Creato da Ahira28 il 05/02/2008

TraMe e Me

storie, trame, racconti di viaggi e di persone

 

 

Il tatuaggio

Post n°14 pubblicato il 10 Febbraio 2009 da Ahira28
 
Foto di Ahira28

 

E' mattina.

La luce che filtra dai buchi della tapparella, disegna un prato sul letto disfatto.

Un raggio colpisce il tatuaggio sul tuo braccio. Dormi. Lo sento dal ritmo del respiro lento e profondo.

Ho voglia di fumare. Dopo sette anni che ho smesso, stamattina ho voglia di nuovo. Finirà mai?

Mi sposto, piego la testa fino a farmi centrare lo sguardo da un raggio di luce abbagliante, e penso.

Che ci faccio in questo letto con te?

Ieri sera l'idea mi piaceva. O forse non ci ho neanche pensato.

Ieri sera era il logico risultato di sei mesi di parole digitate sullo schermo e forse anche di un bicchiere di troppo.

Non eri una persona ieri sera, eri un'estensione delle mie fantasie su di te. Perfetto.

Stamattina invece sei un respiro, un odore, un curioso tatuaggio di lettere cirilliche e ideogrammi. E mi da fastidio starti sdraiata vicino.

Sposto il cuscino e mi appoggio alla testata del letto.

La luce accarezza la curva delle tue natiche. Un bel culo. Non so perché mi viene da ridere.

Ora mi alzo e mi faccio la doccia. Ma se faccio casino e ti svegli mi tocca inventare un balletto di sorrisi. E non ne ho voglia.

Non ho voglia di buongiorni, di colazioni, di  - Scusa mi passi il cornetto?-  di - Allora t'è piaciuto?-  - ci si rivede?- .

Oddio… ci si rivede...

Mi vesto in silenzio e scappo come una cenerentola mattiniera.

Mi sembra la cosa più cretina che si possa fare, la più definitiva. L'unica è farla subito. Mi alzo e mi gira un po' la testa. M'infilo i pantaloni saltellando su una gamba sola, ma piano.

Cazzo…lo specchio. Sorrido. Abbiamo staccato dal muro anche quello per rimirarci e neanche ti vedevo.

Speriamo che ho preso tutto.

Mi sento vigliacca. Il tuo odore addosso mi fa un po' schifo. Però mi piacerebbe farmi un tatuaggio come il tuo. Per ricordo.

 
 
 

Rimini: bagno 79

Post n°13 pubblicato il 09 Febbraio 2009 da Ahira28
 
Foto di Ahira28

Simone

 

 

 

Era arrivata di mercoledì, e si sa che le settimane al mare cominciano di sabato.

 

L'unica bianca in una spiaggia di peperoni rossi e di noi, abbronzatissimi locali. Forse è per questo che la notai al volo.

 

Piccola, minuta, un bel sorriso, un costume nero a fiorellini, avrà avuto sedici anni. M'era subito venuta voglia di parlarle.

 

Però di sorriso in sorriso eravamo arrivati a sabato e neanche ero riuscito a dirle ciao.

 

Stava al bancone del bar quando arrivai, quella domenica.

 

Non so nemmeno come feci a vederla, erano tutti lì per la Ferrari, un pienone e tutti davanti alla televisione. M'avvicinai e le sorrisi, poi ci fu la partenza.

 

- SSiii - le sentii pronunciare, mentre la rossa scattava in testa.

 

Le caddero le patatine, mentre si chinava a raccoglierle intercettai il suo sguardo e le sorrisi di nuovo.

 

Ogni tanto buttavo lì uno sguardo ma non sapevo proprio come incominciare.

 

Aveva una pelle liscia, tutta uguale come un gelato alla nocciola. Che sofferenza non allungare una mano per toccarla. Il profumo del suo solare, qualcosa di misto vaniglia e cioccolato, m'andava dritto in testa .

 

Stare lì impalato e non guardarla era difficile e per non fare la figura dello scemo ad un certo punto me ne andai.

 

Più tardi, dopo che la Ferrari aveva vinto, la puntai mentre andava a farsi il bagno.

 

- Bella gara eh? - Oddio, sì, le dissi proprio così… bella gara, e neanche l'avevo vista.

