosa o addirittura tormentata. Dietro di me vedete riportate in uno specchietto le parole chiave dell’immagine del fallimento sulla vostra sinistra e del successo sulla vostra destra”. Non potevo ancora immaginare quanto fossero profetiche quelle parole pur nella loro genericità. Sulla lavagna elettronica appariva uno specchietto a due colonne di parole con le iniziali di un altro colore che formavano le due parole chiave, secondo la relatrice, della nostra esistenza: FAILURE e SUCCESS. Per quel che ricordo, era una cosa più o meno così:

 

 

 

 

Parole Chiave

Frustrazione                               Senso di…non ricordo

Axxxxxxxxx                                Understanding

Insicurezza                        Coraggio                                                           Loneliness                             Cxxxxxx  

Uxxxxxxxx                                 Esteem                                    

Risentimento                              Self confidence

Exxxxxxx                                   Self xxxxxxxxx

 

Fu una strana miscela di sensazioni. Lei che sembrava tratta da una di quelle brochure di quelle scuole a pagamento, con gli occhialini alla Nicole Kidman in Eyes wide shot, e una bocca della quale non vi sto a dire qui le solite cose che chissà quante volte avrete sentito: carnosa, sensuale e continuate voi tenendo conto che potete aggiungere molto senza sbagliarvi. Il suo incedere professionale fra la cattedra e lo schermo, che non riusciva a nascondere un corpo fatto per il sesso, in mezzo alle colonne austere e sotto il soffitto alto della sala del convento creavano una confusione felice, quasi che la manager, la peccatrice e la santa si fossero date appuntamento tutte in quel luogo, a quell’ora e, soprattutto, in quel corpo.

“Dovete sempre tenere presente che la felicità è uno stato mentale. Sono le cicatrici emotive a rovinarci la vita, dobbiamo evitare di portare alla luce i ricordi spiacevoli”.

“Cazzate!”, gridai, ma quello che avrei voluto dire era più esattamente con ‘quella bocca puoi dire quello che ti pare’. Mi stupii di me stesso: fino ad allora, tranne quando suonavo, la mia rappresentazione fisica quando intorno a me c’erano più di cinque persone era l’ologramma. E l’avevo fatto oltretutto per una cosa  che non mi interessava.

“Come scusi? Lei è appena arrivato ed ha già capito tutto?”. Doveva essere un rimprovero ma guardandomi, forse le sembrai buffo, trafelato per il ritardo, imbarazzato e fradicio com’ero, non poté fare a meno di sorridere. Sorrideva anche Mancuso, creando una strana simmetria ad elastico fra peli del viso e quelli cranici, avevo sempre notato che l’assieme sembrava un elastico con ai due capi i due ciuffetti e le rughe intorno alla bocca che ne costituivano la struttura, un elastico che si stendeva quando era serio e si afflosciava quando rideva. Sorrideva anche Mancuso, ma di questo francamente mi importava di meno.

Prima informazione: non era italiana, perlomeno non completamente. Parlava perfettamente la nostra lingua, ma si sa che per quanto ti sforzi di essere perfetto, le origini non le levi mai. E la pronuncia era quel difetto quasi impercettibile che fa di una bella donna un essere unico. So che di per sé il fatto di non essere italiana non rappresenta un motivo di attrazione, ma, che vi devo dire, evidentemente nessuno sconfigge mai completamente quello che di sé non gli piace. E la mia parte di provinciale che non riesco a eliminare stravede per l’esotico.

Seconda informazione: aveva un gran bel sorriso.

Una volta, tanto tempo prima, avevo stabilito che chi arrivava a cinque delle qualità che più mi piacevano veniva proclamata la mia donna ideale.

“Volevo dire che tutto quello che ha detto, rimuovere i ricordi spiacevoli, cancellare le ferite, porta a un uomo senza coscienza e senza passato, cioè qualcosa di diverso da un uomo”, cercai di spiegare superando il mio imbarazzo.

