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L'ultima città sovietica

Post n°2173 pubblicato il 03 Maggio 2017 da namy0000
 

“L’ultima città sovietica. Tra le strade di Slavutyč, la città dell’Ucraina costruita dopo il disastro di Černobyl da un gruppo di architetti di otto repubbliche sovietiche. Nella principale scuola media di Slavutyč, una cittadina di 25.000 abitanti fondata nel 1986 nel nord dell’Ucraina, c’è un grande murale che racconta una strana storia di tecnologia, rivoluzione e progresso. Un Neandertal gioca con il cubo di Rubik; dei monaci bizantini portano il cristianesimo nell’antica Rus; le guardie rosse prendono d’assalto il Palazzo d’inverno; un radioso Jurij Gagarin in tuta spaziale emerge dal paracadute come la Venere di Botticelli. Al centro del murale, una ragazza bionda in pantaloncini scappa da una centrale nucleare che sta esplodendo, mentre degli uomini in tuta protettiva cercano di fermare la deflagrazione. È il mito fondante dell’ultima città dell’Unione Sovietica, costruita con l’obiettivo di ridare una casa a chi l’aveva persa durante l’evacuazione di Pripjat, la città satellite della centrale nucleare di Černobyl. La fondazione di Slavutyč fu una dimostrazione straordinaria di internazionalismo sovietico: la città non fu progettata secondo gli standard di Mosca, ma pensata da architetti di otto repubbliche sovietiche: Estonia, Lettonia, Lituania, Russia, Azerbaigian, Armenia, Georgia e Ucraina… Una risposta alla fede perduta, dopo il disastro nucleare, nel progresso, nella tecnologia e nel socialismo. Questa perdita era stata un durissimo colpo per molti cittadini sovietici colpiti dalla tragedia o coinvolti nelle iniziative umanitarie per alleviarne l’impatto. In Preghiera per Černobyl (Edizioni e/o 2015) di Svetlana Aleksievič, premio Nobel per la letteratura, un operaio racconta che perfino i robot, inviati per riparare il reattore, considerato pericoloso anche per chi indossava le tute protettive, alla fine avevano ceduto: ‹‹I nostri robot, progettati per l’esplorazione di Marte››. L’allora capo locale del partito, che in seguito sarebbe diventato il sindaco di Slavutyč, racconta: ‹‹Sulla scrivania avevo decine di lettere di persone che chiedevano di essere mandate a Černobyl come volontari. Posso assicurarvi che allora esisteva davvero un cittadino sovietico, con una personalità sovietica››. Quando poi centinaia di volontari si ammalarono e morirono per le radiazioni, questo entusiasmo sembrò incomprensibile. Un ingegnere nucleare bielorusso coinvolto nell’opera di bonifica racconta ad Aleksievič: ‹‹Non mi ricordo di nessuno dei nostri colleghi che si sia rifiutato di andare a lavorare nell’area colpita. Non perché avessero paura di essere espulsi dal partito, ma perché avevano fede nel fatto che vivevamo in un mondo buono e giusto, che per noi l’uomo era la cosa più alta, la misura di tutte le cose. Il crollo di questa fede ha portato molte persone al suicidio››. Slavutyč è stata il tentativo di alleviare quel trauma, una città che doveva rinnovare quella fede in un mondo diverso, attraverso un socialismo ambientalista, umanista, internazionalista, contrapposto a quello tecnocratico e omologato rappresentato da Pripjat… Tutto questo però, non è stato il frutto di cambiamenti pacifici nel modo di pensare e progettare dei sovietici, ma il prodotto affrettato di una catastrofe sconvolgente. Come racconta un volontario a Svetlana Aleksievič: ‹‹Non chiamatele “le meraviglie dell’eroismo sovietico” quando ne scrivete. Queste meraviglie esistevano davvero. Prima però ci sono state l’incompetenza e la negligenza, poi sono arrivate le meraviglie: coprire le feritoie, buttarsi davanti alle mitragliatrici. Quegli ordini non avrebbero mai dovuto essere dati, non avrebbe dovuto essercene bisogno››. C’è voluto il più orribile disastro nucleare della storia per convincere gli architetti e gli urbanisti sovietici a tentare per l’ultima volta di progettare una città ideale” (Owen Hatherley, New Humanist, Regno Unito, Internazionale n. 1201 del 21 aprile 2017).

 
 
 

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