2 passi tra le righe

Frasi rubate qua e là... di VILMA REMONDETTO

Creato da Vilma66 il 16/09/2012

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"Il cielo dopo di noi" di Silvia Zucca

Post n°55 pubblicato il 02 Marzo 2021 da Vilma66
 
Foto di Vilma66

Quant'è facile che le cose si rompano, anche quelle più solide, come l'amore di un padre.

Miranda - La sua impronta in questa casa è talmente palpabile da fare male. Le sue penne, le sue pipe, le sue stampe della caccia inglese. Si può esserci e non esserci così tanto nello stesso momento? Non ha portato niente con sè. In bagno ci sono il suo spazzolino, il suo dopobarba. Escludendo l'ipotesi peggiore, e cioè che gli sia successo qualcosa, mi viene da pensare che la decisione di andarsene l'abbia presa senza premeditazione. Quindi per scoprire il dove... forse bisogna solo capire il "perchè" lo ha fatto.

Miranda e Francesco - Siamo simili e opposti: lui è tornato, legato a doppia mandata alla famiglia, io sono scappata. Quale di queste due facce della stessa medaglia sia più felice, proprio non lo so. Sento il bisogno di abbracciarlo. C'è qualcosa di malinconico nella sua postura, una specie di stanca rassegnazione, di pazienza, di consapevolezza che solo lavorare la terra può darti. Sollevo gli occhi e sopra di noi c'è la stella polare. Penso che Francesco è proprio come lei, una stella fissa. Qualcosa di solido che affonda le radici nel terreno dei millenni e ti dà l'idea di riparo, di poterti sentire sempre al sicuro. E' questo il suo fascino.

Gemma - E quando fu fuori fece un respiro profondo, poi guardò il cielo, chiedendosi cosa sarebbe successo se gli avesse permesso di conoscerla davvero. Le stelle non si sarebbero mosse da sopra le loro teste, il cielo sarebbe rimasto uguale, anche dopo di loro, eppure tutto sarebbe invariabilmente cambiato. Chiuse gli occhi. E pensò a quello che voleva. Esprimi un desiderio Gemma. Tutto quello che vuoi.

Philip - "E mi sbagliavo anche sulla guerra, pensando che fosse qualcosa da fare, qualcosa cui dovevo passare in mezzo per ristabilire l'ordine. Non pensavo che fosse questo... Ora ho più l'impressione che la guerra sia una malattia, un contagio che non può mai guarire del tutto. E che la vita non sarà mai più la stessa. Non sono più il ragazzo pieno di ideali che si è arruolato senza dir niente a nessuno. E capisco che, nonostante i suoi sforzi, quel ragazzo era un irresponsabile, che non sapeva cosa stava facendo. Così anche se tornasi vivo da Yvonne, sarei comunque un impostore. Lei ha comunque perso suo marito". Lo capiva. Lei stessa non poteva più dire di essere quella di prima. Avevano conosciuto il fango e le loro anime non sarebbero mai tornatepulite.

Miranda - Mi sento ferita. Mio padre è andato a fare una scampagnata con Luce. E io mi sento come se avesse tirato una riga scura sul mio nome per ricominciare daccapo. Con un'altra ragazzina che non è sua figlia, che non sono io. Mi rendo subito conto di quanto sia sciocco ed egoista questo pensiero, eppure non lo riesco a scacciare del tutto.

Perdono. E' quello che tutti cerchiamo. Mio padre, Anna, io. Le nostre vite sono segnate dalla colpa, minate dalla mancanza di un'assoluzione che non riusciamo a concedere. O a concederci.

 
 
 

"La passione di Frida" di Caroline Bernard

Post n°54 pubblicato il 06 Dicembre 2020 da Vilma66
 
Foto di Vilma66

1925 Quando si svegliò Frida vide la polvere d'oro che brillava. O era la luce accecante di una lampada puntata in faccia? Avrebbe voluto guardare giù, ma non riusciva ad alzare la testa, che sembrava inchiodata al cuscino, come tutto il suo corpo. Lo sentiva totalmente estraneo, caldo e freddo al tempo stesso, come se fosse avvolto nell'ovatta. Si accorse di essere in una specie di scatola che rendeva impossibile ogni movimento. Cercò di muovere le dita dei piedi, ma non ci riuscì. Fu travolta dal panico. Un vago ricordo la tormentava: rumori, schegge, stridio. "Sono morta," pensò in preda alla disperazione. "Sono morta e sono distesa in una bara."