Dovevo sforzarmi di fare finta di non vedere i sorrisini e le occhiate di intesa degli altri presenti al corso, le emerite teste di cazzo che stavano dando il 110%, che Mancuso, con l’elastico floscio, guidava contro di me come un direttore d’orchestra.

“Mah, non credo. Siamo qui proprio per cercare di convincervi del contrario”, disse. “E di convincermi”, aggiunse sottovoce, in un modo che, credo, colsi solo io in quella sala.

 Era successo quello che non mi sarei mai aspettato, mi ero appassionato alla lezione e mi spiacque molto quando lei, salutando, ci invitava a ritornare il mercoledì successivo. Tutto era durato così poco, quando ero arrivato la lezione era quasi finita. La “Mucca”, infatti, quella volta aveva proprio esagerato. Mentre i 110 e lode facevano crocchio parlando ovviamente del robottino, velocemente mi avvicinai all’uscita. In un film lei si sarebbe affiancata e mi avrebbe detto: “Comunque, che ne dice di approfondire davanti a un caffè?”. E io, sempre in un film, avrei risposto, con la faccia più da duro che mi veniva: “Se le interessa un uomo cicatrizzato”.

“Forse è per questo che mi interessa”, rispose la protagonista del mio film.

Terza informazione: lei sapeva come si fa.

 Uscimmo dal chiostro del convento come in un quadro di…., sentendo da dietro le finestre del Cinquecento gli occhi vigili delle suore. Mi vergognavo della ‘Mucca’ e pensai di proporre una passeggiata a piedi fino al Caffè Renzelli. Ma, anche a voler tagliare dai vicoli, era una bella scarpinata, soprattutto con i tacchi e la pioggia sui sampietrini. Non restava che la mia cara vecchia ‘Mucca’, già uno spettacolo a vedersi. Il rottame di solito faceva media, nel senso che per una volta che mi faceva penare compensava la volta successiva con un’apertura al primo colpo. Speravo che la tendenza fosse rispettata in quell’occasione. Ma, come tutti sanno, la statistica è quella cosa per cui se il quoziente intellettivo medio è, facciamo, pari a 80, Einstein è Einstein e Mancuso, nonostante la statistica, rimane quella grande testa di cazzo che è.

 Beh, la scena di lui che prova ad aprire una portiera e lei che se la ride l’avrete vista anche questa in qualche film, comico ovviamente, ma credo che sia stato in quel momento che la conquistai. Tiravo calci e sacramentavo contro la ‘Mucca”, che ad ogni calcio perdeva polvere di ruggine come fosse sangue e più quella dannata ‘Mucca’ resisteva più lei si scioglieva. Forse l’intenzione della mia vecchia era il contrario, forse era gelosia per quella che vedeva come una profanazione, ma il risultato fu opposto. Decisamente opposto. Quando la ‘Mucca’ ritenne di avermi fatto fare un figura di merda tale da portarmi a pensare che Laura mi avrebbe messo cianuro nella consumazione che avrei preso di lì a poco al bar, riuscimmo a entrare. Non senza l’ultimo colpo di teatro della mia amica a quattro ruote. Non so come fu, forse una vendetta per le botte, forse un estremo tentativo di rovinarmi la serata, ma giuro che quell’allarme non scattava da quando la ‘Mucca’ correva con Nuvolari o forse addirittura con Fangio. Il fatto incredibile era che l’elettrauto mi aveva detto che non c’era nessun sistema di allarme nella mia macchina. Cominciai a pensare che dovevo cambiare elettrauto o che la Mucca lo avesse minacciato o corrotto in qualche modo perché eravamo appena entrati quando iniziò a suonare una specie di campanaccio da bovino svizzero. L’ultima cosa di cui aveva bisogno quella megera di macchina era un allarme funzionante. Probabilmente le sarebbe servito di più una vasca Jacuzzi o, che so, un paio di sci di fondo.

Entrai pregando che Laura non assumesse l’aria schifata di chi entra in una macchina vecchia, invece per fortuna ancora rideva. Una risata argentina coperta dal muggito della Vaccaccia maledetta. Anche quella mi aveva rovinato la vacca: la prima risata della donna che ti piace”.

