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Messaggi di Settembre 2015

La MB. Ovvero come non farsi trovare impreparati al proprio incontro col destino

Post n°428 pubblicato il 27 Settembre 2015 da viburnorosso

Ieri, anzi no, l’altroieri è esplosa la metro su cui viaggiavo. La B, ovviamente.

 

Cioè, non è che sia proprio esplosa, sennò non stavo qui a raccontarvelo, però quasi. Mi spiego, ad un certo punto del viaggio, di sicuro dopo santa Maria del Soccorso ma prima di  Tiburtina, in un momento qualunque della prima mattinata che  però già si avviava con certezza verso il ritardo, all’improvviso si sente come un botto, ad essere più precisi uno scoppio,  il treno arresta la sua corsa e per il vagone si spande un’inequivocabile puzza di bruciato.

Esplosione-incendio-fine- è stata la rapida sequenza che mi è passata per la mente.

Un lunghissimo istante dilatato dalla ritmica dei tamburi del mio cuore: il tempo di realizzare che alla puzza non seguivano le fiamme, e che sì, eravamo fermi in galleria, ma eravamo ancora tutti vivi e vegeti.
Poco dopo una voce dall’altoparlante ha annunciato che si era rotto un compressore e che presto avrebbero accoppiato una vettura per tirarci fuori.
Ha proprio così ha detto:  compressore e accoppiare.

Ora sono pressoché sicura che quasi nessuno dei presenti sapesse esattamente cos’è un compressore e come si faccia ad accoppiare un treno, però ci deve essere sembrato un argomento rassicurante, perché siamo rimasti tutti zitti, buoni e rassegnati per almeno 40 minuti: tanto è durato il tempo di attesa del veicolo venuto ad accoppiarci. E nel frattempo, va detto, non si è verificata nessuna crisi isterica e nessuna scena di panico. Come se fosse cosa normale che il compressore che uno non sa cos’è ogni tanto ogni tanto possa scoppiare.

Eppure lo giuro che per un istante ho veramente pensato che non ce l’avrei fatta. E in quell’istante sono riuscita a farci stare dentro tutta una serie di ragionamenti, tipo che avevo paura, ma neanche più di tanto, ma che però oggettivamente di morire in quel modo mi rodeva abbastanza il culo, ma mica per me, che tanto poi da defunti non ci si può mica compiangere, ma per mio figlio, che era impreparato a tale precoce orfananza, e mi sono pure chiesta se non era il caso di mandargli un uozzap per avvertirlo, però poi mi sono ricordata che a scuola il cellulare glielo fanno tenere spento e che quindi era inutile.

Poi il pensiero si è concentrato sul fatto che se proprio dovevo morire, avrei preferito farlo a valle di una soddisfazione, che poi è il ragionamento che faccio sempre quando prendo l’aereo per andare in vacanza: penso che se sopravvivo al viaggio di andata e riesco a farmi le ferie, posso accettare più serenamente di schiantarmi nel viaggio di ritorno, mentre invece morire all’andata sarebbe una fregatura totale, soprattutto se si considera che ho già mandato l’anticipo a quello dell’albergo. Questo ragionamento di solito mi dispone positivamente sulla via del ritorno e mi distrae dalla paura che immancabilmente mi prende al momento del decollo. Per la paura all’andata, invece, non ho ancora escogitato nessuna strategia motivazionale, quindi non resta che incrociare le dita.

L’altra mattina, però, di attenuanti al prematuro decesso non sono riuscita a trovarne manco una, perché non solo sarei morta giovane e di prima mattina, ma per giunta a stomaco vuoto, sulla via di un’inutile riunione di lavoro e con uno yogurt magro per pranzo dentro alla borsetta.

 

È stato lì che ho capito che non poteva essere il mio momento: una scena troppo triste per girarci un finale.
E ho anche pensato che all’appuntamento col proprio destino bisogna arrivarci un minimo preparati, almeno con una carbonara nello stomaco.
Preferibilmente quella del Ponticello.
Che tanto per arrivarci non serve la Metro B. 

 
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via Cupa

Post n°427 pubblicato il 14 Settembre 2015 da viburnorosso

L’altro giorno io e il Gufetto siamo andati a via Cupa.
A Via Cupa c’è il Baobab, un centro di prima accoglienza per rifugiati gestito direttamente da immigrati, che da giugno, dopo gli sgomberi dal piazzale della stazione Tiburtina, si è ritrovato con un numero di ospiti triplicato rispetto alla sua capienza. Roba da 650-700 pasti al giorno, per capirci.

Se sei uno che gira in macchina, a via Cupa puoi finirci solo per sbaglio, perché è un vicolo imbucato tra il Verano e la Stazione Tiburtina, su una strada che non porta da nessuna parte.