Sino a pochi giorni addietro, prima di quel terribile incidente, era ancora una ragaza spensierata con un futuro promettente, con una vita piena di colori e di segreti che aspettavano soltanto di essere scoperti e decifrati con gioia e curiosità. Ma ora? Ora non c'erano più segreti. Più niente che potesse succedere. Era come se un fulmine avesse rischiarato la Terra e illuminato ogni angolo. Il suo pianeta era diventato un pianeta di dolore, trasparente come il ghiaccio, e dietro c'era il vuoto. Frida aveva dovuto imparare tutte le lezioni della vita in un solo secondo, al momento dell'incidente. Sarebbe stata malata e sofferente per tutta la vita. Una vita che era finita ancor prima di cominciare. Per il resto della notte cercò di figurarsi il futuro e, per quanto si sforzasse, non ci trovò nulla di bello. Si immaginava da anziana, una donna che non aveva mai conosciuto le meraviglie della vita. Fu travolta da un'ondata di panico. Le lacrime scendevano lungo il viso e alzò la mano per asciugarle mentre una fitta le attraversava la schiena. Nemmeno questo innocuo sollievo le era concesso! No, non voleva vivere così.

Tornando a guardare Gesù si era accorta che non sorrideva più dolcemente. Sembrava indifferente. E all'improvviso Frida se ne era resa conto: quell'uomo gracile sulla croce non poteva essere il salvatore del mondo. Se lo era, perchè permetteva che la gente venisse uccisa per le strade della città? Che in Messico la Chiesa fosse uno strumento di oppressione e di controrivoluzione? Perchè lei aveva contratto la poliomelite, anche se era un'innocente bambina di sei anni? Perchè suo padre, un uomo dall'animo buono, soffriva di crisi epilettiche?

1926 Frida si preparò con particolare attenzione quella mattina. La camicetta bianca con la scollatura ricamata nascondeva l'odiato corsetto in gesso. La sua gamba malata era coperta da una lunga gonna a fiori. Chi non sapeva quanto fosse malconcio il suo corpo avrebbe potuto pensare che sul letto stesse riposando una regina. Si era circondata di cose belle. La testa era adagiata su un cuscino di lino su cui era stata ricamata la parola "corazon" con il filo colorato. Accanto a lei, su un tavolino, c'erano dei libri e il suo rossetto. Sulla testata in legno erano appesi foto e "retablos" colorati. Nell'angolo della stanza era stata sistemata una grande voliera con due pappagalli verdi. Frida si guardò intorno e si sentì soddisfatta. Era pronta a ricevere Alejandro ... "Santo cielo, sembra che sia andato a trovare una vecchia zia malata e non la donna che stava per sposare! ... "Ecco che il mio amore se ne va," pensò tristemente. Rimase a fissare il cancello per diversi minuti. Poi si tolse il rossetto passandosi il dorso della mano sulla bocca. Un altro sogno era appena svanito nel nulla. Non sarebbe diventata un medico, non sarebbe andata in Europa. E non avrebbe condiviso la sua vita con Alejandro.

Quando immerse il pennello nella pittura per la prima volta e tracciò una linea sul foglio, Lei si sentì travolgere da una vera e propria ondata di felicità. Avrebbe quasi voluto singhiozzare di sollievo. Se non poteva uscire nel mondo, forse poteva mettere il mondo su tela secondo ciò che scaturiva dalla sua immaginazione. Già solo il movimento oscillatorio con cui guidava il pennello sulla tela le faceva bene. Dapprima si limitò a dipingere a casaccio linee e cerchi, per suscitare una sensazione. Perchè dopotutto dipingeva da sdraiata, e la posizione insolita in cui doveva tenere il pennello le causava ancora difficoltà. Qualche schizzo di pittura finì sulla camicetta e sul cuscino, perchè aveva messo troppo colore sul pennello, ma piano piano avrebbe imparato a regolarsi.. 

Nei giorni e nelle settimane seguenti, produsse una gran quantità di studi. A ogni schizzo, a ogni tentativo, si rendeva conto dei cambiamenti che l'incidente aveva lasciato sul suo volto e nel suo sguardo. A volte quello che vedeva era troppo brutto e Frida piangeva per quello che aveva perso, per i mesi sprecati a letto nel dolore mentre gli altri viaggiavano per l'Europa come Alejandro, o studiavano, o amavano, vivevano. "Vivrò nella mia pittura allora," pensava con aria risoluta. "La vita è troppo bella, troppo colorata, per sopportarla e basta. Voglio godermela, voglio provare gioia e amore!"

