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Un blog creato da kaori_chan il 27/01/2011

Yume no Hime

So run, run, run and hate me, if it feels good I can't hear your screams anymore...

 
 

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L'uovo d'oro

Post n°49 pubblicato il 04 Aprile 2012 da kaori_chan

C' erano una volta un vecchio e una vecchia che vivevano in una casa in mezzo alle montagne. Entrambi avevano i capelli bianchi come la neve. Un giorno il vecchio andò sui monti in cerca di bacche; giunto su un campo vide qualcosa che emanava un forte bagliore.
"Oh cosa sarà mai?" si chiese meravigliato. Prese l'oggetto in mano e si rese conto che era un uovo d'oro. Tornò corsa a casa; chiamò la moglie che stava accendendo il fuoco e disse
"Guarda,ho trovato una cosa molto preziosa". E le mostrò l'uovo d'oro.
"Sicuramente è un regalo del Cielo!" commentò la vecchia.
"Si, giusto! E' così!" concordò il vecchio. Mentre i due continuavano a discutere sull'uovo, il fuoco sprigionò un gran calore e il vecchio e la vecchia si addormentarono. L'uovo lo posarono a terra accanto al fuoco. Si fece notte. Tutto ad un tratto si sentì una specie di crepitio o gracidio. Forse era il verso di un uccello di montagna. Ma quanto tempo era passato? Improvvisamente si udì un leggero pianto, e il vecchio e la vecchia aprirono gli occhi.
"Sembra il pianto di un neonato!" disse la vecchia.
"La nostra casa è l'unica in mezzo a tanti monti. Da dove può arrivare un neonato?" ribatté il marito.
"Guarda,il bimbo è qua da noi!" gridò la moglie eccitata. Vicino al focolare c'era infatti un piccolo che agitava freneticamente le gambette e le braccine.
"Non posso credere ai miei occhi. E' proprio un neonato!" disse il vecchio esterrefatto. Accanto al piccolo c'era il guscio dell'uovo d'oro rotto in due. La vecchia prese il neonato in braccio.
"Nonnino, questo è veramente un dono di Dio!" esclamò.
L¹'indomani il vecchio tornò a casa con frutta e verdura, diedero da mangiare al bimbo e lo tirarono su come fosse loro figlio. Il piccolo crebbe con una straordinaria velocità e si fece un bel bambino. Di notte, quando il vecchio e la vecchia dormivano, il bimbo usava sempre alzarsi di nascosto, andare sui monti e raccogliere legna da ardere e bacche.
"Sei un figlio di Dio, non devi fare tutto questo" gli dicevano il vecchio e la vecchia, ma lui non li ascoltava.
Un giorno il bambino andò come sempre sui monti e il vecchio e la vecchia ne approfittarono per parlare tra loro
"Cosa faremo del piccolo, noi siamo così anziani. Se ci succede qualcosa, rimarrà solo come un cane" rifletterono a lungo ma, per quanto si scervellassero, non trovarono una soluzione. Nel frattempo il bimbo tornò dai monti
"Di cosa stavate parlando? Avete un'aria così preoccupata" chiese il piccolo.
"Oh, sei già a casa! Beh in realtà parlavamo di te. Vedi, noi siamo vecchi, se ci succede qualcosa, rimarrai solo. E' questo che ci preoccupa." rispose il vecchio.
"Ma è una mia preoccupazione. E poiché mi avete dato tutto il vostro amore, ora voglio ricambiarvi. Vi farò ritornare giovani!" disse il piccolo e portò ad entrambi un paio di sandali di paglia.
"Ora mettetevi questi sandali e battete tre volte i piedi sul tavolato in legno" ordinò loro.
La vecchia e il vecchio obbedirono, si misero i sandali e batterono tre volte i piedi sul tavolato in legno. Non appena l'ebbero fatto, si trasformarono in due giovani e nessuno avrebbe mai detto che un attimo prima erano solo un vecchio e una vecchia.
 

 
 
 

La leggendadei fiori di ciliegio

Post n°48 pubblicato il 22 Marzo 2012 da kaori_chan


花は桜木人は武士

Hana wa sakuragi hito wa bushi
Tra i fiori il ciliegio tra gli uomini il guerriero

Nell' iconografia classica del guerriero il ciliegio rappresenta insieme la bellezza e la caducità della vita: esso, durante la fioritura, mostra uno spettacolo incantevole nel quale il samurai vedeva riflessa la grandiosità della propria figura avvolta nell'armatura, ma è sufficiente un' improvviso temporale perché tutti i fiori cadano a terra, proprio come il samurai può cadere per un colpo di spada infertogli dal nemico. Il guerriero, abituato a pensare alla morte in battaglia non come un fatto negativo ma come l'unica maniera onorevole di andarsene, riflettè nel fiore di ciliegio questa filosofia.