“Che grinta, la vecchia. Sempre così?”.

“Invecchiando peggiora. Forse dovrei cambiarla”, dissi simulando serietà.

“Forse. Arriveremo al Caffè?”, disse.

Quarta informazione: conosceva l’ironia.

Mancava solo la quinta per far rullare i tamburi e far scattare nella mia testa la frase: “Signore e signori, ladies and gentlemen, è con immenso piacere che vado a presentarvi… la mia donna ideale”.

 

 
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A QUALCUNO (NON) PIACE (IL) CAL...CIO

Post n°555 pubblicato il 08 Ottobre 2014 da mrjbigmat

...E nelle 2 ore (moltiplicatoxinfinito) di una partita lavora, scrive, legge, sta con gli amici, gioca, sta con il proprio figlio etc etc.

Quello che segue è una parte di un tentativo di romanzo mai finito (non per mancanza di volontà, ma perchè non credo di essere in grado) che solo una persona ha letto.

Come in tutta la narrativa si mescolano fatti realmente accaduti con fatti fantasia. C'è da dire che io non ho una grande fantasia e, in generale, penso che si possa parlare, anche se in maniera trasversale, indiretta, coperta, metaforica etc etc, solo di cose che attengono a chi scrive.

Nessuno (forse solo qualche gruppo di fedelissimi) ci crederà, inoltre, ma in questo abbozzo di lavoro ci sono tutti gli elementi che ispireranno le storie cosentine di Dylan Dog (c'è una scena che è proprio uguale), Martin Mystere (Alarico) e Tex Willer (l'entrata a cavallo).

Considerate che io l'ho scritto nel 2010. Arriveranno altre cose. Vi risparmio quello scritto (oltre a tutto quello fatto per orale, corsi, lezioni), tesi e progetti, perchè sono cose noiose e oltretutto vi intaserebbero i pc vista la mole.

Sinceramente non so se la stesura (considerate che è una bozza) che sto per incollare sia leggibile, ma capire quale sia la più "finita" e comprensibile mi costerebbe troppo tempo. Cominciamo con quello che si può considerare il primo capitolo.

Il protagonista si chiama Stefano (da qui il mio nome su fb e anche per distinguermi dall'omonimo), ma tutti lo chiamano Cet come Cet Baker, proprio perché suona la tromba come lui.

*le parti evidenziate o colorate sarebbero parti da finire. c'erano dei commenti a fianco che ho cancellato.


Cap. 1

Quando vidi per la prima volta Johann Baltis, ricordo che pensai che era il tipico uomo che non avrei mai conosciuto in vita mia e, soprattutto, che non avrei avuto nessun interesse a conoscere. Figurarsi se avrei mai pensato di vederlo in una città del profondo sud d’Italia come Cosenza. Già allora, Baltis era uno dei tre uomini più ricchi del mondo, uno per cui la parola “impero” non riusciva a esprimere del tutto quello che aveva costruito partendo da zero, passando per tutti i gradini della scala e compiendo tutti i passaggi della mitologia del self made man, dallo strillone all’uomo hamburger, dal lavapiatti all’uomo dell’ascensore. Ed era uno capace di sotterrarti con il solo suono della sua voce.