1927 Frida scoltava a bocca aperta. Certo, sapeva che le donne se la passavano peggio rispetto agli uomini, che dovevano lavorare di più guadagnando meno soldi, che spesso erano sole ad occuparsi dei bambini, che ne sfornavano uno dietro l'altro senza poter fare nulla al riguardo, che molti uomini erano ubriaconi e violenti o le abbandonavano. Per sapere queste cose bastava attraversare il mondo ad occhi aperti e ascoltare le vicine di casa. Ma sentire tutto questo spiegato da un podio lo rendeva più vero e urgente. La donna accanto a lei la prese sottobraccio, dall'altra parte un'altra manifestante fece altrettanto. Insieme gridarono gli slogan che venivano dall'alto di un palco improvvisato: "Uguaglianza! Giustizia! Abbasso il maschilismo! Abbasso il capitalismo!" Il giorno dopo si recò alla sede del Partito Comunista e presentò domanda di ammissione. Quando uscì in strada con la tessera del partito in mano, si sentì euforica. Era così bello far parte di un movimento che lottava per ciò che era giusto.

Con pochi movimenti fissò i fiori l'uno accanto all'altro per formare una sorta di cerchietto. Una volta finito, si concesse un sorriso soddisfatto: chi ammirava i suoi ornamenti per i capelli non aveva occhi per la sua gamba atrofizzata. Era ancora lì con le braccia alzate sopra la testa quando notò nello specchio un uomo in piedi dietro di lei, un gigante che la fissava con i suoi occhi scuri. Quegli occhi brillanti dietro gli occhiali senza montatura la catturarono all'istante. Erano distanziati, irrequieti, sembravano sul punto di esplodere dalle palpebre leggermente gonfie. Uno sguardo di un'intensità incredibile. "Quest'uomo vede al di là delle cose," pensò Frida all'improvviso. "Vede il mondo con occhi diversi, e vorrei sapere cosa vede in me in questo momento." 

"Mamma sposerò Diego perchè lo amo e lo ammiro, e non perchè può pagarmi le medicine. E' l'uomo adatto a me. Mi aiuta a credere in me stessa e a dipingere. Da quando lo conosco, i miei quadri spingono per uscire da me! E' la mia ispirazione. A volte ho l'impressione che la mia creatività sia più veloce delle mie mani. Tutto questo lo devo a Diego. La pittura mi aiuta a superare il dolore. Lui mi ripete spesso quanto sia orgoglioso di me per come so padroneggiare la mia vita. Mamma, Diego va bene per me. E io lo amo! Non puoi provare a capirmi? Almeno augurami buona fortuna." 

1931-1935 Fuori cominciò a imbrunire, e Frida vide il suo riflesso nel finestrino del treno. "Quella sono io?" si chiese, spaventata. Non mi riconosco. Dov'è la mia giovinezza? Dov'è la mia spensieratezza, la certezza quando ho sposato Diego, che la vita mi avrebbe riservato solo amore e meraviglia? Ecco di nuovo la sensazione di aver perso la strada. "E se ci fossero due Frida? Frida Rivera, la donna messicana che indossa abiti colorati e si fa notare ovunque. Che si circonda di immagini votive, che ha un marito, dei genitori e delle sorelle, dei cani e un giardino. Una moglie che porta il cibo al marito sul lavoro. Ma anche Frida Kahlo, la donna moderna che vive in un albergo, una donna che beve e fuma, una comunista che non ha figli, che viaggia per il mondo sena il marito... Sono Frida, giovane e bella. Amo ballare e cantare. Posso incantare qualsiasi compagnia di gente e farla innamorare di me. Scendo in strada per i miei diritti e per i diritti dei messicani. Trovo difficile restare ferma perchè c'è tanto da fare e da vedere. E sono Frida, costretta in un corsetto che mi impedisce di andare in giro. Non posso avere figli, il mio utero è vuoto. Sotto i miei vestiti colorati si nasconde un mostro. E sotto i tanti fiori infilati tra i capelli che porto come una corona, si nasconde la mia tristezza..."