Secondo la leggenda Giapponese il loro colore era originariamente candido ma, in seguito all'ordine di un imperatore di far seppellire i samurai deceduti in battaglia sotto gli alberi di ciliegio, i petali dei fiori divennero rosa dopo essere stati imbevuti col sangue dei guerrieri.
Anche quelli che, tra i samurai, secondo il loro codice d’onore, decidevano di suicidarsi, sembra fossero solito farlo proprio sotto gli alberi di ciliegio: come il fiore di ciliegio, effimero e fragile, nel pieno del suo splendore muore lasciando il ramo, così il samurai, puro, leale, onesto, e coraggioso, nel nome dei principi in cui crede, è pronto a lasciare la propria vita in battaglia.

La tradizione dell'Hanami (ossia "guardare i fiori") consiste nel recarsi nei parchi colmi di alberi di ciliegio, stendere teli azzurri e fermarsi ad ammirare il magico spettacolo della "pioggia di petali".
Il vero senso di questa tradizione è quello di osservare la caduta dei petali, ricordando che ogni vita è destinata a finire.

 
 
 

LA FORCINA D'ORO

Post n°47 pubblicato il 19 Marzo 2012 da kaori_chan


A Sendai, città dell’estremo nord da dove provenivano i migliori soldati giapponesi, viveva un samurai di nome Hasunuma.
Hasunuma era ricco e aveva il senso dell’ospitalità. Inoltre pensava molto e i suoi pensieri lo portavano a decisioni buone e sagge. Un giorno sua moglie si presentò a lui con una bella bambina, la loro prima figlia, che si chiamava “Hasu-ko”, che significa “Piccolo Giglio".
Quel giorno stesso Saito, uno degli amici di Hasunuma, che era anche Samurai, fu favorito dalla sorte ed ebbe un figlio. I genitori decisero che, in quanto vecchi amici, i figli si sarebbero sposati fra loro, quando avessero raggiunto l’età del matrimonio. Entrambi furono soddisfatti dell’idea, e lo furono anche le due madri.
Per rendere più stretto il loro legame, Saito consegnò a Hasunuma una forcina d’oro che era appartenuta da molto tempo alla famiglia, e disse:
«Mio vecchio e buon amico, prendi questa forcina. È una promessa di matrimonio di mio figlio, che si chiamerà Kōnojō, per la tua figlioletta
Hasu-ko, che adesso hanno entrambi due settimane. Possano trascorrere insieme una vita lunga e felice».
Hasunuma prese la forcina e la porse alla moglie perché la conservasse. Poi bevvero del saké per propiziarsi la buona sorte e per brindare alla sposa e a quelle nozze che si sarebbero celebrate dopo quasi vent’anni.
Alcuni mesi dopo Saito, per qualche motivo, cadde in disgrazia presso il suo signore e, licenziato dal servizio, lasciò Sendai con la famiglia senza che nessuno lo sapesse.
Diciassette anni dopo
Hasu-ko San era, con una sola eccezione, la più bella ragazza di tutta Sendai; l’eccezione era sua sorella O Kei, di appena un anno più giovane.
Molti aspiravano alla mano di
Hasu-ko, ma lei non volle saperne di nessuno di loro e rimase fedele all’impegno che il padre aveva preso a nome suo quando era bambina. A dire il vero, non aveva mai visto il promesso sposo, e (cosa ancora più strana) né lei né la sua famiglia avevano più avuto notizia della famiglia di Saito da quando avevano lasciato Sendai più di sedici anni prima; ma non c’era ragione al mondo per cui lei, una ragazza giapponese, rompesse la promessa del padre, e così Hasu-ko San rimase fedele al suo amato sconosciuto, malgrado soffrisse molto per il fatto di non vederlo. Tanta era la sua sofferenza, che si ammalò e tre mesi dopo morì, tra il cordoglio di tutti coloro che la conoscevano e la pena infinita della sua famiglia.
Il giorno del funerale di
Hasu-ko San la madre prestò al cadavere le ultime consuete cure. Aveva i capelli adornati con la forcina d’oro che Saito le aveva dato come pegno per il figlio Kōnojō. Quando il corpo fu nella bara, mise la forcina tra i capelli della ragazza e disse:
«Amatissima figlia, questa è la forcina che il tuo promesso, Kōnojō, ti ha lasciato per suo ricordo. Sia essa un pegno che leghi i vostri spiriti nella morte, così come avrebbero dovuto essere legati in vita; e che tu possa godere una felicità senza fine, questo è il mio voto e il mio desiderio».
Così pregando, la madre di
