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Un pomeriggio di un giorno da cani

Post n°42 pubblicato il 16 Maggio 2007 da sunking77
 
Tag: Cronaca

immagineTre albanesi in preda a una crisi nervosa, «fatti» di cocaina, convinti di portare a termine un assalto alla diligenza, un rapimento di massa. In cambio di un riscatto. Invece l’impresa - studiata secondo una rigida logica balcanica, un mix di violenza e di follia pura - finisce in un rogo senza senso. Del Mercedes Integro, resta solo lo scheletro annerito. Bruciato come la speranza di ricavare milioni di euro dopo una fuga verso la Lombardia, verso la Terra Promessa. Inseguiti da colonne di volanti, gazzelle, frastornati dal rombo degli elicotteri che si abbassano sul tetto del bus, partito alle 13,30 da Alessandria per il solito percorso tra le colline.

Soggetto, colonna sonora e regia di Kusturica. Alì Muka, 27 anni, il vice, è ricoverato nell’ospedale di Novara. Proiettile trapassante in un polso, qualche lieve ustione. È il primo a essere catturato. Confessa qualcosa, ai pm che lo interrogano: «Avevamo un piano, volevamo fare soldi e poi andarcene. Abbiamo liberato le donne e i feriti, non c’era intenzione di far male, di uccidere». Gli inquirenti sono perplessi. C’è molto di più di qualcosa che non quadra. Tutta quella benzina. «L’abbiamo comprata noi, all’autogrill, serviva solo per intimidire gli ostaggi, non siamo stati noi a innescare l’incendio», dicono convinti.

Il capo l’aveva cosparsa dappertutto. Immaginava la scena: il bus fermo sotto la Madonnina, le troupe della tv, la trattativa per la liberazione degli ostaggi in cambio di una colossale somma di denaro. E poi la fuga. In qualche paradiso lontano. Fine della miseria e della clandestinità nella sonnolenta Alessandria. Il risveglio dal sogno è stato brusco. Quando scoprono che tra i passeggeri ci sono, per caso, due poliziotti. «Volevamo farli scendere, ci hanno aggredito». Il vice ha un’aria stralunata, nonostante siano passate già alcune ore dalla cattura. Perchè Milano? «Più facile confondersi con la folla, più vie di fuga». Difficile dire se è vero o no. Forse era in programma una seconda fase, l’entrata in scena di altri complici. Scenari diversi.

Anche la parola terrorismo, adesso, fa sorridere. Alle 19,30, a San Martino di Trecate, tocca al secondo, il soldatino del commando: Armand Alì Ibrahimi, 19 anni. Lo Stato italiano di lui sa una sola unica, circostanza: fermato senza documenti, fotosegnalato in questura. Clandestino, senza fissa dimora. Un tipo senza sponsor. Neanche un precedente, neanche un furtarello. «Mi hanno convinto a partecipare al sequestro, volevamo guadagnare soldi. Io dovevo prendere i cellulari a tutti, prendere i documenti, legare le persone. Mi hanno dato un coltello e un taglierino». Il meglio di sè lo ha rivelato al momento della fuga nel bosco. Ha perso una scarpa, s’è gettato in un anfratto e s’è coperto con delle frasche, foglie e rami. Altro frammento da film. Giusto in tempo per essere sorpreso da Jago, pastore tedesco della polizia.

Invece di Muka il terminale dello Sdi racconta una storia di ordinaria criminalità extracomunitaria. Reati contro il patrimonio, una serie di furti, tentati o realizzati, e poco altro. E’ lui che segue il capo, già identificato che, armato di pistola, si alza dagli ultimi sedili del Mercedes e dice - in perfetto italiano - all’autista Andrea Patrone: «Sai che c’è? Che fai un’inversione e te ne vai verso lo svincolo dell’autostrada, verso l’A26». Magari aveva visto un film su un dirottamento. Spiega convinto che la meta è Milano che «se stanno calmi, nessuno si farà del male. Questa è un’azione dimostrativa». Ma dimostrativa di che? L’altro che resiste, che tenta di convincerlo a lasciar perdere. Così quello spara un colpo di pistola. Doveva essere il cammeo di una modesta vita criminale, comunque qualcosa di serio. E’ lui che urla, che fa il matto, che minaccia di uccidere, di incendiare il pullman con gli ostaggi. Che si aggira tra i sedili e dà l’ordine di legare con il nastro isolante gli uomini e le donne, dopo avere abbassato le tendine. Gli altri due gli danno una mano. Più silenziosi, e altrettanto fuori di testa.

Il tizio con la pistola spara una, due, tre, quattro volte. Ha gli occhi con le pupille dilatate. Sembra in preda a una frenesia artificiale. Ad Alessandria, a quanto pare, lo conoscono appena. Un anno fa era stato denunciato per un furto in un market. Dei tre, il più deciso a realizzare il piano, ambizioso e clamoroso, «di cui avrebbero parlato tutti». No, non c’era nessuna possibilità, neppure una su un milione, di portare a termine l’impresa con successo. Il vicecapo della mobile di Torino, Marco Martino, e il capo della mobile di Novara, Alfonso Iadevaia, a tarda notte cercavano di capire qual’era davvero il loro piano. Così semplice, così folle. Nelle perquisizioni in casa dei tre albanesi sono stati anche trovati libri di sette sataniche.

 
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