Se invece sei uno di quelli che girano a piedi, e per giunta scalzi, a via Cupa puoi finirci giusto per un miracolo, o qualcosa che gli somiglia, insomma. E allora meno male che esiste un posto così.

Io  e il Gufetto a Via Cupa ci siamo andati apposta. In macchina, che avevamo da scaricare delle buste di vestiti e uno scatolone con generi di prima necessità: succhi, sugo, patate, biscotti, roba da mangiare insomma, scelta un po’ a cavolo dagli scaffali di un supermercato leggendo dal telefonino una lista impossibile da completare.

A spesa fatta, il Gufetto mi ha fatto notare che avrei dovuto prendere anche un bustone di orsetti gommosi alla frutta, ma né a me, né ai volontari che avevano compilato quell’elenco infinito era venuto in mente: questo a dimostrare che il concetto di prima necessità è estremamente relativo, che i bisogni primari variano non solo per latitudine, ma anche per età, e che per il futuro non sarebbe male estendere la necessità oltre al bisogno, fino ad includerci dentro anche un po’ di piacere.

Che eravamo arrivati a via Cupa l’abbiamo capito subito, anche senza controllare sul navigatore: lasciamo la Tiburtina nel punto in cui i chioschi dei fiorai costeggiano il muro di cinta del cimitero e ci ritroviamo improvvisamente catapultati in una situazione piuttosto surreale, in mezzo a centinaia di persone dalla pelle scurissima, che sedute sui marciapiedi, o raggruppate in piccoli capannelli lungo i bordi della strada, aspettano che il tempo passi senza sapere quanto tempo li aspetterà.
Del resto sono migranti, in transito attraverso il nostro paese e per giunta sprovvisti di permesso di soggiorno, quindi non possono fare altro che attendere di rimettersi in viaggio per un altrove che spesso ignorano. Se sono fortunati, con un biglietto in tasca.

La prima impressione è stata di essere finiti in un non-luogo – un luogo cioè che non appartiene né alla nostra vita, né a loro, che non è né Italia, né Africa,  né casa, né galera – sospeso nel non-tempo di un’attesa infinita. Ho provato una sensazione di straniamento che ha preso addirittura la forma del disagio, quando con la macchina ho dovuto forzare il passaggio e farmi strada nel vicolo. Subito mi è salito un pensiero del tipo qua-io-non-c’entro-niente, giusto appena ricacciato in basso dal ragionamento che comunque ero lì con uno scopo ben preciso.

La seconda impressione, strettamente connessa alla prima, riguarda il modo in cui noi occidentali benestanti  – e  qui è irrilevante quanto benestanti, perché per i criteri di relatività di cui sopra siamo comunque tali – dicevo il modo in cui noi occidentali benestanti ci rappresentiamo il concetto di accoglienza, collegandolo in fondo a quello di gratitudine: io vengo qui, ti aiuto, non mi aspetto nulla, però tu mi ricambierai con quel sorriso, quella stretta di mano che mi faranno sentire tanto bene.

Ecco, questo è un ragionamento che va smontato sul nascere, perché implica senza volerlo la presunzione del benefattore.
Anche io ne sono stata tentata: mentre portavo lo scatolone con la spesa e gli abiti, cercavo di vincere il mio imbarazzo sorridendo timidamente a quelli che incrociavo e aspettandomi che loro facessero lo stesso con me, invece la maggior parte ha abbassato la testa o si è girata dall’altra parte, evitando di incrociare il mio sguardo.
Sulle loro facce non ho trovato sorrisi, ma piuttosto la paura di chi ha imparato a non fidarsi più di nessuno.
O quantomeno, una stanchezza tale che da non lasciar trapelare nessuna traccia di esplicita gratitudine.
Ovviamente questa cosa ti lascia spiazzato, perché non assomiglia neanche un po’ all’idea edulcorata di accoglienza che hai in testa.
Quindi molto meglio spogliarsi dei panni eticamente confortevoli del benefattore, per indossare quelli più anonimi del cittadino nell’esercizio dei suoi normali doveri di accoglienza: è l’unico modo per entrare in via Cupa, e in tutti gli altri posti che le somigliano, senza sentirsi troppo uno schifo.

Del resto, se è facile sapere di essere dalla parte giusta quando guardi i bimbi che giocano sorridenti nel cortile del Baobab sui tricicli scassati ricevuti in beneficienza, più difficile è provare la stessa sensazione appena varchi quei cancelli e ti ritrovi per strada tra le centinaia di quelli che aspettano, eternamente ai margini di qualcosa che sta lì ma non gli appartiene.