Hasu-ko pensava che anche Kōnojō doveva ormai essere morto e che i loro spiriti si sarebbero incontrati. Ma così non era, poiché due mesi dopo questi fatti lo stesso Kōnojō, ormai diciottenne, giunse a Sendai e per prima cosa fece visita al vecchio amico di suo padre Hasunuma.
«Oh, quanta amarezza e disperazione», disse quest’ultimo. «Solo due mesi fa mia figlia
Hasu-ko è morta. Se tu fossi arrivato prima, forse sarebbe ancora viva. Ma non hai mai mandato un messaggio, non abbiamo più sentito parlare di tuo padre e di tua madre. Che avete fatto dopo che siete andati via di qui? Raccontami tutta la storia».
«Mio signore», rispose l’afflitto Kōnojō «quanto mi dici della morte di tua figlia che speravo di sposare, getta il mio cuore nella disperazione, perché come lei sono rimasto fedele e ho sperato tanto di sposarla e non passava giorno senza che pensassi a lei. Quando mio padre portò via la famiglia da Sendai, ci condusse a Yedo, e poi procedemmo verso nord fino all’isola di Yezo, dove mio padre perse tutto il suo patrimonio e diventò povero. Morì in povertà, e la mia compianta madre non riuscì a sopravvivergli. Ho lavorato duramente per guadagnare abbastanza da sposare tua figlia
Hasu-ko, ma non ho potuto far altro che pagarmi il viaggio di ritorno fino a Sendai. Mi sono sentito in dovere di venire e di raccontarti le disgrazie mie e della mia famiglia».
Il vecchio samurai fu molto commosso da questo racconto e capì che il più sfortunato di tutti era stato proprio Kōnojō.
«Kōnojō», disse, «spesso ho pensato e mi sono chiesto se eri un uomo d’onore oppure no. Ora so che sei stato fedele e hai mantenuto la promessa di tuo padre. Ma avresti dovuto scrivere, avresti dovuto scrivere! Poiché non lo hai fatto, a volte mia moglie e io abbiamo pensato che fossi morto, ma abbiamo tenuto questo pensiero dentro di noi e non ne abbiamo mai parlato con
Hasu-ko San. Vai al nostro Butsudan [tempio di famiglia], apri le porte e brucia un bastoncino profumato sulla sua tomba. Sarà gradito al suo spirito. Ha desiderato ardentemente il tuo ritorno ed è morta per questo desiderio, per il suo amore per te. Il suo spirito sarà felice di sapere che sei tornato per lei».
Kōnojō fece come gli era stato detto.
S’inchinò rispettosamente tre volte davanti alla tomba di
Hasu-ko San, mormorò alcune parole di preghiera per lei, poi accese un bastoncino d’incenso e lo mise davanti alla tomba.
Dopo questa manifestazione di sincero affetto, Hasunuma disse al giovane che lo avrebbe considerato suo figlio adottivo e che avrebbe dovuto vivere con lui. Avrebbe abitato nella piccola casa che si trovava nel giardino. In ogni caso, quali che fossero i suoi progetti per il futuro, al momento avrebbe dovuto rimanere con loro. Era un’offerta generosa, degna di un samurai. Kōnojō accettò con gratitudine e diventò un membro della famiglia. Un paio di settimane più tardi si stabilì nella piccola casa all’estremità del giardino.
Quel giorno Hasunuma, la moglie e la loro seconda figlia, O Kei, per ordine del Daimio si erano recati all’Higan, una cerimonia religiosa che aveva luogo a marzo e a settembre; e anche Hasunuma rese onore alle tombe dei suoi antenati. Sul far della sera erano di ritorno nei rispettivi palanchini. Kōnojō si mise presso il cancello per assistere al loro passaggio, come esigeva la cortesia e il rispetto. Passò per primo il vecchio samurai, seguito dal palanchino di sua moglie, poi da quello di O Kei. Quando quest’ultimo attraversò il cancello, a Kōnojō parve di sentir cadere qualcosa che produsse un suono metallico. Dopo che il palanchino fu passato, lo raccolse senza prestarvi particolare attenzione.
Era la forcina d’oro, ma naturalmente, anche se il padre glie ne aveva parlato, Kōnojō non aveva idea che si trattasse proprio di quella, per cui non poté pensare altro che dovesse appartenere a O Kei San. Tornò alla sua piccola casa, la chiuse per la notte e stava per ritirarsi, quando udì bussare alla porta.
«Chi è là?», gridò. «Che volete?»
Nessuna risposta. Kōnojō si mise a letto, pensando di essersi sbagliato.
Ma ecco un altro colpo alla porta, più forte del primo. Kōnojō saltò fuori dal letto e accese la lampada.
