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Un blog creato da violet_space il 11/01/2009

ViolaMente

spettri viola di parole e musica

 
 

CANZONE ECOLOGICA

Parole che vanno e vengono in quantità:
come pennellate di colore cariche
aggrumano le preziose tenuità
in cumuli di volgari croste, ovunque.

Forse sarebbe più bello tacere,
in accordo coi nostri pensieri,
che solo ad esprimerli in verbi e parole
non sono più verità.

Ma so che sarebbe anche bello
Sceglierle bene;
per farle aderire con più precisione
all’anima con la sua musica.

Sento svanire il suono infinito,
il timbro che unisce le vite
alle cose del mondo:
l’umano ululato strepita
e tutto si fa disarmonico.

Quanto rumore e parole in libertà…
Quanto timore di ammutolire in sé…

L’umano fracasso contamina
Il fiato dell’universo.

Marlene Kuntz

 

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A SUD DEL PROFONDO NORD

Post n°13 pubblicato il 07 Luglio 2009 da violet_space

Ditemi un poco, ce l’avete ancora voi il coraggio di ricordare come eravate a undici - dodici anni?

E la voglia di immaginarne due, di ragazzini di quell’età?

Ragazzini, perché a quell’età non sai mai come diavolo chiamarli, che se ti scappa per abitudine ‘bambini’ questi ti guardano torvi, ma d’altra parte, con quelle facce pulite ‘ragazzi’ proprio non ti esce. Due fratelli, alti e assai indipendenti rispetto ai loro coetanei italiani, e belli, di una bellezza struggente, che realizzi nel preciso momento in cui ti ritrovi incantato a cercare di scovare le tracce femminili che ne delineano ancora la grazia.

Il maggiore ha i capelli biondi, talmente chiari che li potreste scambiare anche per bianchi sulla testa di un uomo fatto, e con gli occhi blu, della tinta più scura che possiate immaginargli addosso. Di quei tipi impulsivi, che vanno diritti come fusi, con la stessa foga e tenacia, contro imbarazzanti coglionate così come verso ineguagliabili vittorie, ammesso che sappiate ancora valutarle entrambe da circa un metro e mezzo d’altezza.

Sensibile ed espansivo, nonostante si stia già allenando, tra un tiro a basket e l’altro, a diventare uomo, imbrogliando per bene la spontaneità tra i meandri di complicatissimi labirinti, mentre poi, tutto il resto del tempo, magari cercherà di rintracciare a ritroso il bandolo della matassa.

L’altro, invece, nello stesso taglio d’occhi ha le iridi marroni, il viso ovale e i capelli castani. Lui è prudente, fa andare avanti suo fratello e poi valuta se è il caso di farsi immischiare in faccende rognose o meno. Forse è più acuto ed intelligente, di sicuro più attraente e parco di slanci emotivi. Ha pregato fino allo stordimento la madre affinché gli desse il permesso di farsi delle mèche bionde sulle punte dei capelli che, in ordine sparso, volgono direzione a seconda dei percorsi che le dita ingellate scorrono fino ad incrociarsi sul capo. Ma non pensiate che tingersi i capelli sia stato per vanità (le aveva previste, sappiatelo, le prese per il culo che avrebbe dovuto subire da parte di adulti e non) quanto un goffo tentativo di confondersi con la massa di teste bionde dei compagni di classe e della squadra di calcio.

Che già il cognome basta e avanza per sgamare le loro origini del sud europa, e, anche se non lo dicono, non gliene importa un accidente che in italia sia considerato un rassicurante marchio padano, perché a dei ragazzini, che prima di tutto si riconoscono come degni discendenti dei barbari del profondo nord, gli rode alquanto che, nelle caste razziali nazional-popolari del paese in cui vivono, il loro cognome sia considerato appena un gradino sopra a quello di africani e gentaglia dell’est. (fermo restando che suppongo ringrazino tutti i giorni il fatto l’italia abbia perlomeno vinto l’ultimo mondiale di calcio).

Ma sono solo ragazzini, e poco importa se ora si divertono a scimmiottare quelle parole della nostra lingua che a loro suonano più che altro ridicoli. Rimane solo da sperare che, da adulti, si ricordino dell’aria scanzonata di chi adesso li guarda con tutta la devozione umanamente concepibile e gli ricorda che non sarebbero mai usciti così belli se si fosse accoppiata con un vichingo.  

And form Sweden...