 

Però da quel giorno io e Francesca diventammo amici.

 

Ce ne stavamo insieme quasi tutta la giornata, bagno, passeggiata, pallavolo, non parlavamo tanto, ma stavamo bene insieme. I suoi ci lasciavano fare.

 

Poi le chiesi se voleva uscire con me.

 

Quando mi disse di sì mi resi conto che non avevo programmato niente, e chi ci credeva che avrebbe accettato.

 

Quella sera avevo le formiche in corpo. Mi sembrava che l'ora non arrivasse mai, poi avevo paura che succedesse qualcosa, qualunque cosa.

 

Mi sentivo un dio a portarmela in giro per le vetrine e ridevo e rideva anche lei.

 

Quando mi disse che restava fino alla fine del mese le misi un braccio intorno all spalle e la strinsi.

 

Fu due o tre giorni dopo che la portai alla rimessa delle barche.

 

Giovanni mi lasciava la chiave per fare i lavoretti e di sera non c'era mai nessuno.

 

Avevo paura che il cuore si sentisse da fuori. Era la prima volta che facevo una cosa del genere.

 

Partì due settimane dopo.

 

Dopo averla salutata andai a pattinare. Non pensavo a niente quando pattinavo. Da solo su quella spianata bianca, accecante, io e il rumore delle ruote. Mi sembrava di tagliuzzare il dolore in ognuno dei giri e rigiri delle ruote.

 

 

 

***

 

Gilberto

 

  

Ero ancora piccolo quell'anno. L'ultimo di un branco che cominciava a sfaldarsi.

 

Mauro s'era fidanzato con la Gina a ottobre e con noi non ci veniva più. Paolo era partito per il militare. Luca ancora scriveva a quella di Torino e non ci raccontava più niente. Enrico e Franco s'erano comprati la moto e Simone era stato sempre più sveglio di me.

 

 

 

L'estate cominciò presto, non mi piaceva andare in spiaggia all'inizio,  ci si trovavano solo le vecchie e ragazzini, però Giovanni mi aveva chiesto se l'aiutavo a sistemare le cose prima della stagione. A scuola andavo bene e qualche soldo in tasca non mi dispiaceva.

 

Mi ricordo che andai giù la prima volta di Giovedì, avevo religione e ginnastica insieme, erano aperti solo tre o quattro ombrelloni.

 

Mi piaceva smartellare, piantare i chiodi, mi sfogavo. Se lavoravo con le mani non pensavo tanto, e in quel periodo certe volte mi sembrava che la testa non potesse fermarsi mai.

 

La vidi la prima volta che stavo sistemando una sdraio. Non era bella. Insomma, neanche male. Stava sdraiata sul lettino, occhiali da sole e tette al vento.

 

Dovevo fermare la tela con qualche chiodo ma gli occhi mi schizzavano su di lei e il martello sulle dita. Non fiatai nemmeno quando mi presi di brutto, e quell'unghia nera, poi,  me la ricordò per tutta l'estate.

 

Mi sembrava che mi guardasse da dietro gli occhiali. Io invece buttavo lo sguardo tra le gambe, sulla striscetta turchese del costume, cercando di immaginarmi il resto. Lei non si sottraeva, sembrava divertita. Era come un gioco. Io guardavo e lei si faceva guardare, almeno mi piaceva pensarlo. Di tanto in tanto mi toccava piegarmi e nascondermi così decisi di comprarmi un bermuda lungo e largo, per stare tranquillo.

 

 

 

Le mattine dopo facemmo conoscenza. Mi chiese di prenderle un giornale, il caffè, spostarle la sdraio. Io trovavo sempre qualche cosa da sistemare intorno al suo ombrellone e si ricominciava. Lei si metteva in posa e io guardavo. Avrà avuto sui quarant'anni, forse più.

 

Avevo l'impressione che lo facesse apposta, e il pensiero mi faceva tremare le mani mentre lavoravo e cercare qualcosa intorno a lei da fare. Non riuscivo più a sottrarmi, neanche quando Giovanni cominciò a prendermi in giro.