«Se non è una volpe o un tasso», pensò, «deve trattarsi di uno spirito maligno che viene a disturbarmi».
Aprendo la porta con la lampada in una mano e un bastone nell’altra, Kōnojō guardò fuori nell’oscurità e qui, con suo grande stupore, gli apparve una visione di bellezza femminile quale mai aveva visto prima.
«Chi sei e che cosa vuoi?», chiese.
«Sono O Kei San, la sorella minore di
Hasu-ko», rispose la visione. «Anche se non mi hai mai visto, io ti ho visto tante volte e mi sono così innamorata di te, che non posso pensare ad altro che a te. Quando stasera al nostro ritorno hai raccolto la mia forcina d’oro, è stato perché l’ho fatta cadere per avere una scusa per venire a bussare alla tua porta. In cambio tu devi amarmi, altrimenti morirò!»
Questa dichiarazione infuocata e immorale scandalizzò il povero Kōnojō. Inoltre sapeva che avrebbe commesso una terribile ingiustizia nei confronti del suo gentile ospite Hasunuma, se avesse accolto sua figlia a quell’ora della notte e avesse fatto l’amore con lei, e glie lo disse con energia e decisione.
«Se non mi amerai come io amo te, mi vendicherò», disse O Kei, «e dirò a mio padre che mi hai fatta venire qui per far l’amore con te e che poi mi hai oltraggiata».
Povero Kōnojō! Proprio un gran brutto pasticcio! La sua paura peggiore era che la ragazza facesse quello che aveva detto, che il samurai le avesse creduto e che l’avrebbe trattato alla stregua di una persona ignobile e spregevole. Perciò acconsentì alle richieste della ragazza. Notte dopo notte lei gli faceva visita, finché trascorse un mese. In questo periodo in Kōnojō era nato un amore ardente per la bella O Kei. Parlando con lei una sera le disse:
«Mia adorata O Kei, non mi piace questo amore segreto che c’è tra noi. Non è meglio che ce ne andiamo di qui? Se chiedessi a tuo padre la tua mano, rifiuterebbe, perché ero promesso a tua sorella».
«Sì», rispose O Kei, «hai ragione, anch’io ci stavo pensando. Lasciamo questo posto stanotte stessa e andiamo a Ishinomaki, il luogo dove mi hai detto che vive un fedele servitore di tuo padre di nome Kinzo».
«Sì, Kinzo è il suo nome e il luogo è Ishinomaki. Partiamo il più presto possibile».
Infilarono un po’ di vestiti in una sacca, partirono in segreto e a tempo debito arrivarono a destinazione. Kinzo fu lieto di accoglierli e di dar prova di tutta la sua ospitalità al figlio del suo ultimo padrone e a quella bella signora.
Vissero felicemente insieme per un anno, poi un giorno O Kei disse:
«Penso che ora dovremmo tornare dai miei genitori. All’inizio saranno stati arrabbiati con noi, ma poi avranno pensato che sia successo qualcosa di terribile. Non abbiamo mai scritto. Col passare del tempo saranno stati sempre più in pena per me. Sì, dobbiamo tornare».
Kōnojō fu d’accordo. Già da un po’ si era reso conto del torto che stava facendo a Hasunuma.
Il giorno dopo tornarono a Sendai, e Kōnojō si sentiva molto agitato nell’avvicinarsi alla casa del samurai. Si fermarono presso il cancello esterno, e O Kei disse a Kōnojō:
«Penso sia meglio che tu vada e ti presenti a mio padre e mia madre. Se si mostreranno molto adirati, mostra loro questa forcina d’oro».
Kōnojō si fece coraggio, si diresse verso la porta e chiese udienza con il samurai.
Prima che il servitore facesse in tempo a ritornare, Kōnojō udì il vecchio esclamare:
«Kōnojō San! Ma certo! Fallo subito entrare!», e lui stesso andò a dargli il benvenuto.
«Mio caro ragazzo», disse il samurai, «sono veramente lieto di rivederti. Mi è molto dispiaciuto che tu non abbia trovato abbastanza gradevole vivere con noi. Avresti potuto dirmi che te ne saresti andato. Ma credo che tu abbia preso da tuo padre in queste cose e abbia preferito sparire misteriosamente. Comunque, bentornato!»
Kōnojō fu sbalordito da queste parole e rispose:
«Mio signore, sono tornato per chiederti perdono della mia colpa».
«Quale colpa hai commesso?» chiese il samurai molto sorpreso alzandosi in atteggiamento di grande dignità.
Allora Kōnojō gli fece un resoconto completo della sua storia con O Kei. Raccontò tutto dall’inizio alla fine, e man mano che procedeva, il samurai dava segni d’impazienza.