 

 

 
 
 

E' fredda e nera

Post n°12 pubblicato il 07 Giugno 2009 da violet_space
Foto di violet_space

E’ fredda e nera, la morte, dunque. Non un nero impenetrabile, ma piuttosto un buio striato da scie di blu elettrico e da riflessi luminescenti. E di un freddo pungente, come se stessi con il corpo, nudo, immerso in una neve solida. Come se un corpo ce lo avessi ancora, e una coscienza.

E a pensare che proprio di questa mi volevo sbarazzare, ingollando pillole e gin e ancora pillole per approdare laddove nessun pensiero può più scorrere. Perché, lo ricordo chiaramente, con eccitazione mista ad un’angoscia che mordeva allo stomaco, è così che immaginavo la morte: un niente, senza spazio e senza tempo, e soprattutto, definitivamente, senza me stessa. Una compagnia che mi aveva nauseata e che, nonostante l’uso delle più disparate sostanze psicotrope, ritornava sempre, ogni volta più impresentabile di prima. Vent’anni sembrano pochi, ma provate voi a viverci con chi trasforma in paranoia ogni cosa, e che agisce con il solo intento di farti sperimentare vergogna, rimorso, o, peggio ancora, noia.

Ma persino la fine mi ha fottuta, condannata per l’eternità qui, in un andito immobile, con mille aghi di ghiaccio che pungono questa specie di membrana dove i ricordi possono rimbombare indisturbati da una parete all’altra, passando in rassegna ogni singolo sbaglio.

E’ mai possibile che adesso percepisca un peso sospingere sull’involucro? Un alito tiepido su di me? Ora, non mi sbaglio, è il basso ventre quello che scuote, piano e poi sempre più velocemente. Forte. Anche i suoni, dal silenzio, emergono ovattati fino avvicinarsi e farsi a poco a poco ansimi. Questa non può essere una tortura divina, sono viva, perché le sento le vibrazioni di un corpo caldo che sbattano il mio sopra ad una superficie metallica. Sono viva, e questo non è l’inferno, ma non riesco a controllare nessuna parte di ciò che rimane di me, sono in balia di un uomo e il mio corpo si lascia fare come fosse un cadavere.

Senza una vera ragione e guidate solo dall’istinto, tutte le energie e una forza di volontà sconosciuta si dirigono all’unisono, come soldati in marcia, verso un movimento, uno solo, spingendo le palpebre per schiudersi. Ecco, si aprono di scatto. Click: fotografano l’espressione contrita dal massimo piacere e dal vero terrore del tizio sopra alla mia faccia. Attorno pareti di metallo, luci al neon, corpi coperti da teli di plastica, cazzo, sono in un obitorio. L’uomo mi è caduto addosso con tutto il peso. Che sia morto dallo spavento?

Soundtrack: Have a nice life - Deathconsciousness

Foto: Nightmare Before Christmas - Tim Burton

 
 
 

ECCEZIONI

Post n°11 pubblicato il 18 Maggio 2009 da violet_space

Violamente non è nato per, ne atto a, ospitare pettegolezzi.

Voleva nelle intenzioni raccogliere solo racconti, che poi fossero storie realmente accadute, a violet o ad altri, fantasie o mostri, in fin dei conti, non ha troppa importanza.

Ma questa sera e questo post saranno la degna eccezione alla regola, perchè non riesco a resistere e non condividere questo pettegolezzo con un pubblico lettore. Potrei tenermelo come arma illecita e spietatamente sputtanitrice nei confronti del soggetto coinvolto (che con due veloci pennellate dipingerei come un ipocrita e gretto maschilista), ma già so che la mia poca memoria e concentrazione faticano a trattenere informazioni ben più importanti e che non sono troppo affidabili per il diffondere del chiacchiericcio, anche quando trattasi di nobili cause come questa. 

Avrei potuto, altrimenti, tenermelo consevato come materiale prezioso per un racconto, uno di quelli che ricordano Fango di Ammaniti, in cui andare delineare l'infanzia di un uomo qualunque che a un certo punto della sua vita si ritrova, quasi senza averne coscienza, a compiere le più schifose nefandezze. Ma nel caso letterario almeno il fine giustificherebbe lo spifferamento, perché sono dell'idea che non le si dovrebbero raccontare certe storie a chi, già di suo, ama inventarsele e scriverne. 

Alla fine ho pensato, tuttavia, che lo sputtanamento era un momento dovuto.

