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Messaggi del 07/11/2017

L'uomo che presta

Post n°2403 pubblicato il 07 Novembre 2017 da namy0000
 

Franco Pagetti, l’uomo che presta i suoi occhi al mondo

 

Novembre 7, 2017 Caterina Giojelli

Sui pick-up con i talebani, con i marines a Fallujah, dietro le tende cucite dalle donne di Aleppo. Così Franco Pagetti ha catturato lo sguardo dell’umanità attraversata da confini visibili e invisibili.

«Avevo scattato per giorni. Uomini col kalashnikov, solo uomini che sparavano. Non ne potevo più di tutti quei cadaveri a terra, esplosioni, sangue, dolore. Sono stato in oltre cento paesi e in 80 di questi ho fotografato uomini col fucile: non erano diverse le tonnellate di foto che stavo scattando in Siria inviato dal Time. Poi, passandole in rassegna, mi sono accorto di una cosa. Le tende: Aleppo era dominata da pezzi di stoffa». È il febbraio dei 2013 quando il fotogiornalista Franco Pagetti chiede ai ribelli cosa sono quei drappi colorati e leggeri attaccati a mo’ di sipario tra i palazzi distrutti. «Sono tende, mi rispondono. Sì lo so che sono tende, incalzo, ma chi le fa, chi le ha attaccate in mezzo alla città? E mi viene raccontata questa storia – spiega a Tempi Pagetti –. “Le cuciono insieme le nostri madri, figlie e fidanzate. Servono a impedire la vista dalla strada e proteggerci dai cecchini mentre ci muoviamo per la città fantasma”. Ho capito allora che avevo in mano qualcosa di straordinario da documentare. Un gesto di amore, in quel teatro di morte: donne che danno la vita, che custodiscono la speranza di un futuro con i loro uomini e che cercano di mettere qualcosa tra loro e una pallottola».

Pagetti, uno dei fotogiornalisti più stimati e apprezzati al mondo,  i confini li ha attraversati. Davvero. «Nel giugno del 2001, tre mesi prima dell’attentato alle Torri Gemelle, mi trovavo a casa di Alberto Cairo: vive a Kabul dal 1990 dove dirige il programma ortopedico della Croce Rossa internazionale. Gli chiedo di aiutarmi, voglio documentare l’Afghanistan girando con i talebani. Qualche giorno dopo vengo ricevuto da un signore che vive in una casa circondata da pick-up pieni di guerriglieri armati fino ai denti. Scoprirò che si tratta del viceministro degli Interni dei talebani. Mi chiede cosa voglio, dice che non si possono scattare fotografie a Kabul. “Se lei vuole si può fare”, gli rispondo. Venni caricato sui pick-up. Per tre giorni mi fu concesso di scattare per la città con i signori del terrore, che arrestavano la gente con la barba troppo corta, frustavano le donne se facevano rumore con le scarpe sul marciapiede. Non comunicavamo, al mio “stop” si fermavano, “go” e si ripartiva. Li sentii parlare una volta sola. Una pattuglia di talebani si fermò per arrestarmi. I miei “autisti” erano vestiti di nero, di rango più alto. Dissero loro di lasciarmi fare o se la sarebbero vista col ministero degli Interni».

Pagetti ha la forza del soldato e l’intuizione del giornalista. Il 13 gennaio 2003, mentre gli altri cronisti si affollano in Kuwait, lui parte per l’Iraq, certo che sarebbe accaduto qualcosa. Ci rimane per sette anni, riesce a farsi capire e rispettare da soldati e ribelli. «I marines mi scortavano e mi mollavano tra gli insorti senza chiedermi nulla di loro o di cosa avessi visto, gli insorti facevano la stessa cosa». Pagetti realizza il primo fotoreportage che documenta l’altra faccia della lotta perenne tra sciiti e sunniti, li osserva pregare, gli sciiti con le mani racchiuse sotto il petto, i sunniti distesi lungo il busto, ricostruisce il passato comune di cui fanno entrambi parte. Conosce e rende protagonisti dei suoi scatti iracheni come Tariq Subhi Majeed, sunnita, maggiore dell’esercito durante il regime di Saddam Hussein: dopo che il commissario americano Bremer ha iniziato una delle più nefaste campagne di allontanamento dei sunniti dai centri di potere, la pensione per i suoi anni di guerra contro l’Iran non gli è più stata pagata; o Zainab Jalal Ahmed al-Snawi, sunnita, insegnante che vive ad Adhamiyah, uno dei quartieri di Baghdad dove è maggiore la presenza di Al Qaeda; o Mahmoud Kalil Ibrahim, camionista disoccupato poiché, a causa del nome tipicamente sunnita, è troppo pericoloso per lui viaggiare per il paese; o Sahar Ashour Nema, il cui marito è stato sequestrato e decapitato dalla guerriglia sunnita.