«Non scherzare, ragazzo! Mia figlia O Kei San non è cosa su cui scherzare e mentire! È come morta da più di un anno, così malata che siamo riusciti a malapena a nutrirla forzandole un po’ di cibo in bocca. E come se non bastasse, non ha più detto una parola né dato segni di vita!»
«Non sto mentendo né scherzando», disse Kōnojō. «Se esci, troverai O Kei nel palanchino in cui l’ho appena lasciata».
Un servitore fu subito mandato a vedere, e al ritorno affermò che al cancello non c’erano né palanchini né persone.
Kōnojō, vedendo che il samurai cominciava a mostrarsi contrariato e arrabbiato, estrasse dai vestiti la forcina d’oro e disse:
«Guarda! Se dubiti di me e pensi che stia mentendo, questa è la forcina che O Kei mi ha dato perché te la portassi».
«Bik-ku-ri-shi-ta!» esclamò la madre di O Kei. «Come è arrivata questa forcina nelle tue mani? L’ho messa personalmente nella bara di
Hasu-ko San poco prima che fosse chiusa».
Il samurai e Kōnojō si guardarono tra loro, poi si voltarono a guardare la madre. Nessuno sapeva cosa pensare o cosa dire. Immaginatevi la sorpresa generale quando O Kei entrò nella stanza dopo essersi alzata dal letto come se non fosse mai stata malata. Era il ritratto della salute e della bellezza.
«Com’è possibile questo?», chiese il samurai quasi gridando. «Com’è possibile, O Kei, che ti sia alzata dal letto vestita, con i capelli acconciati e un aspetto come se non fossi stata malata neanche un attimo?»
«Non sono O Kei», fu la risposta, «ma lo spirito di
Hasu-ko. Grande è stata la mia disgrazia nel morire prima del ritorno di Kōnojō San, poiché se fossi vissuta fino a quel momento, sarei guarita e mi sarei sposata con lui. Così invece il mio spirito era infelice. Allora ho assunto le sembianze della mia adorata sorella O Kei e per un anno ho vissuto felice nel suo corpo insieme a Kōnojō. Ora finalmente il mio spirito è soddisfatto, e posso riposare in pace».
«Ma c’è ancora una cosa che devo fare, Kōnojō», disse la ragazza rivolgendosi a lui. «Tu dovrai sposare mia sorella O Kei. Se lo farai, il mio spirito riposerà veramente in pace, e O Kei riacquisterà la forza e la salute. Mi prometti che sposerai O Kei?»
Il vecchio samurai, la moglie e Kōnojō furono sbalorditi di tutto questo. L’aspetto della ragazza era quello di O Kei, ma la voce e gli atteggiamenti erano quelli di
Hasu-ko. Inoltre la forcina d’oro era una prova in più. La madre lo sapeva bene: lei stessa l’aveva infilata fra i capelli di Hasu-ko poco prima che la bara fosse chiusa. Di questo era assolutamente certa.
«Ma», disse infine il samurai, «O
Hasu-ko è morta ed è stata seppellita più di un anno fa. La tua apparizione è quantomeno sconcertante per tutti noi. Per quale motivo ci dai queste pene?»
«Ve l’ho già spiegato», riprese la ragazza. «Il mio spirito non avrebbe potuto riposare in pace fino a quando non avessi vissuto con Kōnojō, che sapevo essermi fedele. Ora questo è compiuto, e posso avere la mia pace. Il mio solo desiderio è quello di vedere Kōnojō sposare mia sorella».
Hasunuma, la moglie e Kōnojō si consultarono. I due erano ormai pronti alle nozze di O Kei, e Kōnojō non aveva obiezioni.
Dal momento che tutto era sistemato, la ragazza fantasma tese la mano a Kōnojō e disse:
«Questa è l’ultima volta che tocchi la mano di
Hasu-ko. Addio, miei adorati genitori! Addio a tutti voi!»
Poi diventò sempre più debole e sembrò morta, e così rimase per circa mezz’ora, mentre gli altri, sopraffatti dalle cose strane e misteriose a cui avevano assistito, stavano seduti intorno a lei senza dire una parola.
Dopo mezz’ora il corpo tornò alla vita e, alzandosi in piedi, disse:
«Miei cari genitori, non abbiate più paura per me. Mi sento di nuovo perfettamente bene, ma non riesco a capire come ho fatto a uscire dalla mia stanza vestita e acconciata così, né perché mi sento tanto bene».
Le furono poste molte domande, ma ben presto fu chiaro che O Kei non sapeva nulla di quanto era accaduto, né dello spirito di
Hasu-ko San o della forcina d’oro.
Una settimana dopo lei e Kōnojō si sposarono, e la forcina d’oro fu offerta al tempio di Shiogama, dove fino a non molto tempo fa la gente si recava in preghiera e venerazione.