Dunque, sapete che mi è capitato oggi in pausa pranzo? Partendo dalla mia banale ammissione che alla sera, spesse volte, non ho voglia di cucinare si è dipanato un discorso contorto in cui un collega è arrivato a confidarmi un'intima consuetudine domestica: vale a dire che lui stesso (distinto e paraculo uomo di mezza età, aggiungo io) ha preparato al figlio per colazione, fino al compimento del 15emo anno di età, il latte caldo con dentro inzuppati i biscottini, precisamente quelli super nutritivi per i bimbi, piccoli. Nella tazzona, vi chiederete voi? Tutto sommato, non è così grave. Nooone, NEL BIBERON. E allora sì che la faccenda si fa divertente, soprattutto se riuscite ad immaginarvi la scena condita con qualche spassosissimo particolare, che ne  so, tipo che la prole all'epoca era già alto più di un metro e ottanta, e, mentre si sdraiava per ciucciare dal biberon gli uscivano quelle gambe lunghe e magre da adolescente fuori dal divano. Oppure che, al grido d'aiuto "Papi, è pronto il titto?" il premuroso padre di famiglia ha provveduto, anno dopo anno, ad allargare il buco di uscita della tettarella per facilitarne la nutrizione assistita. 

Di fronte alla mia risata irrefrenabile si deve essere pentito di avermi affidato questo segreto di famiglia ed ha provato a riacquistare credibilità affermando con serietà che in fondo non c'era mica niente di male, sempre meglio un biberon che le canne. 

Ecco, ricordo che proprio a quindici anni risale la mia prima canna, e non me ne vergogno affatto, mentre il ragazzo ventenne, dalla stessa ammissione del padre, lo ucciderebbe se sapesse che stesse raccontando questa storia. 

E io penso che farebbe pure bene.

Non dovrebbero esistere genitori che costringono i propri figli a portarsi dietro un passato così ridicolo.

 
 
 

non so nemmeno come si chiama di cognome

Post n°10 pubblicato il 30 Aprile 2009 da odisseando

[prologo. la versione violettiana è qui sotto. dopo averla letta le ho chiesto [a violet, intendo]: bene. posso provare a scrivere come si comporterebbe una personaggio para-inventato da me? i nostri blogghe hanno amoreggiato, e quindi la sua versione è anche sul mio blogghe.]

Accidenti, sarà lei? Questa fottutissima incapacità di fissarsi la faccia di qualcuno in testa [strano, no? Fissarsi la faccia di qualcuno in testa]. Sotto quel berretto di lana violacea penso raccolga la chioma ribelle, un po’ il prodromo di un rasta nature. La chioma me la ricordo, non fosse altro per quei ricci nerineri che si aprivano a raggiera mentre le fuggivo lo sguardo quando ci si è presentati. Ero già moderatamente ubriaco, abbastanza da farmi avanti a conoscere una quasi perfetta sconosciuta. Beh sì, in effetti eravamo financo a casa sua, la casa di collina. Io: imbucato ed anche piuttosto impacciato qua e là. Però musica e vino me li ricordo, piacevoli.

Sì, dovrebbe essere lei. Se magari la smettesse di parlar al telefono con quell’aria un po’ annoiata di una che gioca con quel che riesce ad uscire di un riccio da una berretta, si girasse, e almeno lei, mi riconoscesse sarebbe fatta. E invece no: qui continua a piovere quella noiosissima pioggerellina nebulizzata, e lei a telefonare. Chissà se s’infeltrisce il berretto di lana leggera. Pensa te: fine aprile coperti come a febbraio.

Ehi, pare m’abbia riconosciuto. In effetti è lei, ora lo ricordo. Sembra anche che le si siano anche accesi un po’ gli occhietti. Adesso però finiscila con ‘sta telefonata: se è uno che te la batte non ha speranza, mollalo subito che la fisiognomica della comunicazione cellulare ha le sue regole non scritte. Se il bambascione dall’altra parte non intende il tono che tradisce il suo viso piuttosto insofferente è un altro motivo , se ce ne fosse bisogno, affinché lo si molli.

Eddddddai, chiudi ‘sta comunicazione.

Ohhh, finalmente.

Beh, buonasera. Con quel cappello inumidito ho fatto fatica a riconoscerti: ma ci stanno veramente tutti i tuoi capelli lì dentro? Ah, li hai tagliati: nuova pettinatura, un nuovo taglio di cappelli, sconvolto con chic. Interessante. Me li fai vedere qui fuori o entriamo in questo dannatissimo locale? Occhei, facciamo che mi mostri la nuova acconciatura dentro.