Il suo corpo la piantava in asso sempre più spesso. Nonostante l'amputazione delle dita dei piedi, il piede destro era violaceo, il che indicava una setticemia. E se avessero dovuto amputarle anche il piede e magari la gamba? Dopo l'intervento alla colonna vertebrale, la ferita non si rimarginava. Tutto questo aveva portato a un deperimento cronico. Mangiava troppo poco ed era sempre più magra. Sapeva che questo dipendeva dall'alcol. Ma senza alcol non poteva sopportare i suoi dolori! Certi giorni trovava a stento la forza di alzarsi. Quando stava meglio, cercava sempre di trovare il tempo di dipdingere. Stava davanti alla tela a lavorare più velocemente di prima senza concedersi pause. Realizzò più quadri in questo periodo che in tutti gli anni precedenti. C'era anche un altro motivo per cui dipingeva così tanto. Nei momenti più bui, nella sua mente si insinuava il timore di non avere più molto tempo a disposizione. Ma non si lasciò mancare nemmeno le sue piccole tresche. La rassicurante sensazione di essere amata e desiderata stava diventando sempre più importante nella sua vita e le dava la forza per affrontare il resto.

"Senza i miei quadri probabilmente sarei già diventata pazza. Mi hanno aiutato a superare la mia tristezza, il mio dolore, la mia sofferenza. Nel momento in cui dipingevo, tutti quei bambini mai nati, l'infedeltà di Diego, i dolori alla schiena per un istante venivano dimenticati. Nei miei quadri, negli innumerevoli autoritratti che ho realizzato, mi sono ritrovata quando non sapevo più chi ero veramente. I miei dipinti mi rendono invulnerabile dalle avversità della vita e indipendente."

 

 
 
 

"Il muro"di William Sutcliffe

Post n°53 pubblicato il 19 Ottobre 2020 da Vilma66
 
Foto di Vilma66

La vita, come probabilmente sapete, è piena di alti e bassi. C'è sempre un prezzo da pagare per la perfezione. Nell'istante in cui la mia scarpa colpisce con forza il pallone, la strada vuota nella quale stiamo giocando smettte di essere vuota. La macchina dellla sicurezza svolta l'angolo, ma la mia palla è già in volo e non c'è niente che possa fare per riportarla indietro.

Diamo uno sguardo alla palizzata. Assomiglia più ad un muro: legno massiccio, alta due volte me, nessuno spiraglio per sbirciare dentro.  Questo cantiere è praticamente l'unico posto ad Amarias che non è nuovo di zecca. Mentre penso al mio pallone oltre la palizzata, mi viene in mente per la prima volta quanto sia strano che tutti chiamino questo posto "cantiere", quando nessuno ci costruisce un bel niente.

Una volta potevo scegliere tra un sacco di persone, ma qui c'è solo David. Gli altri ragazzi di Amarias non mi picciono e io non piaccio a loro. Pensano che sia un tipo strano, quando sono loro a essere strani. In questa città strano è normale e normale è strano.

Nella testa mi sorgono due voci. Una è in fibrillazione e mi dice che questo è il terrreno di avventura, la migliore palestra di arrampicata, il miglior nascondiglio segreto che io abbia mai visto. Vuole che salti subito giù ed esplori quelle rovine. L'altra mi trattiene. E' una voce più silenziosa, sembra quasi che non abbia parole, ma è più potente e mi fa rimanere immobile in cima alla recinzione. E' una sensazione che non riesco del tutto a capire, ha qualcosa a che fare con la roba che spunta dalla casa demolita, con l'evidente rapidità con la quale questo posto è stato trasformato da casa a cumulo di macerie. E' come se da quelle macerie si alzasse un gelo inquietante. C'è un che di violento nell'aria, come un cattivo odore.

All'improvviso ho la bocca secca e impastata. Mi sento come se avessi spiato per caso la madre di un mio amico, nuda. Sembra quasi un oltraggio starsene seduti qui a fissare questa casa sventrata che è l'esatto opposto di tutto quello che la mia città dovrebbe essere. Ma non riesco a distogliere lo sguardo.

Il Muro è stato costruito per impedire alle persone che vivono dall'altra parte di far esplodere le bombe e tutti dicono che ha funzionato a meraviglia. La maggior parte della gente che lavora nei cantieri di Amarias viene dall'altra parte, quando si va in città con la macchina è facile riconoscerli, ma altrimenti, anche se vivono così vicino non sembra che esistano davvero. O meglio, si sa che esistono, perchè il Muro e i posti di guardia e i soldati sono lì a ricordarlo di continuo, ma è come se fossero quasi invisibili.