 

 

 

Chiacchieravamo certe volte. Mi faceva i complimenti. Poi un giorno mi chiese di aiutarla a portare una borsa in albergo. Era leggera la borsa.

 

Finimmo a letto subito, fece tutto lei.

 

Stavo sdraiato, con gli occhi chiusi e lei mi chiese di guardarla, ma io ne avevo piene le tasche delle immagini e avevo solo voglia di sensazioni.

 

Mi ricordo che era morbida e tanta. Troppa per quello stecco che ero.

 

Mentre salivo le scale di casa mi faceva male la schiena. E quella sera mio padre non mi sembrò nemmeno tanto insopportabile.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

Paolo

 

 

 

Paolo tornò in licenza di venerdì, con dietro la morosa di Padova. Non mi piaceva. Federica era bella, alta, bionda, però aveva le gambe secche e un modo di guardare da disinvolta che mi metteva i brividi.

 

Cominciò subito a cinguettare con Franco. Gli parlava e intanto accarezzava il sellino della moto, lui ingoiava saliva e le guardava le mani. Paolo sembrava distratto, anzi era proprio un estraneo, aveva persino addosso un altro odore, di mele e di caserma. Non lo riconoscevo.

 

- Quella lì non mi piace - gli dissi quando fummo da soli, ma lui si fece una risata e mi disse che ero invidioso.

 

Sabato andammo in discoteca.

 

Avevo adocchiato una ragazzetta di Perugia e stavo sopra a bere con lei appoggiato alla balaustra. Federica stava di sotto, e se non fosse che proprio non la sopportavo, avrei detto che era bella. Ballava con Franco, poco più in là  Paolo faceva lo scemo col solito gruppo di anconetani.

 

Che successe dopo me lo raccontò più tardi Enrico.

 

Mi ritrovai Paolo davanti  - Prestami la moto - chiese, io ci rimasi male ma non fiatai.

 

- Mettiti il casco - dissi, ma lui rispose - Fanculo! -  Era incazzato.

 

 

 

Alle cinque ero ancora lì che lo aspettavo. La  perugina se n'era andata e io avevo voglia di tornare a casa. Enrico mi dette un passaggio.

 

Quando vidi tutte le luci accese a casa mia, mi venne un colpo.

 

- La moto! - pensai e mi sentii subito un verme.

 

Paolo lo avevano fermato dopo una rissa. Se l'era andata a prendere col solito gruppo di neri che stanno alla rotonda, perché aveva trovato Federica che dava un bacio a Franco, e loro lo avevano pestato per bene.

 

Lo riaccompagnai alla Stazione quattro giorni dopo.

 

- Begli occhi…sembri un panda - gli urlai dietro mentre partiva il treno.

 

- Quando torno t'ammazzo - Mi rispose, però mi sembrava proprio lui, finalmente.

 

E Panda gli rimase attaccato per sempre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

***

 

L'ultimo bagno

 

 

 

Stavamo seduti tutti e quattro sul muretto davanti al mare, un vento leggero faceva schioccare le falde degli ombrelloni. Dondolavamo i piedi e non parlavamo. Per diversi giorni il tempo non era stato bello e la spiaggia s'era svuotata.

 

Paolo era in Kossovo, proprio dall'altra parte del mare, dove quelle nuvole rosate camminavano veloci.

 

Mauro non s'era più visto, dopo la storia del romano con la Gina, non aveva più messo i piedi in spiaggia. Luca andava a Torino quasi ogni fine settimana.

 

Mi dispiaceva. Mi ricordavo l'estate precedente, i giri dietro le ragazze, la discoteca e le serate interminabili a discutere e a sfidarci in sala giochi.

 

Avrei voluto fare inversione ad u e ritornarci e invece era quasi di nuovo autunno e noi eravamo rimasti  solo in quattro.

 

- Si sta come in autunno sui rami le foglie - citò Enrico che gl'era presa fitta con la poesia. Simone gli diede una spinta e lui cadde di sotto. - Ecco le foglie cadono - sghignazzò ma Enrico si sedette sotto al muretto come se niente fosse.