L’ultima considerazione va al Gufetto, che appariva evidentemente turbato.
“Non era come me l’aspettavo” – ha detto – “Il  fatto è che la televisione non ti fa vedere le cose per come sono veramente”.
Ecco, penso che per una generazione cresciuta dentro alla realtà virtuale un po’ di realtà brutale non può che far bene, anche per capire che fuori dagli schermi piatti, quando uno cade, non ha altre sei vite a sua disposizione e spesso manco si rialza. 

Insomma, ci torneremo.
Magari stavolta anche con un sacco grandi di orsetti gommosi gusto frutta.

 
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Il meritato riposo

Post n°426 pubblicato il 12 Settembre 2015 da viburnorosso

 

L’altra settimana il Gufetto si è finalmente deciso ad aprire la pratica “compiti delle vacanze”. Oggi l’ha archiviata. Cosa sia successo nel mentre lo ignoro. So solo che dallo sguardo trapelava una certa soddisfazione.

-          Ah, finalmente posso non fare nulla fino all’inizio della scuola!

-          E di grazia, cosa avresti fatto finora? dal dieci giugno a ieri l’altro, intendo!

-          Ero in vacanza, certo, ma mica me la sono tanto goduta: ero stressato dal pensiero dei compiti! Ora mi servirebbe proprio un po’ di riposo!

 
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Le polpette di renna. Ovvero come negare la teoria darwiniana dell’evoluzione della specie traendone una certa soddisfazione

Post n°425 pubblicato il 11 Settembre 2015 da viburnorosso

Prima mi ero giocata la carta di un avventuroso fine settimana al lago col suo amico del cuore: andiamo lì e ci divertiamo. Cioè, vi divertite. Ma l’amichetto non poteva. Allora ho alzato la posta aggiungendo qualche benefit accessorio, tipo ci gonfiamo il canotto per andare a largo e poi raccogliamo la menta lungo la strada così prepariamo il mojito prima di cena (tu con doppio ghiaccio, io con doppio rum), però ovviamente ero già pronta a cedere di fronte alla proposta di un torneo di calcetto a 4 squadre del tipo chi-vince-regna.

E invece lui mi ha detto (vado a capo che merita):

Mamma, ma io ho proprio voglia di stare qualche giorno da solo con te! Partiamo lo stesso.

E mentre ero lì che mi scioglievo ha aggiunto (questo non merita altrettanto, ma per coerenza grafica vado a capo lo stesso):

- Però mi porti a mangiare le polpette all’Ikea?

Sì, avete capito bene, non un gelato, non un bic mac, ma le polpette di renna surgelata affogate nella marmellata al ribes! Credo che a sedurlo sia la letale miscela dolce-salata di grassi idrogenati abbinata al confort del design scandinavo. Ne è financo un po’ cosciente – con tutti i pipponi che gli faccio sulle strategie di marketing delle multinazionali e i loro effetti sulla globalizzazione del gusto – però è qualcosa a cui non riesce a resistere:

- Mi piace tanto quel posto! - dice.

Ora tendo ad accontentarlo di rado, ma quando accade devo ammettere che non me ne pento. Sarà l’atmosfera di costruita ospitalità che induce ad una certa piacevolezza, fatto sta che per 4 euro e 90 ci compriamo la nostra mezzora di complicità e confidenze.
E chiacchiere a ruota libera.

- Mamma hai notato che mancano le parole per descrivere i sapori? Di una cosa puoi dire che è buona o cattiva, però questo non basta a far capire il sapore che senti in bocca.

- Beh, però ci sono anche parole come dolce, salato, aspro, amaro, e sicuramente qualcun’altra che non mi viene in mente.

- Sì, certo, ma non bastano. Per esempio se dico la coca-cola, come faccio a far capire a qualcuno che non l’ha mai bevuta che sa di coca-cola?

- In effetti… Puoi direi che è buona, dolce, fresca, frizzante, con un retorgusto acidulo… ma forse hai ragione, non è sufficiente!

- Esatto. Serve almeno una parola che ne descriva quel gusto… come dire… puntiglioso!?

- Puntiglioso? ma tu lo sai che vuol dire puntiglioso?

- Che ha le punte no?

- Ma no, si dice per indicare qualcuno che si impunta su tutto e non ti fa passare nessuna cosa.

- Proprio come la coca-cola! Hai fatto caso a come si impunta in bocca?

- Tu dici?

- Comunque mi piace molto parlare con te, capisci sempre quello che voglio dire…

- Diciamo che ci provo…

- Sei di sicuro la migliore mamma del mondo.

- Però ognuno dei tuoi amici direbbe la stessa cosa della propria mamma. E di mamma migliore non dovrebbe essercene una sola?

