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Thelonious Monk, storia di un genio americano - Robert D.G. Kelley

Post n°237 pubblicato il 09 Ottobre 2012 da syd_curtis
 

 

Thelonious Monk

 

Robert D.G. Kelley
Thelonious Monk, Storia di un genio americano

Minimum Fax 2012 - Traduzione di Marco Bertoli


Il Libro(ne) è controverso, quantomeno. Dell'autore, emerito professore di storia americana presso la UCLA, si può dire, a voce piuttosto alta, che non ha il dono della sintesi. Decisamente. La vita di Thelonious Monk finisce sepolta sotto pagine e pagine (e pagine) di concerti descritti minuziosamente _ la sua agenda musicale (le scritture occasionali nei club, poi quelle settimanali, mensili, plurimensili, eccetera) riportata quasi integralmente _, elenchi interminabili di musicisti coi quali collabora, ampii stralci di recensioni, una pletora di personaggi più o meno noti che attraversano la scena come lampi e subito si dimenticano, eccetera. Ottocento pagine di biografia sono una scelta feroce, che diamine. Nell'impeto enciclopedico che lo attraversa, Kelley stabilisce due record (credo) mondiali. Il primo, le note a margine, riportate a fondo libro: duecento pagine. Una cosa del genere si può perdonare solo a DF Wallace (che ha fatto di peggio, in realtà); confesso di averle saltate a piedi uniti.
Il secondo, i ringraziamenti: dieci (dico dieci) pagine finali zeppe di nomi.
Siamo di fronte a un mammuth. Kelley ha impiegato dieci anni, dice, per scriverlo e pare che lo abbiano pure dovuto limitare: voleva farne due volumi. Capirete come la pazienza del lettore, pure ben disposto e appassionato di Monk e di jazz, sia messa sovente a durissima prova, quando non vinta da un tedio insopportabile.

A voler eccedere in interpretazioni, si potrebbe dire che il tentativo di Kelley sia stato rendere il flusso stesso della vita, di qualunque vita, che resta per ognuno, povero o ricco, famoso o anonimo, pianista di genio o elettrauto, in gran parte noioso, pedante, privo di senso. Questo grumone di vita viene ripercorso in lungo e in largo e in rigorosissimo ordine cronologico. Le prime trecento pagine raccontano il periodo di non fama, le frustrazioni, la miseria, le stroncature, i mancati riconoscimenti. Le seguenti narrano la fama tardiva, i dischi Columbia e gli anticipi sostanziosi (si fa per dire), i lunghissimi tour mondiali, i riconoscimenti, l'assedio dei fans e dei giornalisti, eccetera. E' un grumone inestricabile e schizofrenico in cui si alternano, spesso nella stessa pagina, momenti buoni, allegri, giocosi e altri terribili; concerti riusciti bene e altri andati desolatamente in malora; dischi osannati e stroncature, articoli di giornali lodanti e altri irriverenti, momenti di forma fisica e morale buona e altri di cadute nel disagio della malattia.
E' un'altalena emotiva continua, che pare sopraffare il protagonista e con lui il lettore. Del resto, ciò che ci ammazza è vivere, mica altro. L'esistenza è un insieme di parti tediose, intervallate da rari momenti di gaudio. Kelley tenta, forse inconsapevolmente, di restituirci questa consapevolezza. Può starci? Non so.

La narrazione è in gran parte appiattita sulla cronaca spicciola, minutissima. Scelta che si riflette di conseguenza anche sullo stile, che è sovente arido, professorale. Per dirne una, ai concerti, a gran parte dei concerti, segue una sorta di rassegna stampa. Persino delle poche date milanesi (!) di metà degli anni sessanta, Kelley ci restituisce le opinioni dei critici. Un lavoro immane, per dio, ma davvero necessario? Queste sono cose che probabilmente mandano in visibilo i fans e i feticisti, ma per un lettore normale restano pesanti come pietre tombali.