 

- Ci pensate mai a Paolo voi? - fece Gilberto - Magari noi stiamo parlando e lui è morto -

 

Era la prima volta che pensavo a uno di noi morto davvero, certo c'erano gli incidenti, ma non sembrava mai una eventualità vera, mai avrei pensato che uno di noi sarebbe andato in guerra. Il silenzio si fece lungo, poi Franco scivolò di sotto.

 

- Tutti a farsi l'ultimo bagno - urlò - e chi arriva ultimo paga la birra a tutti -

 
 
 

Chi più ne ha più ne menta (diario di un'attrice)

Post n°12 pubblicato il 05 Febbraio 2009 da Ahira28
 
Foto di Ahira28

 


La prima bugia consapevole l'ho raccontata a zia Pia, la sorella più piccola di mia madre. Avevo dodici anni o poco più e lei diciotto. Avevo deciso di andare al campeggio insieme al suo gruppetto, solo che lei mi aveva già detto che non era neanche il caso di parlarne.


Orchestrai una messa in scena da consumata attrice, eravamo al mare stese sugli asciugamani troppo stretti, unte di quell'olio appiccicoso che andava di moda quell'estate, era al bergamotto se non ricordo male.


Cominciai dalla mattina a sfoderare un'aria assente e un po' triste, niente giochi, mezze risposte alle sue domande e sguardo fisso nel vuoto. A metà pomeriggio lei non ce la fece più e chiese cosa mi stava succedendo. Senza esagerare feci un po' la vaga e poi mentre riuscivo a farmi spuntare le lacrime, abilità che scoprii in quel momento, le raccontai che mia mamma mi aveva detto che tra lei e il babbo le cose non stavano andando bene.


- Zia ti prego non le dire niente, lei mi ha detto di non dirlo a nessuno e di lasciarla tranquilla che tutto si metterà per il meglio. Magari avrebbero bisogno di starsene un po' soli, senza me tra i piedi, ecco perché volevo venire con te al campeggio, ma non fa niente, cercherò di starmene per conto mio il più possibile.-


- Ma no… no… Piccola!- E mi abbracciò fortissimo al punto che le lacrime mi vennero sul serio dalla commozione che io stessa m'ero creata intorno.


Andai al campeggio. Mia zia insistette perché ci andassi e al ritorno fu felice di vedere i miei che andavano d'amore e d'accordo, una settimana dopo, mentre mi portava a scuola, mi dette anche il cinque per la nostra stupenda collaborazione a risolvere il caso familiare. Battei la mia mano sulla sua senza il minimo pentimento. A la guerre comme a la guerre, ragazze mie!


 


La prima bugia che raccontai per amore  fu a Leo, allora avevo diciassette anni. Lui era un amico di mio cugino e mi girava intorno ma non abbastanza, almeno non quanto e come avrei voluto io. Aveva ventun anni  e faceva la corte anche a Mirta, che era più grande di me di un anno e tutti dicevano che era una puttana.


Sei troppo piccola mi diceva Leo ridendo, io m'arrabbiavo.


La prima volta che mi ridisse "Sei troppo piccola" gli risposi guardandolo negli occhi "…Ma molto brava a letto". Le parole mi uscirono da sole e mentre le dicevo avrei voluto ritirarle dentro. Lui sgranò gli occhi ma poi per tutto il giorno fece finta di niente, salvo guardarmi di sottecchi appena giravo lo sguardo.


Non ero mai stata a letto con nessuno, quando mi chiese di andare a casa sua dissi di sì sperando non facesse troppo male. Male non fece, almeno non tanto quanto m'aspettavo, però la cosa mi sembrò sporca e sbrigativa. Forse non lo amo abbastanza pensai uscendo da casa sua e da quella volta non volli rivederlo.


 


La prima che raccontai per interesse fu a scuola di teatro.


La mattina del concorso d'ammissione mi ci volle un secondo per capire che di tutte le ragazze presenti ero la meno bella e anche la meno preparata.


Molte si erano già viste sugli schermi, altre erano talmente belle che avrebbero commosso qualsiasi giuria.


Eravamo tutti insieme in un'aula, il Maestro ti chiamava e ti chiedeva di recitargli lì una cosa improvvisata; il Maestro era Gasman, solo l'idea di provare a barare con lui ti faceva tremare le gambe.