 
 
 

La Campana di Mugen

Post n°46 pubblicato il 25 Febbraio 2012 da kaori_chan

Otto secoli or sono i sacerdoti di Mugenyama, nella provincia di Totomi, desideravano una grande campana per il loro tempio e chiesero alle fedeli di aiutarli offrendo i loro specchi di bronzo per il metallo con cui fabbricare la campana.
Ancor oggi, nei cortili di alcuni templi giapponesi è possibile vedere mucchi di vecchi specchi di bronzo offerti per questo motivo. Una grande raccolta di questo genere si trova nel cortile di un tempio della setta di Jodo, ad Hakata, sull’isola di Kyûshû: gli specchi erano stati donati per fabbricare una statua di bronzo di Amida alta dieci metri.
A quel tempo c’era una giovane donna, la moglie di un contadino, che viveva a Mugenyama e offrì il suo specchio al tempio per la campana. Ma poco dopo cominciò a rimpiangere molto lo specchio. Ricordava quello che le aveva detto sua madre su quell’oggetto e che era appartenuto non solo a sua madre, ma alla madre di sua madre e alla madre di questa, e ricordava i sorrisi felici che aveva riflesso. Naturalmente, se avesse offerto ai sacerdoti una certa somma di denaro in cambio dello specchio, avrebbe potuto richiedere indietro quel cimelio di famiglia. Ma non aveva il denaro necessario. Ogni volta che si recava al tempio vedeva il suo specchio nel cortile dietro una ringhiera, insieme a centinaia di altri specchi ammucchiati lì tutti insieme. Lo riconosceva dallo Sho-Chiku-Bai in rilievo sul lato posteriore, i tre simboli portafortuna del pino, del bambù e del fiore di susino che avevano incantato i suoi occhi di bambina quando sua mamma le aveva mostrato lo specchio per la prima volta. Desiderava che si presentasse l’occasione di rubare lo specchio e nasconderlo, dopodiché l’avrebbe sempre custodito gelosamente. Ma l’occasione non si presentò, e lei diventò molto infelice, provava la sensazione di avere stupidamente gettato via una parte della sua vita. Ripensava al vecchio detto secondo cui uno specchio è l’Anima di una Donna (un’espressione misticamente riportata con caratteri cinesi sul retro di molti specchi di bronzo) e aveva paura che fosse molto più vera e fatidica di quanto avesse mai immaginato. Ma non osava confidare a nessuno le sue paure.
Ora, quando tutti gli specchi furono offerti per la campana di Mugenyama e furono mandati alla fonderia, i fonditori si accorsero che fra questi ce n’era uno che non voleva fondersi. Provarono tante volte a fonderlo, ma lo specchio resistette a tutti i loro sforzi. Era chiaro che la donna che aveva offerto lo specchio al tempio si era pentita del dono. Non aveva presentato l’offerta con tutto il cuore, e quindi la sua anima egoista, essendo rimasta unita allo specchio, lo rendeva duro e freddo in mezzo alla fornace.
Naturalmente tutti vennero a conoscenza della cosa e ciascuno seppe qual era lo specchio che non si poteva fondere. E a causa della diffusione di questa sua colpa segreta, la povera donna si sentì piena di vergogna e si arrabbiò moltissimo. E non potendo sopportare la vergogna, si annegò, dopo avere scritto una lettera d’addio che conteneva queste parole:
“Quando sarò morta, non sarà difficile fondere lo specchio e colare la campana. Ma la persona che spezzerà la campana suonandola riceverà dal mio spirito grande ricchezza è prosperità”.
Bisogna sapere che l’ultimo desiderio o l’ultima promessa di una persona che muore adirata o si suicida si crede possieda una forza soprannaturale. Dopo che si riuscì a fondere lo specchio della donna e a colare la campana, la gente si ricordò delle parole di quella lettera. Si sentivano certi che lo spirito della donna avrebbe dato ricchezza e prosperità a chi avesse spezzato la campana e, non appena questa fu appesa nel cortile del tempio, accorsero in massa per suonarla. Maneggiavano il batacchio con tutte le forze, ma la campana dimostrò di essere una buona campana e resistette coraggiosamente a ogni assalto. Malgrado ciò la gente non si lasciò scoraggiare con tanta facilità. Un giorno dopo l’altro, a tutte le ore, continuarono a suonare furiosamente la campana, senza fare il minimo caso alle proteste dei sacerdoti. E così quel suono diventò un tormento, finché i sacerdoti non riuscirono più a resistere e si liberarono della campana facendola rotolare giù dalla collina dentro una palude. La palude era profonda e la inghiottì, e questa fu la fine della campana. Rimase solo la sua leggenda.

