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« Ansie classiche. Con ris...Volere è nuotare »

L’antico richiamo dell’audace raccoglitore di bacche. Ovvero di spine, rovi, ostacoli e altre soddisfazioni

Post n°448 pubblicato il 19 Settembre 2016 da viburnorosso

L’ultima settimana d’agosto o la prima di settembre, a volte qualche giorno prima, a volte qualche giorno dopo, si raccolgono le more per farci la marmellata. Quello è il segnale che un periodo si è compiuto, che di per sé non è una cosa né bella, né brutta, se non ci si fa prendere dallo sconforto della ciclicità delle stagioni che si srotola sull’inesorabile, e spesso inconcludente, procedere della nostra esistenza. Ma son dettagli che conviene tralasciare.

Meglio pensare che sia solo un passaggio: vuole dire che si finiscono i bagni al lago e si inizia con i fichi settembrini e le nocchie, e che i trattori usciranno dai recinti per la raccolta lasciandosi appresso nuvole di terra e impronte di argilla e cingolato sulla strada. 

Allora bisognerà ricordarsi di ritirare presto i panni stesi ad asciugare sul filo nel vicolo per non farli impolverare. Sempre che non piova, come oggi, che allora è meglio non stenderli proprio.

Poi ci saranno i funghi, e se si è fortunati usciranno anche gli ovoli, che da fare in insalata con le scaglie di parmigiano sono una delizia, e poi le castagne e allora accenderanno il grande braciere in piazza. 
Ma a quel punto sarà già quasi novembre, e conviene fermarsi perché a scorrere il calendario mentale, scartando giorni feriali e noie varie, si finisce, di un anno, col salvare solo pochi istanti significativi.

Le more dunque sono la fine dell’estate. Le more e la marmellata. 
Che poi, la marmellata di more più che un rito è un calvario:  50% frutta, il resto è sangue, sudore e spine. 
Di solito funziona così: se esci di casa preparato - cioè con le scarpe adatte, le gambe coperte, il bastone per abbassare i rami più alti e un secchio capiente - puoi star certo che le more saranno ancora tutte rosse.

E qui apro una parentesi: secondo me le more rosse sono la metafora esatta della delusione: a vederle sono bellissime e invece sono aspre che allappano, piene di semi duri che ti si incastrano tra i denti. Ecco, se dovessi spiegare a mio figlio cos’è un’attesa tradita gli direi che è una mora rossa. Chiusa parentesi.

Dunque, dicevo, che se esci con l'idea di fare raccolta, è matematico che non trovi un cavolo, ma se invece quell'idea non l'hai messa in conto, e per giunta porti un vestitino leggero che lascia le gambe e le braccia scoperte, e in macchina hai solo un sacchetto biodegradabile della spesa, allora le siepi saranno cariche di frutti neri a perdita d’occhio.

Io questa cosa che ci sono le more mature e uno ci passa accanto senza raccoglierle, proprio non riesco a sopportarla, non ce la faccio, sento come il richiamo ancestrale del raccoglitore di bacche primitivo che mi impone di fermarmi, così butto un occhio allo specchietto retrovisore e cerco il momento propizio per accostare la macchina evitando di finire con le ruote nella cunetta nascosta dai rovi.

E lì comincia il calvario che vi dicevo: i rami più carichi come sempre sono quelli più in alto, sembrano lì ad un passo, ma i passi invece sono due e non li raggiungi manco se ti tiri su sulle punte dei piedi e fai gli esercizi di stretching che trovi sul giornaletto della salute che vendono allegato a quello dei programmi tv. 
Se poi a costo di strappi e ferite riesci ad assicurarti un bottino, allora il sacchetto di merdosissimo mater-bi compostabile si lacererà in due nel bel mezzo del raccolto oppure il vestitino svolazzoso si impiglierà ad un rovo, costringendoti ad acrobatici riavvolgimenti per sfilare le spine, perché l’unico modo per liberarti è di ripetere esattamente al contrario l’ultimo movimento fatto, come nel rewind di una videocassetta (che come oggetto in sé già la dice lunga sull'obsolescenza di tutta questa pratica, visto che la marmellata di more la potresti comprare già bella che fatta al Lidl per un euro e spicci).

Oltre alle more, poi, correrai il rischio di raccogliere cimici grigie, grandi mangiatrici di questi frutti, oppure di finire impigliato nella tela di un ragno gigante e pelosi della Tuscia, o magari di ritrovarti addosso una bella zecca, e non lo dico per far sembrare l’impresa più epica, ma solo perché due anni fa mi è successo veramente, e poi ho passato tre ore a cercare di soffocarla nell’olio, come mi aveva suggerito il farmacista pavido che non voleva levarmela, e altre tre a guardare tutorial su internet su come si stacca una zecca morta soffocata nell’olio (scoprendo l'esistenza di due contrapposte scuole di pensiero:  quelli che la zecca la si affoga nell’olio e quelli che la si dissecca nell’alcol).

Ora poniamo che tutti questi ostacoli siano stati aggirati, ecco che tornati a casa inizia la parte più amara dell'impresa, a sottolinearne la totale assurdità, semmai fosse rimasto qualche dubbio a riguardo.
Amara perché per fare la marmellata di more non basta tanto zucchero, che pesi la frutta e ne aggiungi per metà più un altro bel po’, a occhio, e poi metti lì a bollire ricordandoti giusto ogni tanto di dare una girata. 
No! Col cavolo! La marmellata di more va passata col passapomodoro a maglie strette, e poi ripassata ancora, e talvolta anche filtrata col colino. 
Che se hai raccolto un chilo di more, in pratica ci fai sì e no un barattolino delle dimensioni di quelli per la salsa tartufata, solo infinitamente più costoso.

Che allora viene da dire: ma che cavolo la fai a fare 'sta marmellata di more?
Ecco, infatti, me lo chiedevo pure io mentre la giravo l’altro giorno. 
La risposta esatta non so darmela, però deve essere qualcosa che ha che fare con l’ostinazione, gli ostacoli e il loro superamento. 
In quale ordine e proporzione non è rilevante, perché tanto sono ingredienti che se li mescoli bene, ne esce comunque un bel po’ di soddisfazione.  

 

Da assaporare insieme ad una fetta di pane con uno generoso strato di burro e marmellata di more. 
 
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