- Signorina, mi racconti una bugia!-


Mi si accese la lampadina in testa e cominciai:


- Vorrei venire a letto con lei…- si fece un silenzio totale intorno a me, proseguii raccontando che avrei voluto andare a letto con lui per assicurami l'ammissione, e che a letto avrei avuto argomenti migliori che recitando e fui ammessa.


Il Maestro poi mi fece chiamare nel suo studio: - Signorina- mi disse con la sua voce omerica - Ho apprezzato il suo escamotage e la sua prontezza di spirito, sappia però che la sua recitazione è scarsa e dovrà lavorare molto sodo.


Vecchio balordo, escamotage un corno,  intanto ci sei caduto, hai creduto che non stessi affatto recitando, certo,  il tuo orgoglio di maschio s'era acceso e per me era significata l'ammissione.


 


La prima che raccontai per odio fu al mio ex marito.


Un anno di matrimonio, un breve e fottutissimo anno nel quale vidi sgretolare progressivamente l'amore, la complicità e la stima che mi avevano fatto mettere Marco in cima a tutti i miei pensieri.


S'innamorò della mia migliore amica, un classico, ero troppo indipendente per i suoi gusti.


Gli dissi che aspettavo un figlio quando lui era già a casa della mia ex amica e gli dissi anche che lo avrei abortito, visto che le cose stavano così. Non c'era nessun figlio ma lui ci restò male, sono certa che ancora oggi rimpiange il figlio che avrebbe potuto avere, e questo in parte mi ripaga della rabbia per il  tradimento.


 


La prima che raccontai per divertimento fu in uno show televisivo. Il solito conduttore del cavolo mi chiese se m'ero fatta qualche aggiustamento di chirurgia estetica e confessai candidamente di essermi gonfiata il seno. Il meglio fu qualche giorno dopo quando apparve, su uno dei giornali specializzati in chiacchiere, una mia foto di prima della cura. Il seno non me l'ero mai rifatto, ma la dichiarazione attirò un gran parlare sulla parte e una scrittura per un film.


 


La prima che raccontai per altruismo fu a mia madre.


Il medico le aveva dato due mesi di vita e io non volli che lei contasse i giorni al rovescio. Comprai anche due biglietti per Parigi e la portai a comperare borse e scarpe che non avrebbe mai potuto usare.


Morì prima dei due mesi assegnati, sedici giorni dopo, nel sonno, senza sapere che avevo usato ognuno di quei preziosi giorni per dirle tutto quello che mi sembrava  che mancasse, ma non avevo fatto in tempo a dirle tutto.


 


La prima che raccontai a me stessa riguardava l'alcol.


Posso smettere quando ne ho voglia e per stasera ho deciso di concedermi uno sballo.


Ne ero talmente convinta che gli sballi si susseguivano di sera in sera anche se al mattino era sempre più difficile svegliarsi. Dopo il vino vennero gli ansiolitici, poi la coca per tenersi su, e continuavo a dirmi che era tutto in mio potere e che smettere era facile come girare una chiave nella serratura.


 


L'ultima sì… credo proprio di averla raccontata al mio autista, vattene a casa gli ho detto, torno a casa da sola, sono perfettamente sobria, posso guidare da me.

 
 
 

Quell'estate del 2002

Post n°11 pubblicato il 01 Febbraio 2009 da Ahira28
 
Foto di Ahira28

Tutti i sabati Gabriella stendeva i guantini bianchi al sole. Li metteva in fila, una molletta ciascuno, su uno stendino di plastica che poi spostava nell'angolo della terrazza più illuminato, erano giusto sei paia, 12 mani. Non si faceva mai vedere altro che per quel rituale dei panni. Nel condominio Fangio, il vecchietto novantenne, era l'unico in grado di riconoscerla per via dell'insonnia che lo faceva stare tutta la notte seduto sul balcone a guardare l'ingresso del palazzo. Gabriella rientrava tardi e usciva presto, dicevano che facesse la cameriera e che avesse i suoi giri, ma le matrone del palazzo la parola giri la pronunciavano con un gesto della mano e l'aria ironica.