Quel poco che si sapeva del suo passato era la versione che ne riportavano i rotocalchi e le riviste finanziarie e scandalistiche di tutto il mondo e stava tutto in un cognome di origine rumena, della più pura nobiltà rumena, i Balti, la comunità più importante fra quelle di origine celtica che nel corso dei secoli erano migrati dalla regione scandinava fino alle pianure dell’Ucraina.  I suoi antenati, finiti in disgrazia dopo la prima guerra mondiale, preferirono emigrare nel nuovo continente piuttosto che subire l’umiliazione di essere costretti a lavorare per vivere nel paese di cui si consideravano fondatori e a cui avevano dato grandi e illustri regnanti. Almeno questa è la versione che il padre di Johann ha sempre dato a suo figlio e quella che suo figlio, una volta diventato uno degli uomini più ricchi e potenti del globo, ha tenuto ad accreditare come vera. Un giovinetto, biondo e magro come un giunco, che, fra stenti e privazioni, sogna di antenati che fieri su cavalli bianchi costeggiano il grande Danubio alla conquista del mondo, ecco quello che era stato Johann Baltis. Che fosse l’ennesimo riccone alla ricerca di quarti di nobiltà o la semplice verità, era con quella versione che bisognava fare i conti e con tutto quello che ne discendeva, a cominciare dal fatto che tutti quelli che avevano a che fare con lui si accorgevano immediatamente di avere di fronte un uomo con un sogno, inventato o reale che fosse. Un sogno colorato del blu del Danubio, il sogno di tornare a cavalcare fianco a fianco a quel fiume, di nuovo da imperatore. Anzi, da padrone del mondo, questa volta.

Nessuno si sarebbe aspettato di vedere lui e il suo sogno annegare nello stesso posto dove una leggenda vuole si fosse fermato quella di Alarico, re dei Goti, suo più illustre predecessore, seppellito con tutto il suo tesoro, circostanza che già da sola basterebbe a rendere inverosimile quanto è stato tramandato.

 

Sono rimasto in quella azienda fino a tre mesi fa: la mia esperienza lavorativa con la Mundus si è conclusa infatti la mattina del 21 novembre dello scorso anno, il 2005. Ormai arrivavo in ufficio sempre più incazzato, sapevo già che mi sarei imbattuto prima in un Team Leader e poi in un Trainer Motivazionale. O viceversa,  tanto era lo stesso: li odiavo tutti, quegli imbecilli che pensavano che stavano dando il 110%, non ce n’era uno che mi fosse non dico simpatico, ma almeno indifferente. Il mio umore diventava ancora peggiore quando incontravo Mancuso, il campione delle vendite. Era un tipo basso con gli occhiali e quattro peli sul mento, che lisciava in continuazione, così pochi da non meritare l’appellativo di pizzetto, peli che facevano pendant con i pochi capelli rimasti che gli stavano impennati sul cranio di ragguardevoli dimensioni. Nonostante il suo aspetto, Mancuso sarebbe riuscito a vendere il prodotto anche a un moribondo, magari spiegandogli che sarebbe servito per tenere pulita la bara. L’orgoglio dell’azienda, il primo della classe, quello che fa notare al professore che l’esercizio è sbagliato, ma solo al professore che è in una situazione di debolezza come ero io quando ero il suo diretto superiore. E servile, come un esercito di camerieri in livrea, con i potenti. Un tipo da strozzare con fil di ferro insomma, un tipo che, ahimè, faceva anche proseliti.

Ma a parte Mancuso e i suoi epigoni, fin dal primo giorno avevo avuto strane sensazioni, come quando ti presentano uno e ti fa una cattiva impressione. E l’esperienza mi aveva insegnato a fidarmi della prima impressione. Non riuscivo a definirlo, ma c’era qualcosa di strano. Dopotutto, ci sono aziende di sigarette, chi vende superalcolici, c’è chi scarica materiali radioattivi, chi traffica in armi, c’è insomma chi fa le peggiori porcherie, quelli volevano soltanto aiutare le massaie a pulire meglio le loro case, ma ogni volta che parlavo con uno di loro mi sentivo come se avessi un palo ficcato nel culo.

All’inizio mi avevano messo alle vendite, ma dopo un po’ si sono accorti che “non credevo abbastanza nel prodotto”. La verità era che non ero invasato come gli altri. Nel momento in cui sono successi i fatti che sto per raccontarvi, mi avevano messo alle risorse umane. Selezionavo i futuri invasati. Ma neanche qui corrispondevo alle esigenze dell’azienda, non andavo bene perché tendevo a prendere quelli più sani di mente. Quelli che non erano pronti a vedere il lavoro come una missione, quelli che avevano dubbi, quelli che nei test, alla domanda su chi erano le persone più importanti della tua vita, non mettevano la X su quel cazzo di robottino. Persone non cose.