Per un istante stranamente prolungato, ci guardiamo: la ragazza affacciata sulla strada, io accovacciato dietro la moto. Con gli occhi, la prego di non denunciarmi. Porto un dito alle labbra, proprio mentre sento i passi dei quattro che mi superano correndo, così vicini che alcuni granelli di terra sbattono contro i raggi della ruota. Mi schiaccio contro il terreno, sperando che i ragazzi  continuino a correre. La ragazza li osserva andarsene, senza abbassare lo sguardo sul mio nascondiglio nemmeno una volta. Dopo che il rumore dei passi si è affievolito fino a svanire, lei china il capo e mi regala una specie di sorriso. Io la guardo, troppo distrutto e confuso per restituirglielo. Mi fa cenno di salire ... Ha un viso aperto e carino, con labbra grandi e piene e incisivi prominenti, come se la sua bocca fosse stata pensata per una testa leggermente più grande. Nei suoi occhi, attorno al perimetro delle grandi iride castane, c'è un anello di macchioline nere, come il sito di una minuscola esplosione. Sono gli occhi di qualcuno che pensa in fretta. Mi dice qualcosa che non capisco.

Lei mi prende il bicchiere e le nostre dita si sfiorano. E' uno strano abbinamento: queste mani adulte e quella pettinatura infantile. 

Non saprei dire se è quello che mi aspettavo di vedere. Finora non ho mai prestato particolare attenzione ai ceckpoint, al modo in cui la gente passa da una parte all'altra del Muro, quindi non avevo in mente una visione alternativa a questa. Mentre osservo, però, provo una sensazione raggelante che mi stringe lo stomaco. E' già abbastanza strano starsene seduto qui a guardare, sapendo quante volte sono passato in macchina senza il minimo ostacolo. Più strano è sapere che presto non sarò soltanto uno spettatore. Non passerà molto prima che anch'io sia un soldato, forse proprio uno di quei soldati, seduto in un bunker a prova di bomba, ad azionare un tornello elettrico o a camminare su quelle passerelle sopraelevate con un fucile puntato su una fila di persone in gabbia. Chi dice no, va in prigione.

Con tutta la concentrazione che si concede a un bel brano musicale, ascolto l'unico suono che è possibile avvertire: il fruscio dell'aria che si muove appena tra le foglie di ulivo. Non ricordo l'ultima volta che mi sono sentito così bene: la gioia di essere solo, tranquillo, in un posto segreto, circondato dal nulla, senza nessuno che sappia dove sono e senza la possibilità che qualcuno mi trovi e che mi dica cosa fare. Inspiro a fondo l'aria calda, assaporando il suo profumo asciutto e fragrante. Questo è l'odore della libertà.

Anno dopo anno io ho aspetttato che mia madre mi portasse via e ormai è chiaro che non succederà mai. L'unico modo che ho per andarmene è farlo da solo. Mentre osservo la macchia di vegetazione che si allunga verso Amarias, capisco per la prima volta che non ho ragione di essere spaventato. Non devo temere di partire da solo, perchè se dovessi rimanere, se dovessi tornare a casa, non sarei meno solo. Mia madre si è sbarazzata di me. Da adesso in poi, qualunque cosa faccia, dovunque vada, sarò da solo. Non c'è niente che mi leghi a questa casa. Sono libero di andarmene. Se riuscissi a tornare al villaggio vicino al mare, potrei incontare qualche persona che si ricorda ancora di me. Forse qualcuno mi prenderebbe con sè, una famiglia che conosceva bene papà quando era vivo ...

La mamma è qui tutti i giorni, anche se l'ospedale è molto lontano da casa, fuori dai Territori. In sè dovrebbe darmi fastidio averla nella stanza tutto il tempo, invece non è così. Legge per me, cambia il canale della tivù, mi tiene compagnia e non mi dice mai cosa devo fare. Ma forse è perchè non c'è niente che possa fare.

Quasi non credo ai miei occhi. Capisco subito cosa vuol dire, ma è come se non riuscissi a fare domande, nè a controllare che stia succedendo davvero, per paura di esserrmi sbagliato. Osservo ogni suo movimento, le mascelle serrate, il modo insolitamente affrettato in cui piega i miei vestiti, e sento crescere la speranza che la mia idea sia giusta, che quello che ho desiderato ardentemente fin da quando ci siamo trasferiti qui si stia alla fine realizzando. Solo quando ha chiuso la lampo della valigia, la mamma solleva lo sguardo.

