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Geografia

Post n°435 pubblicato il 16 Luglio 2016 da lab79

Io da bambino l'amavo, la geografia. Un elenco di nomi, dati, numeri, eppure non è mai stata qualcosa di astratto, nonostante io da bambino non avessi mai viaggiato. E' vero, restava sulle pagine dei libri e negli atlanti. Ma io adoravo e adoro ancora oggi leggere le mappe, pronunciare a mezza voce nomi di città lontane, percorrere col dito le lunghe strade polverose che attraversano il mondo. E' anche un modo di vivere quello che leggo: Trans Europa Express, di Paolo Rumiz, l'ho letto così questo inverno, con Google Earth aperto nello smartphone, seguendo chilometro per chilometro la lunga strada che unisce il nord europa al mar nero, in quel crogiuolo di storie e genti che è la mitteleuropa. Fermandomi di tanto in tanto ad ammirare le foto dei paesaggi come deve averli ammirati l'autore, spingendo la mia immaginazioni ancora più in là di dove sarebbe arrivata se mi fossi limitato a leggere i nomi di confini che non conoscevo.

La geografia dà un posto alle cose, alla Storia e alle storie degli uomini. Dà un nome, indica una direzione. Propone un viaggio, che anche se non compiuto può sempre essere almeno intrapreso, magari accennato, magari molto meno.

Per lo stesso motivo soffro il fascino delle frontiere. Nonostante ne sia stato vittima, sin da ragazzo sono cresciuto in un'Europa che dissolveva frontiere, le rendeva formali e astratte, e lontane. Lo sapevamo che non era mai stato così, io e i miei amici, e percepivamo di vivere in un mondo che non era stato mai, incapaci di immaginare che anche quell'utopia avrebbe intrapreso questo apparente viale del tramonto che percorriamo oggi. Ma le frontiere politiche non sono le sole. Esistono frontiere più antiche, più arcane. Quella che divide il mare dalla terra, o la terra dal cielo. Una di quelle frontiere ho avuto la possibilità di sfiorarla, di vederla passare sotto i nostri piedi, in questa caricatura del viaggio che è stata, come sempre, la nostra vacanza. Ho visto Punta Ristola farsi vera, riempirsi di dettagli man mano che l'avvicinavamo fino a immaginare di toccare con un dito quel ultimo masso calcareo, divorato ai piedi dalle onde e sospeso di qualche centimetro sopra il mare. E da lì vedere il Mare Ionio dividersi dall'Adriatico, questione di centimetri e poi il fondale che sparisce sotto un mare che da quasi turchese, nel pomeriggio prima del tramonto, diventa cobalto e profondo come un respiro antico, e solleva in onde la superficie e si alza il vento, che si intrufola tra le pietre di una costa scoscesa e nuda, come deve averla vista Enea in fuga dalla furia dei greci.

Non riesco ad evitare di fantasticare, intanto che mio figlio ridacchia delle onde alte che gli spruzzano il viso e si tiene con una mano sola al bordo della barca, e porta con leggerezza quello stesso nome antico.  Un nome che gli ho dato sperando che possa varcar frontiere, visitare terre lontane, e coraggioso e fedele a se stesso possa vivere una vita vera.

Ma non è stato solo mare. E' stato ammirare le facciate delle chiese Leccesi, e scoprire che l'arenaria non va scolpita ma accarezzata, ammorbidita col siero del latte e lasciata asciugare al vento della storia che in questi posti, in certi momenti sembra essere passato quasi distratto. Sono state le sere nei ristoranti intorno al porto di Gallipoli, col profumo del pescato del giorno che non sembra nemmeno essere uscito ancora dal mare. Sono stati gli scogli ruvidi, come alle mie orecchie disabituate l'accento della gente del posto, e la sabbia gialla e le stelle grandi tanto la notte pare più buia, e lunga, e degna di essere attraversata sognando.

Sono stati come al solito pochi giorni, un salto di quasi mille e duecento chilometri da casa, da farsi in apnea mentre nel sedile posteriore la mia famiglia dormiva e la notte scorreva come l'asfalto: nera, ondeggiante e continua, con l'unico obiettivo di riemergere infine al sorgere del sole, stanchi e finalmente a casa.

 
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