A metà mattinata di quel 21 novembre, il capo mi convocò nella sua stanza. Alberto Sesti, per la verità, non era come gli altri. Si era laureato alla Bocconi a pieni voti ed era destinato ad una brillante carriera di manager, se non fosse rimasto coinvolto in una storia poco chiara di molestie sessuali con una dipendente, qualche mese dopo aver cominciato a lavorare a New York, nella sede centrale della stessa multinazionale. Solo grazie all’intervento del padre, un famoso e potentissimo neurochirurgo di Milano, la storia fu messa a tacere e Sesti fu trasferito in una filiale con sede nel profondo sud dell’Italia. Ovviamente, tutto lascia tracce ed è per questo che riuscivo a salvare il lavoro, nonostante ne combinassi di grosse. Il mio amico Ale, giornalista di una piccola testata locale, ma per anni ad un grosso quotidiano nazionale, conosceva il suo segreto e lo teneva un po’ per le palle.

Immaginate come può essere carogna il tipo ‘giovane rampante’ quando sa che non ha più niente da ‘rampare’. Più che altro mi dava l’idea di un rampicante. Su un muro fatto di corpi umani. Uno di quello che per il successo, non solo ucciderebbe la mamma, ma ci salterebbe pure di sopra con la trombetta e i coriandoli. Ogni volta che lo vedevo mi ricordava la spocchia di quegli atleti reduci da un grave infortunio, o per qualsiasi altro motivo, costretti a giocare in squadre di categorie inferiori al loro valore.

Entrai nel suo ufficio e lo trovai, come al solito, dietro al tavolo, ampio, in noce, che usava come scrivania. Dietro di lui una libreria bianca, al muro, sul lato destro, delle riproduzioni di Pollock. Avvertii nell’aria un profumo di mela verde che non avevo mai sentito in quella stanza, profumo che però non riusciva a coprire completamente l’odore di sudore e di tabacco, un pugno nello stomaco nell’ufficio di uno come Sesti. Il capo si accorse dell’aria soddisfatta che assunsi dopo aver constatato la presenza di quel tanfo nel suo ufficio e non riuscì a trattenere un leggera smorfia di disappunto. Sarebbe stata impercettibile per tutti quella smorfia ma non per me.

Come al solito, non mi guardava mentre parlava. Faceva sempre finta di scrivere o di leggere qualcosa. “Senta, Biondi, vengo subito al punto, come lei sa, odio perdere tempo. Lei non mi piace e io so di non piacerle. Ma, come lei avrà ormai imparato, io non mi faccio condizionare dalle mie preferenze e simpatie personali: l’azienda ha bisogno di persone valide e lei lo è. Solo questo conta. Lei è con noi da due anni e l’azienda le riconosce delle qualità di molto superiori alla media in termini di capacità di, chiamiamola ‘comprensione psicologica delle persone da selezionare’, ma non può continuare ad usare queste sue indubbie capacità contro l’azienda stessa. Le avevamo già detto che era l’ultima volta che avremmo tollerato i suoi comportamenti disfattisti nonché stravaganti”.

Come sempre, aveva parlato come un libro stampato. Uno di quei libri per manager del tipo ‘Come aver successo in 10 mosse’ o ‘Come inculare il tuo collega di lavoro in una settimana’. Roba da squali con lo stomaco vuoto, insomma.

In effetti l’avevo combinata più grossa del solito: nel giro di una settimana, avevo selezionato i tre individui forse più luridi della città. Anzi, senza forse. Dei tipi che l’ultima goccia d’acqua che avevano visto era stata quella del battesimo. Che per una società che doveva vendere un apparecchio per la pulizia non era proprio quella che si dice una buona idea. Avrei dato anche un tasto della mia tromba per esserci quando si erano presentati nell’ufficio di Sesti.

Tentai una difesa d’ufficio poco convinta del tipo sparando la prima cazzata che mi venne: “Ma il mio è stato uno scherzo”.