 
 
 

Il filo rosso del destino

Post n°45 pubblicato il 14 Febbraio 2012 da kaori_chan

In Giappone si dice che ogni persona quando nasce porta un filo rosso legato al mignolo della mano sinistra. Seguendo questo filo, si potrà trovare la persona che ne porta l'altra estremità legata al proprio mignolo: essa è la persona cui siamo destinati, il nostro unico e vero amore, la nostra anima gemella.

Le due persone così unite, prima o poi, nel corso della loro vita, saranno destinate ad incontrarsi, e non importa il tempo che dovrà trascorrere prima che ciò avvenga, o la distanza che le separa, perchè quel filo che le unisce non si spezzerà mai, e nessun evento o azione potrà impedire loro di ritrovarsi, conoscersi, innamorarsi.

Durante la Dinastia Tang c’era un tale di nome Wei i cui genitori morirono quand’era ancora molto giovane. Una volta diventato grande desiderava ardentemente sposarsi e avere una famiglia, ma purtroppo, per quanto la cercasse, non riusciva a trovare una moglie.
Mentre era in viaggio, giunse un giorno in una città di nome Song, dove trovò alloggio in una locanda. Lì incontrò uno sconosciuto al quale, chiacchierando, espose le proprie difficoltà. L’altro gli disse che la figlia del governatore della città sarebbe stata un buon partito per lui, e si offerse di parlare con il padre della ragazza. Dopodiché i due decisero di rincontrarsi il mattino dopo di buon’ora davanti al tempio vicino alla locanda.
In preda all’ansia, Wei giunse al tempio prima dell’alba, quando la luna era ancora alta in cielo. Sui gradini del tempio, appoggiato con la schiena a un sacco, sedeva un vecchio, intento a leggere un libro alla luce della luna.
Avvicinandosi e data un’occhiata alle pagine da sopra la spalla del vecchio, Wei si accorse di non poterne leggere neppure una parola.
Allora, incuriosito, gli chiese: “Signore, che libro è quello che stai guardando? Fin da bambino ho studiato parecchie lingue e conosco molte scritture, ma mai in vita mia ho visto un libro simile.”
Il vecchio rispose sorridendo: “E’ un libro proveniente dall’Aldilà”.
“Ma se tu vieni da un altro mondo, che ci fai qua?” chiese Wei.
Prima di rispondere il vecchio si guardò attorno, quindi disse: “Ti sei levato molto presto. Di solito non c’è in giro nessuno, tranne quelli come me. Noi dell’Aldilà, incaricati di occuparci delle faccende umane, dobbiamo andare qua e là tra gli uomini, e spesso lo facciamo nella luce crepuscolare dell’alba”
“E di che ti occupi?”
“Dei matrimoni” replicò l’altro.
Allora Wei gli aprì il suo cuore: “Sono solo al mondo fino dall’infanzia, e da molto tempo avrei voluto sposarmi e avere una famiglia. Per dieci anni ho cercato invano una sposa. Adesso spero di sposare la fanciulla del maresciallo. Dimmi, si realizzerà la mia speranza?”
Il vecchio guardò il libro e rispose: “No. Non è la persona a te destinata. In questo momento quella che sarà tua moglie ha solo tre anni, e la sposerai quando ne avrà diciassette.”
Deluso dall’idea di dover aspettare tanto, Wei notò il sacco cui il vecchio si appoggiava e gli chiese cosa contenesse.
“Filo rosso per legare i piedi di mariti e mogli. Non lo si può vedere, ma una volta che sono legati non li si puo’ più separare. Sono già legati quando nascono, e non conta la distanza che li separa, né l’accordo delle famiglie, né la posizione sociale: prima o poi si uniranno come marito e moglie. Impossibile tagliare il filo. Sicchè, visto che sei già legato alla tua futura moglie, non c’è niente da fare” rispose il vecchio.