Uhm. Carina la barista-pubbista. Lo sapevo avrei dovuto far quello come secondo mestiere. Ora però basta: ci manca solo mi sgami, concentriamo attenzione ed emozione su di lei.

Tecniche di dialogo scaccia-imbarazzo. Interessante questo nuovo taglio chic con sconvolgimento. Ancora più interessante la fascia, viola, ovviamente. Cosa indossi d’altro di quel colore? Intimo escluso, ovvio. Dicevo: la fascia, mette in risalto l’ovale del viso, direi che è un bell’effetto. Sì, in effetti ho solo una cartuccia per sera in fatto di complimenti. Questo è il primo e l’ultimo. Ricordo la storia del viola, l’avevi anche la sera in cui mi imbucai alla tua festa estiva in collina. La T-shirt piuttosto attillata, se la memoria non mi inganna. Cioè no, quello lo ricordo bene, l’attillamento intendo. Lo sai che non potresti andar a far il pubblico da fazio su raitre, con qualcosa di viola addosso…?

Vino o birra? In effetti siamo in un pub: giusta osservazione. Pungente la ragazza colla fascia viola. Fossimo abbastanza in confidenza scarterei la birra e ti proporrei una specie di scambio culinario: vengo a casa tua e cucino, partiamo con un bianco del trentino. Poi ho trovato uno shiraz (o shyra? Come diavolo si scrive) australiano che è una figata, suppongo lo vinifichino con qualche sostanza psicotropa perché il bouquet ti esplode con qualche attimo ritardo, poi ti da dipendenza. L’hai già provato? Ah, ecco, te ne l’hanno portato una volta e te lo sei bevuto con le amiche: beh, non male, no?

E la cena? Ah, come? Si può fare? Si vabbhé, ma facciamo le cose con quel minimo di passaggi pre-formali. Era una boutade un po’ buttata lì per scombinar le carte. Sennò poi come lo giustifico il mio impacciamento pre-culinario. Però, a questo punto, possiamo cominciare a buttar giù il menù. Una cosa tipo mare e monti, un’ordalia di fantasia, non c’è che dire. Quindi: un antipastino a base di pesce, e poi ti faccio i pizzoccheri, li hai mai assaggiati? Così giustifichiamo i vini. Inoltre se ne discendono due altre certezze, in questo bailamme di gioco delle parti: che la cosa si farà presto, perché il pizzocchero quando il caldo comincia a farsi largo non lo si apprezza, inoltre hai la sicurezza fisiologica che dopo non ci proverò, perché lo sforzo digestivo del pizzocchero non si confà molto ad essere contemporaneo con altre attività, più o meno fisiche.

Sì, in effetti io sarei timido, però sai la birra la prendo sempre molto forte anche per riuscire a sgabbiarmi le titubanze. Mi sa che mi ha pure sgamato mentre osservavo allontanarsi la pubbista. No, ti giuro non le stavo guardando il culo: solo come il capelli le scendono lungo la schiena. No… no… dai non ridere: sto dicendo sul serio, mi rendo conto possa essere una scusa poco plausibile ma è così. Io sono un tettista convinto. Eddai, credimi! E anche il fatto tu le abbia così armonicamente ben presenti qui davanti a noi due è solo una felice casualità.

Quando ride è ancora più carina, accidenti. Deve essere quella strana cosa che hanno alcune ragazze, con gli occhietti che parlano loro stessi: e non sono nemmeno azzurri. Quasi quasi, colla scusa di confrontar quanto sono lunghe e affusolate le mani provo a sentire che effetto fa sfiorargliele. Se gliele prendo una delle sue tra le due mie mi sa che la cosa si fa troppo apparente e palese: non è il caso. Però colla scusa del contesto un po’ cultural-retrò colle luci e i toni caldi posso provare a fotografarla. Gli occhietti, la fascia, i capelli pre-rasta, il sorriso ontologico. Viene fuori proprio una figata di fotografia. Un’altra. E un’altra ancora, sposto il punto di vista: così il seno è troppo in primo piano, pure con la resa scenica dell’effetto grandangolo, forse non è il caso di scattare… cioè… però a ripensarci bene… ma anche no. Clicche.

