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PROMEMORIA SUL CASO LUSI di Franco Monaco - Senatore PD

Post n°691 pubblicato il 19 Giugno 2012 da marcozio1
 
Foto di marcozio1

 

In tema di rapporto tra soldi e politica, è nostro preciso dovere riflettere sul caso Lusi. Non ci è possibile esorcizzarlo. Un caso, sia chiaro, con il quale il PD non ha nulla a che vedere, ma che non ci esonera da una riflessione di ordine generale circa i partiti, il loro finanziamento, la destinazione delle loro risorse, le responsabilità nella gestione e nel controllo di esse.

Vi sono precise e manifeste responsabilità personali di rilievo penale in capo al protagonista principe. Di esse si sta occupando la magistratura. Mi limito a una sola osservazione: dimensioni e modi della sottrazione di denaro sono così clamorosi da risultare sconcertanti. È persino materia da psicologi e qui ci fermiamo, per passare alle radici del problema, per ricavare dal caso Lusi una lezione e un promemoria. Mettiamo in fila i problemi che esso ci consegna.

Primo: girano troppi soldi. Come per il caso Lega, a monte sta la contraddizione di tesorieri di partito che si trasformano in operatori finanziari, impegnati a investire denaro che evidentemente sopravanza il costo delle attività politiche conformi a legge e fini statutari di partito.

Dunque, in primo luogo, si deve procedere a una cura dimagrante, a ridurre sensibilmente il volume dei finanziamenti. Tagli ma anche riforma di essi, nel senso di un di più di trasparenza, di controlli, di mixaggio tra finanziamento pubblico ed erogazioni liberali (da incentivare, ma fissando limiti ed assicurando la loro pubblicità), di connessione con la certificata democraticità della vita interna ai partiti in conformità all’art. 49 della Costituzione. A Dio piacendo, sembra che finalmente si siano avviate in sede parlamentare concrete iniziative di legge che vanno in tale direzione.

Secondo. Sino a prova contraria, siamo tenuti a credere che i vertici della Margherita nulla sapessero di tali distrazioni e maneggi. Anche se, diciamo la verità, considerate le modalità e le dimensioni del fenomeno, non è facile convincersene. Resta tuttavia la responsabilità politica (non penale) di chi ha dato fiducia a quell’amministratore infedele e, per lunghi anni, lo ha conservato e confermato in quella funzione.

Per statuto e per consuetudine, il tesoriere è persona di stretta fiducia del vertice del partito e, più precisamente, del suo leader. Così notoriamente anche nel nostro caso. Terzo: il vistoso deficit di controlli interni ed esterni. Quelli interni hanno un nome e un cognome: i revisori dei conti e il Comitato di tesoreria del partito. Quelli esterni si concretano in quei funzionari della Camera dei deputati presso la quale la legge prescrive siano depositati i bilanci quale condizione per l’erogazione del finanziamento pubblico. Ora ci informano che il loro potere di controllo è limitato e che i bilanci erano contraffatti con diabolica abilità. Può essere. Resta tuttavia la domanda: è normale che a scoprire la patologia siano solo a valle i magistrati? Problema cruciale cui urge porre rimedio.

Quarto. Abbiamo premesso che il PD non c’entra. Lo confermiamo. Salvo un peccato d’origine, all’atto della sua nascita. Alla fusione politica tra Ds e Margherita non si accompagnò una fusione altrettanto limpida e compiuta delle rispettive risorse.

Conosciamo la ragione: l’asimmetria delle condizioni. I Ds con un cospicuo debito arretrato accumulato nel tempo, a fronte del quale tuttavia essi disponevano di un ricco patrimonio immobiliare confluito in una apposita fondazione; la Margherita senza debiti, anzi in attivo, e per converso priva di un suo patrimonio.

Un problema, un grana che non è stata affrontata. Oggi possiamo dire che fu un errore non impegnarsi a risolverla. Ci sarebbero voluti intelligenza, coraggio, applicazione, vincendo reciproche diffidenze e la resistenza di vecchi “sancta santorum”. Ma è la politica che deve guidare la cassa, non viceversa, e la politica aveva fatto la scelta audace e saggia dell’unità. Se si fosse seguita quella strada, si sarebbero fatte accurate verifiche, precisi inventari e il tesoriere di un partito disciolto non avrebbe potuto scorrazzare per quattro lunghi anni con assegni e bonifici milionari.

Quinto: a quanto si è inteso, le risorse non sottratte illecitamente alla Margherita sono state destinate ad attività politiche di persone e associazioni che fanno capo ad esponenti che militavano in quel partito. Destinazioni conformi alle legge. Ma sulla base di quali criteri? A quanto si è inteso, le destinazioni erano a totale, assoluta discrezionalità di uno come Lusi. Non il massimo della garanzia. Lo ripeto: finanziamenti leciti se e in quanto finalizzati ad attività politiche. Si pone tuttavia un serio problema etico e politico: quello dell’alterazione della competizione democratica, della concorrenza sleale, di piccole leadership costruite sulla disponibilità privilegiata di risorse. Accessibili ad alcuni e non ad altri.

E ancora: tra costoro figura anche chi ha lasciato il PD per dare vita a iniziative altre e concorrenti, in contrasto con l’approdo politico deliberato formalmente dagli organi di Margherita e dunque semmai naturale destinatario di quelle risorse. Sesto. Una lettura retrospettiva suggerisce che, all’esito malato, forse non sono estranee la natura e la struttura di Margherita. Non voglio essere frainteso: va fatto salvo l’onore di elettori, militanti e dirigenti di quel partito, ma questo non ci esonera da una riflessione critica sulle radici politiche della degenerazione, dentro la “costituzione materiale” di quel partito.

Due in particolare: una leadership marcatamente personale e una struttura federativa tra componenti separate e mai per davvero rimescolate dalla politica. Una leadership personale che teneva strette a sé la comunicazione e le risorse; una struttura tripartita di rutelliani, Popolari, ulivisti, tra loro poco o nulla permeabili.

Qualcuno – penso a Gad Lerner – in chiave retrospettiva ha sollevato un signor problema evocando il grave errore originato da una sciagurata assemblea di Margherita del 2005 che condusse, nel 2006, a liste separate tra Ds e Margherita anziché alla lista unitaria dell’Ulivo al Senato (con l’assurdità di due campagne schizofreniche Camera-Senato e il risultato di due punti percentuali in meno a palazzo Madama, cui non fu estraneo il calvario del secondo governo Prodi in quel ramo del parlamento).

A quel colpevole errore, dicevo, è del tutto estranea la cura di preservare l’autonoma e distinta gestione delle risorse? In tutta franchezza, non so dare una risposta. Credo che a quella infelice decisione abbiano condotto semmai velleitari particolarismi di partito e mediocri ambizioni personali. Non la cassa. E tuttavia la domanda non è in assoluto peregrina. Resta il fatto che il prezzo pagato a quell’errore politico è stata la caduta del Prodi 2, la bruciante sconfitta del 2008 e i tre anni di Berlusconi che sono seguiti.

Non è poco.

Fonte www.tamtamdemocratico.it

 

 
 
 
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Data di creazione: 23/10/2010
 

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