Sono come un orco e un eroe mischiati insieme. Un Orcheroe: una creatura senza gambe semi-mitologica che si spinge su due ruote giganti e mangia vivi tutti quelli che  vengono sorpresi a non sorridergli. La leggenda dell'Orcheroe narra che fu creato da un proiettile magico di rimbalzo spedito come punizione nella schiena di un ragazzo che era andato dove gli era stato detto di non andare e aveva cercato di aiutare alcune persone che gli era stato detto di non aiutare.

 

 
 
 

"La strada" di Cormac McCarthy

Post n°52 pubblicato il 01 Maggio 2020 da Vilma66
 
Foto di Vilma66

Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto. Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato. Come l'inizio di un freddo glaucoma che offuscava il mondo. La sua mano si alzava e si abbassava a ogni prezioso respiro.

In quei primi anni le strade erano affollate di profughi imbacuccati dalla testa ai piedi. Protetti da maschere e occhialoni, seduti fra gli stracci sul bordo della strada come aviatori in rovina. Carriole piene di cianfrusaglie. Carri e carretti al seguito. Gli occhi spiritati in mezzo al cranio. Gusci di uomini  senza fede che avanzavano barcollanti sul selciato come nomadi in una terra febbricitante. La rivelazione finale della fragilità di ogni cosa. Vecchie e spinose questioni si erano risolte in tenebre e nulla. L'ultimo esemplare di una data cosa si porta con sè la categoria. Spegne la luce e scompare. Guardati intorno. Mai è un sacco di tempo. Ma il bambino la sapeva lunga. E sapeva che mai è l'assenza di qualsiasi tempo.

Avevi degli amici? Si, ne avevo. Tanti? Sì. Te li ricordi? Sì, me li ricordo. Che fine hanno fatto? Sono morti. Tutti? Sì. Tutti. E ti mancano? Sì. Dove stiamo andando? Stiamo andando a sud. Per stare più caldi. Si. Ok. Ok cosa? Tu cosa faresti se io morissi? Se tu morissi vorrei morire anch'io. Per poter stare con me? Sì. Per poter stare con te. Ok.

Il bambino non si sarebbe svegliato per ore. D'altra parte, si sarebbe spaventato a morte. Era successo altre volte. Pensò di svegliarlo lui, ma sapeva che se anche l'avesse fatto non se ne sarebbe ricordato. L'aveva abituato a restarsene acquattato nei boschi come un animale selvatico. Ma per quanto tempo? Alla fine si tolse la pistola dalla cintura, gliela posò accanto sotto le coperte, si alzò e si allontanò.

Possiamo accendere il fuoco?, disse il bambino. Non abbiamo l'accendino. Il bambino distolse lo sguardo. Mi dispiace. Mi è caduto. Non te lo volevo dire. Non fa niente. Vedrai che trovo qualche pezzo di selce. Mi sto guardando attorno. E abbiamo ancora la bottiglietta di benzina. Ok. Hai tanto freddo? Sto bene. Il bambino si stese e gli appoggiò la testa in grembo. Dopo un pò disse: Quella gente la ammazzeranno, vero? Sì. Ma perchè lo fanno? Non lo so. Se li mangeranno. Non lo so. Se li mangeranno, vero? Sì. E noi non li potevamo aiutare altrimenti avrebbero mangiato pure noi. Sì. Per questo non li potevamo aiutare. Sì. Ok.

L'uomo cominciava a pensare che fossero a un passo dalla morte e che avrebbero dovuto cercarsi un posto dove nessuno li potesse trovare. A volte, mentre guardava il bambino dormire, gli capitava di scoppiare in un pianto incontrollabile, ma non era il pensiero della morte. Non sapeva bene cosa fosse però gli sembrava che avese a che fare con la bellezza o la bontà. Cose a cui non aveva più modo di pensare. Si acquattarono in un bosco lugubre e bevvero l'acqua di uno stagno filtrata con uno straccio. In sogno vide il bambino steso su un tavolo di obitorio e si svegliò inorridito. Quello che riusciva a sopportare di giorno di notte diventava insopportabile. E rimase sveglio per paura che l'incubo si ripresentasse.

Che cosa vuoi fare? Aiutarlo, papà. Voglio solo aiutarlo. L'uomo si voltò a guardare la strada. Papà, aveva solo fame. Adesso morirà. Sarebbe morto comunque. Ha tanta paura, papà. L'uomo si accovacciò e guardò il bambino. Anche io ho paura, disse. Lo capisci?Anche io ho paura. Il bambino non rispose. Rimase seduto lì a capo chino, scosso dai singhiozzi. Non tocca a te preoccuparti di tutto. Il bambino disse qualcosa che l'uomo non capì. Cosa?, disse. Il bambino alzò gli occhi, il viso sporco e bagnato. Sì, invece, disse. Tocca a me.