Un’altra birra? Quasi quasi, può essere che i blocchi emozionali cedano del tutto ma correremo il rischio. Anche lei mi sembra decisamente più sciolta, quando poi china leggermente il capo e quel ciuffo che le cala sull’occhio s’intriga decisamente il tutto. O forse è la storia del collo che si scopre appena. Questo è il caso piacevole in cui intuisci di come sia un velato, e involontario, segnale metasessuale. Nel senso che lo intuisci perché avresti una gran voglia di baciarlo, senza sapere bene il perché: il suggerimento della corteccia del cervello, quello più profondo e arcaico. E non è solo la questione della pinta e mezza triplo malto che già ci siamo calati a stomaco vuoto.

Conservo ancora qualche rimasuglio di lucida analiticità: che si fanculizzi. Perché continuo a provar a leggere il linguaggio del corpo, capendoci quasi una minchia per via delle birre e della piacevole vibrazione che mi coglie nello starle accanto? Se provassi a spegnere il tutto e veder come viene e basta? Ecco, ad esempio, la sua mano che pare stia cercando la mia? Uhm, no forse mi sbaglio: un gesto un po’ involontario. Provo io con un qualche segnale di avvicinamento, di prossimità al suo viso. Prima colle mani, e vediamo come va. Le levo la fascia violacea dei capelli e lascio terreno sgombro ai riccioli pre-rasta. Solleva leggermente il viso mentre tiene chiusi gli occhi e s’assapora il momento della chioma pre-ribelle nuovamente e finalmente libera. Per un attimo ho una visione: deve essere la stessa sensazione fugace un attimo prima di lasciarsi andare, verosimilmente non in un pub, magari senza niente di viola addosso, o al limite, e ancora per poco, giusto l’intimo.

Eppure non sono bastate due pinte di birra. Non riesco a dar un seguito sensato alla causalità: desiderio-azione. E me ne rimango una spanna troppo lontano. Vorrei baciarla, la scusa del: mi fai provare quanto sono morbide le labbra non funzionerebbe. Farlo e basta, baciarla intendo, senza prerequisiti di meta e paraverbale non mi riesce proprio. Non capisco se per la mia coglionaggine a priori, oppure se perché questi prerequisiti proprio non ci sono, a prescindere la mia capacità di leggere il linguaggio del corpo capendoci, peraltro, sempre una minchia.

E a volte è una questione di attimi.

Non mi ricordo chi cantava quel melassosissimo verso del: cambio il verso di ogni cosa, cancellarono di colpo i riflessi le tendine in nylon rosa. Però il senso è quello. Di colpo quel fottutissimo treno mi sembra ormai troppo imminente. Già: non facciamo in tempo a prendere la terza birra, non faccio in tempo a decidere se era il caso di baciarti o meno. Tanto non l’avrei fatto, comunque. Avresti dovuto, tecnicamente, darmi un incipit tu anche solo impercettibile, per quanto sia pusillanime usare questa scusa. Cojone che non son altro, devo andare. Mi si vela un po’ il prosieguo della situazione. Anche la pubbista, mentre vado a pagare, mi sembra ormai melanconicamente indifferente, a prescindere dal suo culo, che oggettivamente saprebbecantare, e pure colla cadenza alla fine dell’aria.

Si rimette il berrettino inumidito dalla pioggerellina nebulizzata. È come una specie di titolo di coda, scompaiono i capelli pre-rasta, anche il viso si fa un po’ meno prossimo emozionalmente: è la fisiognomica del farewell.

Provare a baciarti mentre ci salutiamo mi pare patetico. Meglio lo sfiorarsi casto del guancia contro guancia.

Ci rivediamo? Beh, sì, ricapiterà prima o poi. Ho un treno che sta giungendo. Meglio se me ne vo’.

Mi gira un po’ la testa, la situazione congiunta emozional-gastrica mi spingerebbe rispettivamente ad un sorriso amaro ed a un rutto.

Sul treno uso il cellulare per ratificare la mia astenia nel pigliar l’attimo che va e le mando un messaggio. L’autodichiarazione da prova-provata del mio non saper dar seguito al desiderio con l’azione, suggellando l’ammisione di resa. “Ti avrei voluto salutare con più trasporto. Ma a volte sono prigioniero di certi blocchi emozionali”.