“Lo so. Uno stupido, puerile, inutile, scherzo che danneggerà la nostra azienda mettendola sulla bocca di tutti. Lei ancora non ha capito che ha tutto da perdere a fare lo stronzo con noi. Quindi lei dice che è stato uno scherzo. Non ci piacciono i suoi scherzi, non ci sono mai piaciuti, forse pecchiamo di mancanza di humour, ma li troviamo poco divertenti e pericolosi. Lei dice che era solo uno scherzo, a noi qualche dubbio rimane, perché anche gli scherzi più innocenti quasi sempre hanno un fine. E lei fa un’offesa alla sua intelligenza se organizza uno scherzo senza scopo alla sua azienda e ne fa un’altra ancora più grave se continua a ripeterlo per difendersi. Ma se così le piace continuare a sostenere allora sappia che anche il mio lo è. Solo che il mio durerà tutta la vita, almeno per quanto riguarda la Mundus. Se lei ha qualcosa contro l’azienda parli una volta per tutte, così mettiamo il punto finale su questa storia che si è protratta ben oltre il tempo suo. In via del tutto eccezionale, le concediamo un’altra possibilità, rispettiamo il suo diritto di replica. Tre risposte alle nostre tre domande. Perché fa queste stronzate? Che cosa pensa di ottenere? Lei sa di essere disoccupato? E non divaghi come al solito, per favore”.

Si alzò e, con lentezza studiata, si versò del whisky. Stava giocando con me, assaporava il suo trionfo, finalmente gli avevo dato la possibilità di sbattermi fuori. E si concedeva i suoi giochetti; aveva questo vizio di fare le domandine, non ho mai capito se erano frutto di sadismo o se erano l’espressione del suo raffinato humor così diverso e superiore al mio. Fui tentato dal fornirgli una spiegazione raziocinante del tipo che quei tre sarebbero potuti diventare i testimonial dell’efficienza del prodotto, un prima e dopo la cura, ma non volevo dargli una ulteriore soddisfazione. Mi limitai a dire che quella sera avevo bevuto tanto, rimarcando di averlo fatto di sera e non di primo mattino come stava facendo lui. 

“Non ci aspettavamo molto dalle sue risposte. Sapevamo che non ci avrebbero soddisfatto. Lei persevera nel suo errore di mantenere un atteggiamento poco collaborativo e senza senso. Siamo sicuri, lo siamo sempre stati, che lei, con le sue capacità, le sue indubbie qualità, non farebbe fatica a trovare un altro lavoro. Ma crediamo anche che, con l’idea che si ha di lei, che lei ha contribuito a creare dando sempre l’impressione di uno di cui non ci si può fidare, i lavori che le verrebbero forniti sarebbero occasionali e poco soddisfacenti. Ancora meno soddisfacenti di quanto lei consideri questo alla Mundus.

Noi, con lei, siamo sempre stati leali, aldilà della nostra convenienza e contro ogni logica, atteggiamento che ci ha danneggiato in diverse occasioni. Quella che le avevamo offerto era l’ultima occasione, lei ha fatto finta di nulla, non credendoci o infischiandosene, e ha continuato ad agire seguendo una strada che, sinceramente, vede solo lei. Il suo errore consiste, secondo me, proprio in questo: è che lei agisce come se esistesse o potrebbe esistere, un giorno, questa strada. Provi a ragionare diversamente: la strada non esiste, esiste un giorno dopo giorno fatto di gioie e dolori, di ricerca della felicità e di presa d’atto di una inevitabile infelicità, esiste che non si può avere sempre quello che si vuole e si deve accettare la sconfitta. Forse, se lei cambiasse la sua prospettiva, eviterebbe di continuare a fare errori così grossolani, che lei attribuisce, credo, ai suoi sentimenti, ma che secondo noi, invece, nulla hanno a che fare con la sua parte irrazionale, ma sono solo frutto di calcolo, di calcoli, ripeto, errati e anche in maniera grossolana. Talmente marchiani sono i suoi sbagli che, non le nascondiamo, lei ci ha portato spesso a interrogarci sui motivi che la inducevano a farli. Fra le diverse interpretazioni, quella prevalente, contrariamente a quanto farebbe pensare il suo atteggiamento, è che lei pecchi di eccesso di sicurezza, di fiducia nei propri mezzi, caratteristica che le farebbe trascurare le conseguenze del suo operare, anche di fronte alle continue avvertenze e ai recenti ultimatum. Tutto perché risiede in lei la certezza di trovare una soluzione per tutto”.