E alla nuova domanda di Wei il vecchio replicò che la futura sposa non viveva lontana da lì, e che era la figlia della vecchia Chen, che aveva un banco sul mercato.
“Posso vederla?”
“Se davvero lo desideri, te la mostrerò, ma ricordati che il tuo futuro non cambierà.”
Ormai l’alba era spuntata e, visto che l’uomo che attendeva non si vedeva, Wei tutto eccitato seguì il vecchio al mercato.
Dietro la bancarella di frutta e verdura stava una povera vecchia cieca da un occhio, con una bambinetta al collo di circa tre anni, tutte e due vestivano di stracci.
“Ecco tua moglie” fece il vecchio indicando la piccina, e Wei replicò in preda alla delusione: “E se io la uccidessi?”
“E’ destinata a portare ricchezze, onori e rispetto alla tua famiglia. Qualsiasi cosa tu faccia, non puoi cambiare il destino” e così dicendo il vecchio scomparve.
Profondamente deluso e incollerito con il messaggero dell’oltretomba, Wei lasciò il mercato con intenzioni omicide. Trovato un coltello e resolo affilato come un rasoio, lo diede al suo servo dicendogli: “Hai sempre eseguito i miei ordini. Adesso va’ a uccidere quella bambina, e io ti compenserò con cento pezzi di rame.”
Il giorno dopo il servo, nascosto il coltello nella manica, andò al mercato e, celato tra la folla, si fece strada fino alla vecchia e alla bambina. Di colpo cavò il coltello, colpì la piccola, si voltò e scappò via, confondendosi con la folla strillante in preda al panico.
“Ci sei riuscito?” gli chiese Wei quando il servo si presentò.
“Ho cercato di colpirla al cuore, ma invece l’ho colpita tra gli occhi”
Il ragazzo ricevette il compenso pattuito e Wei, sollevato all’idea di essere libero di sposare chi volesse, continuò la sua solita vita, e col tempo si scordò dell’intera faccenda.

Tuttavia i suoi tentativi di trovare moglie furono vani, e così trascorsero quattordici anni. A quell’epoca lavorava in una località chiamata Shiangzhou, e le cose gli andavano molto bene, tanto che il suo superiore, il governatore locale, gli offrì in moglie la propria figlia. Così finalmente Wei ebbe una moglie bella e di ottima nascita, una diciassettenne che amava moltissimo.
Non appena la vide Wei notò che la ragazza portava sulla fronte una pezzuola che non si toglieva mai, neppure per lavarsi e dormire. Non le chiede nulla, ma la cosa non cessava di incuriosirlo. Poi, parecchi anni dopo, si ricordò all’improvviso del servo e della bambina al mercato, e decise di chiedere alla moglie la ragione della pezzuola.
Piangendo lei gli rispose: “Non sono la figlia del governatore di Shiangzhou, bensì sua nipote. Un tempo mio padre era il governatore di una città di nome Song, e la morì. Ero ancora piccola quando morirono anche mia madre e mio fratello. Allora la mia governante, la signora Chen, ebbe pietà di me e mi prese con sé. Avevo tre anni quando mi porto con sé al mercato, dove un pazzo mi accoltellò. La cicatrice non è scomparsa, e per questo la copro con una pezzuola. Circa sette od otto anni fa, mio zio ritornò dal Sud e mi prese con sé, per poi maritarmi come se fossi stata sua figlia.”
“La signora Chen era per caso cieca da un occhio?” chiese Wei.
E la moglie stupita: “Sì, ma come lo sai?”
“Sono stato io a cercare di ucciderti” spiegò Wei profondamente commosso “Com’è strano il destino!”
Dopodiché raccontò l’intera storia alla moglie, e adesso che entrambi sapevano tutta la verità, si amarono più di prima.
Più tardi nacque loro un figlio che divenne un alto funzionario, e godettero di una vecchiaia felice e onorata.

 

Buon San Valentino :D

 
 
 
 

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