Tutto da buttare, insomma? No, per niente. Sfrondato di alcune centinaia di pagine (dici poco), il libro è pure appassionante. Appassiona dove Kelley avvicina di più la lente a Monk persona, sollevandola dai trafiletti dei giornali, e ci racconta le sue contraddizioni; dove riesce a intrecciare la vicenda privata con la storia di un paese splendido e terribile come gli Stati Uniti. Sono gli anni delle lotte dei neri per i diritti civili, contro la segregazione razziale, negata per legge ma radicata nell'esperienza quotidiana; gli anni delle rivolte nei ghetti, dell'orribile omicidio di Emmett Till, degli omicidi di Luther King e Malcom X.
Si tenga conto che Monk stesso, in più di una occasione, provò sulla propria pelle il peso della discriminazione. Si prenda a esempio la famigerata Cabaret Card, una carta (lascito del proibizionismo e abolita solo nel 1967) che sostanzialmente permetteva ai musicisti di New York di lavorare nei locali in cui si servivano anche bevande alcoliche (quasi tutti). Monk ne fu privato più di una volta, in un caso per motivi dichiaratamente discriminatori: entrato a chiedere un bicchier d'acqua in un hotel del Delaware, Stato profondamente segregazionista, rivolse la parola a una donna bianca. La donna chiamò la polizia, ne nacque un parapiglia, che costò a Monk una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale. Sulla cabaret card si potrebbe scrivere veramente una storia parallela del jazz (si veda qui, tanto per fare un esempio).
In certe parti, il racconto di Kelley sembra farsi descrizione della lotta, disperata, faticosissima, dell'individuo contro i soprusi della comunità a cui appartiene. Può la società, attraverso i suoi organi di repressione, privarti arbitrariamente della libertà, costringerti a cure coatte, impedirti di lavorare, per comportamenti privati, l'assunzione di droghe nel caso di Monk, che non sono pericolosi per gli altri? Parole amarissime sono spese da Monk, in alcune interviste, per descrivere i metodi abbietti della Polizia americana.

La storia di Thelonious Monk è quella di un genio complicato e difficile, le cui tappe fondamentali sono credo note ai più. Dagli anni Trenta-Quaranta del Minton's Playhouse a Harlem, in cui è tra gli inventori del bebop, sino ai riconoscimenti tardivi degli anni Cinquanta. Il progressivo cadere nel disagio mentale, che si fa negli ultimi anni vera e propria malattia. La relazione amorosa con Nellie, sua moglie, la donna della vita, compagna e manager instancabile; l'amore per la famiglia e per i figli. Il  rapporto tormentato con le droghe e i farmaci; il progressivo ritirarsi in un limbo privo di sussulti, riproposta nei concerti e nei dischi degli stessi noti e vecchi standard, via via sempre più scontati. Ritiro dalle scene pressoché totale negli ultimi anni prima della morte (è morto di ictus nel 1982, a sessantacinque anni).
Intorno a lui sfila la generazione dei jazzisti perduti, tossicomani e alcolisti, da Bud Powell a Charlie Parker, da John Coltrane a Billie Holiday. Kelley sfiora soltanto, per scelta, il rapporto di Monk con le droghe. Si tiene anche lontano dal gossip che lo racconta attraverso le sue presunte bizzarrie, da sempre usate per rendere del personaggio una descrizione stereotipata. L'assunto dell'autore è: altro che bizzarrie, non erano che il segno di un progressivo manifestarsi del disturbo bipolare di cui Monk aveva sempre sofferto, aggravato da uno stile di vita spesso al limite del praticabile e dalla somministrazione di farmaci sbagliati.

Un ultimo rilievo. Non per voler male a Kelley, ma manca tre le altre cose un quadro d'insieme sul significato dell'espressione artistica dei musicisti che circondavano Monk. Si prenda a esempio Gillespie e Parker, tanto per dire due figure notissime. Monk per così dire li considerava rivali, nemici. E' ripetuto più e più volte il suo borbottio: il bebop l'ho inventato io, ma per interi decenni i meriti se li sono presi loro (per certi versi innegabile, sia chiaro). L'autore avalla sostanzialmente questa tesi (la partigianeria di Kelley è un elemento che fa capolino spesso, a volte in modo fastidioso), ripetuta sino alla nausea. Ma dov'è il senso della grandezza di Gillespie e Parker, dove resta sepolto, forse sotto la coperta pesante di tutti quei dati non richiesti?

Un altro affaruccio che rimane in sospeso, solo accennato e rinchiuso in un cantuccio, è il rapporto con il mondo della musica pop-rock, che a partire dai Cinquanta e soprattutto Sessanta sottrarrà sempre più spazio e ascoltatori ai musicisti jazz. Nei Sessanta a Monk capiterà più di una volta di aprire come gruppo di spalla per musicisti rock all'apice della fama.

Un biografo, un giornalista, un narratore, dovrebbe cercare di restituire un senso a ciò che racconta. Torniamo alla sintesi, necessaria, di cui si diceva all'inizio. Alfred Hitchcock, in un bon mot parecchio famoso, si espresse così, grossomodo: il cinema è la vita senza le parti noiose. Hitch faceva il lavoro sporco per conto nostro, mondava l'esistenza dal tedio e ci restituiva filmetti piacevoli, che dicevano della vita cose che magari i professori emeriti faticano a dirci, quando ci si mettono coi loro cavilli.

Nel video che segue, uno stralcio da un'esibizione danese del 1966. La formazione a quattro è quella classica di quegli anni, con l'amato Charlie Rouse al sax tenore, Larry Gales al contrabbasso e Ben Riley alla batteria. Se avrete la pazienza di aspettare sino al minuto 3:10, vedrete Monk alzarsi dal piano e improvvisare una delle sue danze al ralentì, per le quali andava famoso.



 
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