“Mi risparmi il pistolotto, dottor Sesti, il ruolo di pastore di anime non fa per lei. Le riesce male, lei non vede l’ora che io mi alzi da questa sedia e chiuda quella porta levandole per sempre il fastidio di avermi davanti”.

Fece finta di non sentire la mia provocazione e continuò da dove si era interrotto. Come se avesse deciso di dire in ogni caso quello che si era preparato a dire, sebbene tutto si poteva dire tranne che fosse un uomo schematico. Era solo che aveva deciso di non volermi concedere niente di più di quello che aveva preventivato ed era anche un modo per ignorare le mie osservazioni.

“Ovviamente, siccome un’azienda non può andare costantemente contro i propri interessi, tale cambiamento di prospettiva avverrà, se lei ci riuscirà, all’interno di un’altra azienda. Credo di essere stato chiaro e che non occorrano altre parole, perché vede, non servirebbero, altre parole, caro Biondi, o preferisce Stefano?”.

 Indugiò un attimo, sorseggiando il whisky, forse aspettando la mia reazione, che, contrariamente forse a quanto si era immaginato, non arrivò.

“Lei è fatto così, ha qualcosa dentro di sé che la porta sempre a fare gli stessi errori, come un po’ tutti d’altronde. Lei, in fondo, non riesce a credere che ci siano persone che la vedano diversamente da lei e a cui danno fastidio i suoi modi di fare, anche quando siano indirizzati a non si capisce quale scopo salvifico. A meno che il suo scopo non sia proprio quello di farsi sbattere fuori dalla nostra azienda. Se era questo, ci è riuscito perfettamente e le facciamo le nostre scuse per aver sottovalutato, ancora una volta, la sua abilità. Per una volta allora lei sarà contento della riuscita dei suoi piani e, anche se so che questo le preme di meno, di trovarci pienamente in sintonia con il suo obbiettivo. Ha diritto a una sola replica. L’ultima sigaretta, chiamiamola così”.

Ancora il suo humor del cazzo. Non mi aveva mai permesso di fumare in azienda. “Non mi piace Stefano, ecco tutto”, risposi.

“Che risposta del cazzo. In linea con la sua errata convinzione. Quasi quasi gliene darei un’altra per sentirle dire e fare finalmente una cosa intelligente. Lei è convinto di essere un oppositore del regime, un sovvertitore del sistema. Anche se sono ancora giovane ne ho visti tanti come lei, sa, non creda di essere unico. Ma, mi creda, lei è solo uno che, come tutti, ha le sue ferite. Lei è uno che infrange le regole non perché non creda nel sistema, ma solo per il suo piacere o per i suoi dispiaceri. E quando vuole sa come usare il sistema che dice di aver combattuto e di combattere. Si ritenga libero”.

Sulla porta, prima di uscire, gli dissi: “Ah, dottor Sesti, quasi dimenticavo: Stefano, solo per gli amici”.

Me ne andai senza nemmeno passare dalla mia stanza a prendere le mie cose. Avrei preferito rinunciare a tutto quello che avevo nei miei cassetti, se mi avessero in seguito impedito di rientrare nella mia stanza, ma non stare un secondo in più in quel posto.

“Ancora tempi grigi per te, caro Stefano”, fu il mio primo pensiero uscito in strada, guardando il cielo, un cielo che più di novembre non si poteva. Ma mi venne da pensare che anche il cielo più grigio prima o poi se ne va.

“Ci vuole un colpo di vento, ecco che ci vuole, proprio un bel colpo di vento.


 

 
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