Voglio restare con te. Non puoi. Ti prego. Non puoi. Devi portare il fuoco. Non so come si fa. Sì, che lo sai. E' vero? Il fuoco, intendo. Sì che è vero. E dove sta? Io non lo so dove sta. Sì che lo sai. E' dentro di te. Da sempre. Io lo vedo. Portami con te. Ti prego. Non posso. Ti prego papà. Non ce la faccio a tenere fra le braccia mio figlio morto. Credevo che ne sarei stato capace, e invece no. Hai detto che non mi avresti lasciato. Lo so. Mi dispiace. Hai tutto il mio cuore. Da sempre. Tu sei il migliore fra i buoni. Lo sei sempre stato. Quando non ci sarò più potrai comunque parlarmi.

Era tuo padre? Sì. Era il mio papà. Mi dispiace. Non so cosa fare. Penso che dovresti venire con me. Tu sei uno dei buoni? Già, disse. Sono uno dei buoni. Ci sono anche dei bambini? Sì. Abbiamo un maschio e una femmina. E non ve li siete mangiati. No. Voi non mangiate la gente. No. Non mangiamo la gente. E posso venire con voi? Sì che puoi. Allora ok. 

 

 
 
 

"Donne che non perdonano" di Camilla Läckberg

Post n°51 pubblicato il 26 Aprile 2020 da Vilma66
 
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Ingrid

Una parte di lei voleva solo andare avanti. Centinaia di migliaia, se non milioni di donne vivevano con un compagno infedele. Sapeva che Tommy l'aveva già tradita una volta, e allora l'aveva perdonato. Cosa sarebbe successo se non l'avesse fatto? Lovisa sarebbe stata costretta a crescere con due genitori che non vivevano insieme... aprì il browser e scrisse nella casella su Google:"Marito infedele cosa fare?"

La sua pagina Facebook era piena di donne che si ribellavano, che alzavano la voce e raccontavano. Di stupri, di molestie sessuali, tecniche di prevaricazione. Tutte avevano qualcosa da raccontare, tutte. Era ipnotico. Ripensò alla sua vita, all'adolescenza a Västeras, dove non si era mai stupita di sentirsi dare della troia se rifiutava le avance di qualcuno al pub. Alle notti in cui si era ubriacata a qualche festa e si era risvegliata senza mutandine e con ricordi frammentari di mani che la tastavano. Erano molestie, certo. I colleghi maschi che ridevano e cercavano di minimizzare quando qualcuno beveva troppo a una festa e si metteva a pizzicare sederi, seni e fianchi.

Chiedere il divorzio e ricominciare a lavorare come giornalista? Con la digitalizzazione non era più molto attraente sul mercato del lavoro. Ma in un modo o nell'altro sarebbe stata costretta a trovarsi un lavoro. L'accordo prematrimoniale era chiaro in proposito: in caso di divorzio non avrebbe visto un "ore" dei soldi di Tommy. No, il divorzio non era una strada  percorribile. Per quanto girasse e rigirasse la faccenda, la soluzione era una sola: suo marito doveva morire.

Tommy russava al suo fianco. Era la loro ultima notte insieme. Per strano che fosse, Ingrid si sentiva indifferente. Niente rabbia, niente scrupoli di coscienza. Forse c'era una spiegazione biologica: l'uomo con cui aveva scelto di riprodursi, perchè difendesse lei e i loro discendenti, l'aveva tradita. Il giorno dopo sarebbe morto per mano di un'altra donna. Ma non bastava: la sua fama di giornalista serio e impegnato sarebbe stata distrutta. Presto l'intera Svezia avrebbe saputo che patetico relitto guidava il principale tabloid del Paese.

Victoria

Fino a tre anni prima di cognome faceva Volkova. Parlava svedese con un forte accento russo e non aveva nè amici nè un lavoro. La principessa dei gangster, era così chiamata dai suoi amici per prenderla in giro. Ma a lei piaceva. Adorava i diamanti, le droghe, le cene, i vestiti e l'appartamento in cui viveva con Jurij. Cose che aveva perso il giorno in cui Jurij era stato ucciso. Victoria aveva ubbidito a sua madre, come faceva quasi sempre. Aveva caricato sul sito un paio di fotografie e nel giro di due giorni aveva ricevuto centinaia di messaggi. Tra tutti i candidati, aveva scelto Malte: nelle foto sembrava gentile, una specie di bambinone dagli occhi buoni, in sovrappeso e con l'aria timida.