Lei occupava l'appartamento più grande di tutto il palazzo, da sola. Si diceva che avesse avuto un marito e che era separata. Anche questo veniva pronunciato con un particolare sguardo che lasciava intendere chissà quali misteri. Nessuno pero' la conosceva più di questi si dice.

Poi una sera Fangio non l'aveva vista rientrare. Lui l'aveva detto subito alla nuora che c'era qualcosa che non andava. Figurati! Le aveva risposto lei, magari sarà in vacanza o con qualcuno dei "suoi giri" aveva sottolineato con lo sguardo invidioso e l'aria canzonatoria. Ma Fangio non s'era dato per vinto e piano piano, dopo pranzo, era andato uno scalino alla volta, per via dell'anca operata, fino davanti alla porta di Gabriella ma di suonare, poi, non aveva avuto il coraggio. La sera a tavola aveva raccontato di una puzza che usciva dall'appartamento, ma la nuora aveva fatto frullare il dito all'altezza della testa proprio dietro le spalle del vecchio e tutti  si erano affrettati chi a cercare il telecomando della televisione, chi a decantare le doti dell'arrosto, chi a chiedere a Fangio che avesse visto di bello in tivvù quel pomeriggio. Fangio s'era chiuso in un mutismo rabbioso e non s'era alzato da tavola giusto per non dare il cattivo esempio ai nipoti, ma aveva continuato a scrollare la testa per tutta la cena.

Martedì la signora Terlizzi del terzo piano era salita in terrazza perché la televisione non le funzionava. Anche lei aveva detto della puzza a suo figlio Davide.

" Vacci tu a dare uno sguardo per favore!" Ma Davide doveva uscire con la ragazza quella sera, proprio il primo appuntamento. Aveva risposto di sì ma appena uscito aveva infilato le scale in discesa e quando la mattina sua madre gli aveva chiesto della puzza neanche si era ricordato di che cosa si parlasse.

La puzza era diventata forte giovedì, dicevano che era puzza di gas e per via delle esplosioni nei palazzi, Miceli, il maresciallo in pensione del primo piano, aveva chiamato la società del gas.  I tecnici erano venuti sul tardi, che faceva già buio e Fangio, che non aveva saputo niente, s'era persino mezzo spaventato e vedere quella gente estranea che entrava nel portone con tutti quegli attrezzi. Avevano misurato il gas nell'aria e se n'erano andati dicendo che andava tutto bene.

Poi a uno a uno i condomini se n'erano andati quasi tutti in vacanza, i Trabia erano partiti per primi, per la Calabria, dopo una giornata passata a caricare il camper su e giù per le scale con pentole, provviste, carta igienica e persino la casetta del cane. Per ultimo era partito Davide con due ex compagni di liceo, destinazione Amsterdam. Nel palazzo era rimasto Fangio e la signora Rosa Fratini, una vedova che abitava al secondo piano insieme ad un gatto persiano di nome Rommel .

Gabriella non s'era più fatta viva, erano quasi quindici giorni e Fangio non si dava pace. Visto che i suoi non c'erano era andato due o tre volte su e giù per le scale fino alla porta, aveva suonato, bussato ed ascoltato con l'orecchio sul legno per sentire se dentro c'erano rumori. Poi era sceso a prendere il caffè dalla  Fratini e le aveva raccontato della puzza, ma lei sapeva già tutto.

La notte quei due non avevano nemmeno dormito al pensiero della puzza e il giorno dopo la Fratini era andata su da Fangio con una torta di mele anche se sapeva che lui aveva il diabete e non avrebbe dovuto nemmeno guardarla. Avevano o parlato della puzza e del fatto che bisognasse fare qualche cosa, poi avevano chiamato i carabinieri e avevano raccontato tutta la storia per filo e per segno.

Il carabiniere che aveva risposto era un ragazzo con l'accento veneto, era stato gentile ma non aveva nemmeno fatto rapporto.

Fangio e la signora Fratini erano stati in terrazza il giorno dopo, la puzza davanti alla porta s'era attenuata e i due s'erano trovati a discutere di quanti giorni ci mette un cadavere a smettere di puzzare e avevano concluso che quindici giorni potevano anche bastare.