Il treno di sera tardi, per quanto corra veloce, è piuttosto melanconico. Una vibrazione nella tasca: non è la reazione del ventre alle birre, è il cellulare. Nuovo messaggio ricevuto, apri: “Ormai sarai quasi arrivato, buon fine viaggio di ritorno. Ps. Pirla”.

 
 
 

LA CHIAMO SEMPRE PER COGNOME

Post n°9 pubblicato il 19 Aprile 2009 da violet_space

La chiamo sempre per cognome ma non per tenerla a distanza, anzi, quando siede un po’ più vicino a me la prego di non spostarsi, che altrimenti non riesco a capire che effetto mi fa il suo corpo. Se mi piace oppure no, intendo. Lei alle volte si scosta, alle altre, invece, mi resta docile accanto. 

E’ accaduto altre volte, quando siamo usciti da soli, che mi prefiggessi di provarci, ma poi il tempo è scivolato via spassoso che, porca puttana, me ne sono praticamente scordato.

Già so che questa sera mi aspetta davanti al locale stizzita per l’ennesimo ritardo, ed infatti eccola, dentro al suo cappottino viola, che cammina avanti e indietro parlando al telefono per spezzare l’attesa. Di tanto in tanto si ferma e traccia sul lastricato del portico dei piccoli cerchi con la punta del piede, alzando e abbassando l’altro a mezza punta al ritmo di chissà quale suono che le riecheggia in testa. Se non avesse smesso di fumare sono certo che ne avrebbe una accesa.  

La bacio sulla guancia libera mentre con l’altra è occupata a salutare chissà chi dall’altra parte del telefono e, ancora prima che inizi a rimbrottarmi, la interrompo con un complimento su come le stanno bene i capelli questa sera anche se non sono raccolti come piacciono a me. 

Entriamo nel locale, piccolissimo e affollato com’è all’ora dell’aperitivo, ordiniamo due Negroni, ci appropriamo in fretta di due sgabelli che si liberano di fianco al bancone e finalmente possiamo parlare di lei – bel sorriso, belle tette. Io, invece, non amo raccontare ciò che mi succede, non per timidezza, figuriamoci, la faccia di bronzo non mi manca, è solo che mettermi a parlare di lavoro mi annoio, delle altre non è il caso, e, per il resto, mi è già capitato di condividere emozioni e riflessioni che nell’attimo esatto in cui le decifravo in parole si mutavano in fuffa senza consistenza negli occhi di chi avevo di fronte, per cui, no, grazie, preferisco tenerle per me. 

Ed in ogni caso la gente, le donne, adorano parlare di se, e per la maggior parte manco se ne accorgono che, nel mentre, io non mi scopro neppure di un centimetro. Lei sì, l’ha capito e perciò le mie domande si fanno più incalzanti. Le chiedo delle sue passioni, del suo ultimo appuntamento, del perché non ha funzionato...

No, no, non è a causa della sindrome del principe azzurro che le vostre relazioni prettamente sessuali non durano a lungo, è per una ragione squisitamente biologica, un istinto di conservazione della specie che spinge voi donne a cercare una relazione stabile per poter, come fine ultimo, procreare e assicurare il futuro dell’umanità. E’ lo stesso se con gli anni hai maturato l’idea di non voler marmocchi, quello che conta veramente è ciò che ha fatto tua madre, tua nonna

Al secondo Negroni l’atmosfera si fa impalpabile, le nostre mani si sono già cercate un paio di volte, non so se c’è ancora gente o se il locale si è svuotato, se la barista intenta ad ordinare il bancone ci sta guardando e non importa che succederà, le prendo il volto tra le mani e me lo avvicino alle labbra. Si ritrae prima da una parte e poi dall’altra, e comincia a sciorinarmi il perché non possiamo scopare.

Du Cojoni, tranquilla, ti volevo solo baciare perché ne ho sentito il desiderio, ma non ce la farei a scopare. Ho già dato, sia ieri sera che stamattina. Credimi, non ce la farei ancora. 

Lei esplode in una risata rauca e chiassosa, ed incredula dice qualcosa del tipo che un approccio così non le era mai capitato, e si complimenta per lo spirito.

Ridiamo, ed allora si lascia baciare, una volta, schiudendo velocemente le labbra alla foga della mia lingua e senza la lentezza dei baci languidi. Uno sguardo interrogativo e poi un’altra volta, adagio, per sentirne il sapore. Piano. 

Ride, ride e non smette. O è veramente ubriaca o non le manca il senso dell’umorismo.

 
 
 
 
 
 
 

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