E conosce i marines, il volto che gli torna in mente più spesso appartiene a uno di loro. «Ci preparavamo all’atroce battaglia di Fallujah. Una sera in accampamento mi imbatto in questo gigante di origine cinese, un soldato enorme, fortissimo. Mi racconta che è di Los Angeles, ha due fratelli in carcere, uno nelle gang e una sorella tossicodipendente. La sua famiglia non aveva i mezzi per assicurargli un futuro diverso, così, per non diventare come loro, era entrato nei marines. “Sono loro la mia famiglia”, mi dice commosso. Quando si parte per Fallujah si offre di portare lui la mia acqua e le razioni militari. Partecipammo al più devastante conflitto della storia irachena. Una sera, di ritorno in una delle zone “liberate” non vidi la sua enorme figura aggirarsi per il campo. Al suo posto c’era una croce di legno col suo elmetto».

C’è un unico confine per Pagetti sacro e inviolabile, un limite all’orrore che si può documentare. A differenza di altri, «io non fotografo bambini in agonia, non fotografo feriti sbudellati in punto di morte. Non faccio del dolore e dell’innocenza carne da macello, il mio è uno sguardo agnostico sul mondo: ho visto morire centinaia e centinaia di persone, presto i miei occhi a chi non può vedere cosa sta accadendo, senza strumentalizzazioni. E c’è un momento in cui ci si deve fermare». Pagetti cattura lo sguardo dei vivi, quello ora fiero ora disperato degli abitanti del quartiere di Sadr City a Baghdad, dove riesce a entrare nonostante sia proibito agli stranieri; quello  dei militari americani, dei ragazzi-soldato della Sierra Leone, dei giovani delle primavere arabe, dei camionisti indiani e pakistani su vie impervie a tremila metri di altezza. A servizio di testate internazionali, come The New York Times, Newsweek, Time, The New Yorker, Stern, Le Figaro, dall’Afghanistan al Kosovo, da Timor Est al Kashmir, Palestina, Sierra Leone, Sudan del Sud, Cambogia, Laos, Arabia Saudita, Indonesia, Franco Pagetti racconta il mondo, in lungo e in largo. La sua prospettiva unica lo ha reso protagonista del film-documentario Shooting War di Aeyliya Husain, presentato a New York al Tribeca Film Festival del 2017 (in Italia in anteprima nazionale al Torino Film Festival e al Cmc).

Eppure non è sempre stato così, negli anni 80 le sue foto erano sinonimo di fashion, era “il fotografo di Vogue”. «Ma quel mondo non mi gratificava più. Nell’88 realizzai un fotoreportage sulle donne torturate dal regime cileno, ho lavorato con moda e pubblicità fino all’agosto 1998, quando in Sud Sudan ho capito che il fotogiornalismo era la mia strada». La moda l’ha rincontrata solo dopo molti anni, quando per Dolce & Gabbana ha firmato campagne che hanno stupito le più grandi testate giornalistiche, come quando ha sguinzagliato modelle e modelli a spasso per Napoli, tra scooter, bar, pizze, ambulanti senza set, senza allestimenti. Una cosa diversa e ancora non vista, ma che Pagetti aveva intuito prima di tutti. Proprio come in guerra.

«Io sono un figlio del ’68, vengo da una famiglia semplice della bassa padana trasferita a Varese, mamma, due sorelle, papà è morto che avevo cinque anni. Mi iscrissi alla facoltà di Chimica a Milano e le contestazioni furono la mia scuola. Mi hanno forgiato, resto una persona con un brutto carattere e un po’ sovversiva». Sorride, Pagetti, pensando all’unica persona che ha saputo prenderlo per il verso giusto, «mia moglie Gloria, nomen omen, una santa. Prima di ogni viaggio passo due giorni a fare la rassegna delle attrezzature, sono intrattabile e lei sa che deve tenersi alla larga. Ma poi quando fischiano i proiettili dietro le orecchie e schizza sangue da tutte le parti penso solo a lei, alla sua faccia. A quel volto che mi dice di tornare». Porta una sua foto con sé? «Che sciocchezza, portarla in guerra. C’era un capitano di fanteria americano ad Abu Ghraib che aveva incollato la foto di moglie e figli sul giubbotto antiproiettile all’altezza del cuore. Gli ho detto, “bravo, così se ti colpiscono proprio qui ti ammazzano due volte, mica puoi trattare i tuoi cari come talismani”. Poco dopo l’ha levata».

(Gli scatti realizzati per Time sono oggi in Italia, e sono parte della ricca selezione del Centro Culturale di Milano che ospita fino al 21 dicembre la mostra “Franco Pagetti – Tutti i confini ci attraversano”. Eppure il termine “mostra” non rende lo straordinario incontro offerto al pubblico con uno dei fotogiornalisti più stimati e apprezzati al mondo; ideata da Camillo Fornasieri e curata da Enrica Viganò, fondatrice di MIA Milan Image Art, la mostra offre infatti una testimonianza potente dell’umanità arrampicata, spezzata, attraversata dai confini, siano essi visibili o invisibili, come le frontiere di filo spinato sulle alture del Golan, le peace-line irlandesi, le alte barriere israeliane, i muri afghani, le separazioni tra quartieri sciiti e sunniti a Baghdad).

 
 
 

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