L'estate era passata così, tra una annusata alla porta e una all'aria dell'ultimo piano. Le piante sulla terrazza della Gabriella s'erano seccate ad una ad una, per ultime le piante grasse dai piccoli fiori viola. La signora Fratini era andata un paio di volte con un tubo di gomma dalla terrazza a cercare di innaffiare ma l'acqua cadeva di sotto per strada e dal piano terra avevano subito protestato.

Era tornato Davide un po' stralunato, erano tornati i Trabia abbronzatissimi, era tornata la famiglia di Fangio dalla montagna. Poi una sera di settembre all'improvviso era apparsa Gabriella. Fangio che l'aveva vista entrare dal portone aveva aperto la porta per salutarla al passaggio e accertarsi che fosse proprio lei. L'aveva sentita trafficare poi riscendere e risalire ma dallo spioncino non era riuscito a capire che succedesse perché la cataratta non gli permetteva di vedere con la poca luce delle scale.

Il giorno dopo l'aveva aspettata vicino alla porta proprio all'ora in cui lei usciva e con la scusa di farsi una passeggiata avevano fatto insieme le scale. Così aveva scoperto il mistero. Gabriella era andata a farsi una stagione in un hotel all'estero, ma prima di uscire aveva lasciato l'immondizia dentro e siccome aveva svuotato il frigo, la carne, il melone, e persino un avanzo di pesce avevano appestato l'aria di tutto il caseggiato. Altro che cadavere. Però la storia era servita, quell'annusare l'aria attraverso la porta aveva reso Gabriella meno estranea. La signora Fratini l'aveva salutata quella sera e anche la moglie del maresciallo le aveva ritirato un pacchetto dalla postina che poi le aveva lasciato sul tappeto della porta.

Gabriella aveva invitato Fangio e la signora Fratini a prendere il caffè la domenica e i Trabia le avevano portato su due o tre piante di gerani per sostituire quelle seccate.

La sera Fangio s'era ritrovato di nuovo solo in terrazza a scrutare il portone al buio un po' dispiaciuto che nel palazzo non ci fossero stati cadaveri e un po' contento che quel puzzo non fosse proprio Gabriella.

 

 
 
 

l'erede degli Hastur

Post n°10 pubblicato il 30 Gennaio 2009 da Ahira28
 
Foto di Ahira28

La luce gialla  pulsante dell'insegna del Pub l'accolse all'esterno come uno schiaffo.


Si strinse nel paltò e l'odore alcolico del suo fiato, le ricordò che la mattina seguente avrebbe dovuto alzarsi presto, guardò l'orologio.. le due, non era poi così tardi.


Una nausea leggera le gonfiava la testa. Attraversò la strada, schivando una macchina nera che sembrava viaggiare al rallentatore, salì sul marciapiede, si avvicinò al parapetto; al di là un buio d'acqua nera che di tanto in tanto rifletteva un raggio di luce catturato dalle luminarie lontane dei palazzi a distanza.


Respirò profondamente, alzò lo sguardo, nel cielo color catrame l'insegna di Hastur torreggiava come palazzo su tutti i palazzi.


Rinfilò la testa nel paltò, Hastur, chissà quanto paga solo di corrente per tenere su quell'insegna, pensò.


E cominciò a elencare nella mente le bollette da pagare, il suo capo che domattina avrebbe trovato il modo di farle notare che il suo aspetto non era dei migliori, la casa sciatta, gli uomini distratti della sua vita.


Hastur, chissà come vive un Hastur.


Il fischio di una nave lontana la riportò alla realtà del marciapiede, il suono dei suoi passi alla solitudine.


Si soffiò l'alito nel naso, devo smettere di bere così tanto, la mattina poi non ce la faccio, rifletté.


Il rumore dell'autobus che stava arrivando la costrinse ad affrettarsi alla fermata.


Mentre cercava un posto comodo , l'odore di sudore e di gomma le provocò un conato di vomito.


 


 


"Signor Hastur.. mi scusi per l'ora"


"Sto ancora lavorando.. allora??"


"L'abbiamo trovata stasera sua figlia, l'abbiamo fotografata all'uscita di un Pub nella zona del porto"…..

 
 
 

IO E CAMILLO

 

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