Malte la teneva isolata. Le aveva dato un telefono suo, con una carta ricaricabile, ma le cento corone di credito che le caricava ogni mese non bastavano per chiamare in Russia, e non aveva una connessione internet. L'unico modo per restare in contatto era usare quello di Malte come router. Malte all'inizio era gentile. Noioso, ma gentile. Le comprava dei fiori semiavvizziti, le faceva i complimenti per i piatti che preparava, la chiamava "la mia mogliettina". Certo andare a letto con lui, averlo vicino, sentirsi addosso le sue mani goffe non era una passeggiata, ma almeno la trattava da essere umano. Ma dopo sei mesi le cose avevano inziato a cambiare. Era diventato cattivo. Aveva smesso di lavarsi e puzzava sempre di più. Invece di fare l'amore, gridava"pompino" per poi sedersi sul divano con i pantaloni abbassati. Aveva paura di lui. Anche se non era mai stato fisicamente violento, Malte avrebbe potuto rendere la sua vita  molto peggio di quello che era.. Victoria era nelle sue mani, la fattoria era la sua prigione.

Aveva fatto la sua parte, ora toccava all'altra donna, che avrebbe già dovuto essere nei dintorni. Aveva segnato l'albero giusto con discrezione. Di lì a poco Malte avrebbe finito il suo turno al distributore, si sarebbe infilato il casco e avrebbe inforcato la moto. Se tutto andava come doveva, avrebbe preso la solita scorciatoia attraverso il bosco. Spuntò mentalmente tutte le voci della lista, una dopo l'altra. Se la sua salvatrice sconosciuta avesse fatto la sua parte, e se Malte si fosse comportato come sempre, non lo avrebbe visto mai più.

Birgitta

Sapeva di dover morire. Guardò i tre uomini attorno a cui aveva ruotato tutta la sua vita negli ultimi vent'anni. I gemelli avrebbero potuto continuare a contare l'uno sull'altro. Lei sperava che si sarebbero presi cura di Jacob. Era un uomo freddo e duro che non le aveva mai dimostrato la tenerezza che lei avrebbe desiderato, ma il suo amore per i figli era assoluto.

Birgitta fissava la mano destra del marito: le dita gli tremavano, come se non avesse ancora deciso se andare avanti o no. Lei però lo sapeva, lo conosceva abbastanza bene per sapere che lo avrebbe fatto. Lo sapeva fin dal mattino. Si era svegliato cupo, silenzioso, ed era quando Jacob non le strillava contro che doveva stare più attenta. Il colpo successivo le fece buttar fuori tutta l'aria dal corpo. 

Il male che le invadeva il corpo stava peggiorando, la stanchezza era ormai una condizione cronica. Eppure continuava a ignorare le convocazioni in ospedale. Non voleva mettere in imbarazzo i gemelli, non voleva scoprissero che il padre era uno che picchiava la moglie. Negli ultimi tempi Jacob era diventato sempre più feroce, più raffinato nella sua crudeltà. Non la picchiava per farle male, ma per far del bene a se stesso. Sferrava i colpi in modo quasi meccanico senza mostrare sentimenti. E con la stessa meccanicità e apparente mancanza di sentimenti, Birgitta li incassava. Forse era proprio quello che lo provocava ulteriormente, che lo spingeva a picchiarla ancora.

La casa era immersa nel silenzio, Jacob respirava profondamente al suo fianco. A periodi prendeva dei sonniferi, non era stato difficile per Birgitta  scioglierne qualcuno nel cicchetto che si faceva dopo cena. Jacob stava per morire, e lei avrebbe mantenuto la promessa di stargli vicino fino alla morte. L'assicurazione sulla vita  che aveva stipulato sarebbe stata più che sufficiente per i gemelli. Birgitta scese al piano di sotto e aprì la serratura della porta d'ingresso. Prese il candelabro e lo posò in cima a una pila di carte sulla scrivania ingombra di jacob. La donna che doveva accendere la candela e assicurarsi che le carte prendessero fuoco sarebbe dovuta arrivare da un momento all'altro. Anzi, forse era già in casa.

 

 
 
 
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