- Io penso che ogni bambino è geneticamente programmato per nascere dalla mamma che per lui è la migliore. Quindi è come dico io: tu sei stata assegnata a me perché tu per me sei la migliore.

- Biologicamente improbabile, e cronologicamente non sostenibile, però, va detto, molto molto persuasivo!
Posso fare la scarpetta con le tue patate fritte nella marmellata di ribes?

 
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Come blandire la propria coscienza e ritrovarsi a riflettere sugli effetti incontrollati della stupidità

Post n°424 pubblicato il 08 Settembre 2015 da viburnorosso

L’altra mattina mi sono ritrovata nella posta una di quelle petizioni del tipo “Firma per…” a cui segue la descrizione di una giusta, spesso giustissima, causa.

Prima le firme si raccoglievano per strada, con appositi banchetti; se si voleva sostenere una causa, toccava la noia di fermarsi e ascoltare, interrompendo magari la propria passeggiata o giro di compere, fermo restando che se non si incappava in uno dei suddetti banchetti, l’espressione della propria solidarietà diventava un atto deliberato che richiedeva tempo e partecipazione, e la volontà si sa che spesso fa i conti con una certa indolenza.
Da quando invece queste petizioni girano per la rete è tutto diventato molto più semplice. Basta cliccarci sopra per guadagnarsi immediatamente la gratificante sensazione di una solidarietà condivisa.

In un primo momento questa novità mi era sembrata esaltante – finalmente un uso intelligente dei social! come non averci pensato prima! - anche perché riusciva a mettere insieme capra o cavoli, ovvero tempo e coscienza, o indifferenza e solidarietà, insomma i due estremi tra cui oscilla la pigra coscienza civile di chi vuole esserci senza prendersi la briga di arrivarci. 

Il fatto è che di richieste come quella dell’altra mattina oramai me ne arrivano a decine, e così ad un certo punto, lo confesso, ho smesso di  leggerle, che insomma, le cause saranno pure giuste, se non giustissime, ma uno non può trovare sempre tempo ed empatia per tutto e tutti.

Alla fine ho un po’ come la sensazione che tutta questa sovraesposizione informativa abbia prodotto un qualunquismo se vogliamo ancora peggiore, in quanto non più motivato dall’ignoranza, ma dalla consapevolezza, dal momento che ora sai, mentre la cestini, che probabilmente stai ignorando una giusta, se non giustissima causa.

Vabbè, mi sono persa in un lungo preambolo, anche se in realtà non era esattamente di questo che volevo parlare. Cioè, non solo di questo.

L’altra mattina, dicevo, mi è arrivata questa petizione, e stavolta l’ho aperta senza indugi anche perché arrivava da una persona a cui tengo molto (e qui potrei spendere alcune parole sul fattore umano, ma giuro che non lo farò). La richiesta riguardava la proposta di assegnare il Nobel per la pace alla memoria di Khaled Asaad, l’ex direttore del sito archeologico di Palmira, barbaramente decapitato qualche giorno prima dell’inizio della sistematica distruzione del luogo di cui era stato studioso e custode.

Ovviamente non ci ho pensato sopra un attimo e ho subito firmato quella che mi è sembrata una giusta, giustissima causa tra le decine di altrettanto giuste, se non giustissime cause, che però, per i motivi che ho esposto sopra, non arrivano ad oltrepassare la soglia della mia attenzione.
Poi ho concluso l’operazione scegliendo dal mio elenco di contatti i nomi di quegli amici che sapevo già avrebbero condiviso l’appello, aggiungendo in calce una frase a giustificare la valenza quasi esclusivamente simbolica di quel gesto, perché in fondo, mi chiedevo, a cosa serve tutto questo? Che sia almeno per onorarne la memoria!
E così, mentre buttavo giù quella frase, mi sono ritrovata di nuovo a riflettere sul significato di questa parola.
E qui arriva la seconda parte del mio sconnesso ragionamento.

Quest’uomo, da quanto mi è dato di sapere, aveva dedicato gran parte della sua vita a conservare la Storia dell’antica civiltà di Palmira.
Se l’avessero lasciato assistere alla distruzione di quei reperti di cui cercava di tramandare la memoria, l’avrebbero privato della ragione stessa della sua esistenza, in pratica di tutto quello per cui era vissuto.
Un dolore dal quale probabilmente non sarebbe uscito vivo.
Senza contare che uccidere un uomo di 82 anni equivale solo a sollevare la biologia dal suo dovere.

Quindi, a conti fatti, la furia iconoclasta di chi cerca di cancellare la Storia, ha finito paradossalmente per offrire un servizio alla memoria.
E compiere, nella sua agghiacciante disumanità, un atto di involontaria misericordia. 

Quindi, ancora una volta, che senso ha tutto questo? 

 
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