Messaggi di Marzo 2015
I due anni che seguirono la guerra furono gli unici che, non più moccioso, passai all’ombra lucretile (o “del Lucretile” come altri traduce). Era stata la lucretilis umbra a suggerire ai Monteflaviesi il loro motto: ‘n soldo ‘e pane, ‘nu scudu d’ombra. Motto tradito in quegli anni: non si erano spesi i cinque soldi per l’ombra con la speranza di avere più di un soldo di pane. La guerra e il fascismo avevano lasciato invece la gente in condizioni più miserevoli di prima. E ora gli Americani annullavano il valore di salari e pensioni facendo sparire i soldi (i centesimi) e stampando tonnellate di biglietti da cento e da mille lire. C’erano un paio di apparecchi radio nel paese. Da quelli sapemmo, tra reticenze e smentite, che i partigiani avevano giustiziato Mussolini. Ora la tbc e la polmonite mietevano più vittime della guerra, soprattutto donne e bambini. La fame era l’occupante de paese e di quasi tutta l’Italia. I due inverni succeduti a quello dei Tedeschi furono più duri e freddi dell’inverno di guerra. I ghiaccioli che come stalattiti merlettavano le nude gronde erano puri e gelidi come la disperazione di chi si affacciava da quelle case, disposte a castro romano su quattro contrade, parallele e convergenti verso la Piazza, raccordate da ripidi vicoli e sovrapposte, nello zoccolo esposto a sud-est, a due vie di stalle. Ivi si rimetteva il somaro e, chi li aveva, il porco, le galline e la vaccherella. Per quelle vie “Sotto le stalle”, sempre assolate, odoranti di fieno e di strame, disponevamo le tagliole per prendere i passeri, anch’essi alla ricerca di qualche chicco di grano. Là il tepore del sole invernale, tra grugniti, ragli e chiocciolii, ci faceva respirare, a dispetto di tutto, la vita. A dispetto, anche, dei vestiti neri di cui l’usanza di portare il lutto per anni copriva tante donne. “Tu guarda quante mogli sono sopravvissute ai mariti”, commentava Augusto, “e tutte belle arzille, quasi che la vedovanza le ringiovanisca”. “Soltanto a me”, bofonchiò sua moglie Lisetta, “non è toccata questa fortuna…” |
Segnato dalla guerra e dalla mia prima promozione, si concluse per me positivamente il primo anno di scuola elementare. Non per tutti. Gli addetti ai lavori la chiamano “mortalità scolastica”. Era fortissima, allora, come la mortalità infantile vera e propria: molti dei nostri giorni di vacanza derivavano dall’incombenza di “portare il morticello”. Erano le disastrose condizioni igienico sanitarie e la mancanza di qualsiasi cura prenatale ad aiutare, come ora si sa, i fattori più o meno “naturali” di quella selezione precoce. Ma, a scuola, a bocciare erano i maestri, non i bacilli: quella mortalità era assassinio. Frequentai a Monteflavio i due successivi anni di scuola elementare. Ed ero sempre tra i bravi. Nella stessa aula, agli ultimi banchi, sedevano bambini molto più grandi di me: i ripetenti, destinati a passare dalle ripetenze consecutive all’abbandono; e non che fossero handicappati. Mi resi conto che i bambini venivano subito classificati tra i bravi o tra i somari; come se il maestro fosse stato lì a fare il giudice, anziché il formatore. Grazie a quella mentalità fascista (e prima ancora clericale) che voleva i “portati per lo studio” predestinati dalla nascita e li identificava secondo la razza, il censo, la famiglia o il mero pregiudizio, la difficoltà diventava handicap, il disagio stupidità, l’insegnante carnefice. Certo, ben pochi scolari avevano la vena di nonno Berni. Non è la scuola a dare il talento, la formazione sì. E se somaro ritenesse se stesso il maestro che fallisce con un allievo, eviterebbe di diventare di peggio. Io ho avuto pessimi maestri, che si vantavano delle mie doti letterarie senza averne alcun merito. Sicché zoppico ancora in aritmetica e non ho mai avuto neanche una buona calligrafia. Mi torna qui in mente un’immagine di molti anni dopo: Giusto e Artemia, i miei suoceri, davanti al televisore, tutti presi dal notiziario. Giusto, terza elementare, sente, capisce e commenta. La moglie gli chiede continuamente spiegazioni, impedendogli di sentire il seguito, finché lui fa abbastanza seccato: “Ma tu non hai frequentato la mia stessa scuola? O stavi sempre in castigo dietro alla lavagna?” |
I Tedeschi entrarono in casa nostra in un’altra occasione, di giorno, per chiedere a nostra madre, che qualcuno aveva loro indicato come vedova del primo caduto, il piacere di lavare e rammendare la divisa di un ufficiale. Che fifa, quando li sentimmo bussare! Sapevamo bene di non avere la coscienza pulita nei loro confronti. La mamma tirò fuori lesta dalla cassapanca la camicia nera del babbo e la sua tessera, la tessera del pane e della morte. Ottenemmo così non solo la loro approvazione, ma anche una progressiva confidenza, un pezzo di sapone per lavare la divisa dell’ufficiale,qualcosa da mangiare, qualche informazione per i prigionieri. Verso Pasqua si videro sempre più nel nostro cielo gli aerei americani. Un giorno che mia madre mi faceva alla finestra la ricognizione della eventuale presenza di pidocchi, mi gettò a terra bruscamente, nell’assistere, lì davanti, a un duello aereo. Si parlò di paracadutisti scesi per raccogliere i dispersi. Ma vidi un camion tedesco pieno di questi ultimi; erano laceri, smunti e qualcuno ferito. Poi, vicini all’estate (il 3 giugno avrebbero lasciato Roma), girò di sorpresa la voce: “I Tedeschi se ne sono andati”. E corremmo tutti allo stradone. Se n’erano andati davvero, lasciando il nostro orto pieno di cianfrusaglie guerresche. Dell’orzo era rimasta un po’di stoppia tritata. Trovammo la capanna della Corvara bruciata e due predule lasciate lì. Sarebbero poi finiti nel camino i due sgabelli costruiti artigianalmente dai nostri prigionieri. Ma loro, che fine avevano fatto? Ad altri paesani alcuni scrissero, in seguito, e poi tornarono da turisti. I nostri no. E avremmo aspettato per anni le scarpe promesse. “Basta che siano riusciti a tornare a casa”, diceva la mamma. Da loro neanche una cartolina. Da una Screening Commission, a firma ciclostilata del Field-Marshal H. R. Alexander, datato 20 feb 1947, un certificato di benemerenza rilasciato a Gilardi Maria. Solo di Nat ricordo il mezzo nome. E ricordo i dieci numeri in inglese che lui m’insegnò. |
Con l’affacciarsi della primavera del ’44, ricordo i continui boati che provenivano, sempre più forti, da dietro le montagne: dalla Linea Gustav, sfondata, il fronte si stava spostando sulla Linea Gotica, attraversando Roma e Firenze. E nel cielo delle nostre montagne apparvero gli aerei che imparammo a riconoscere come i caccia. Il paese si riempì di sfollati; disagio indicibile per le case composte quasi tutte di un soggiorno e una camera, senza bagni. Credo che non sia facile, per chi non c’è passato, immaginare come si potesse vivere in un paese dove l’unico cesso era appiccicato, posticcio, alla casa del prete. Quando non si era fuori, per la macchia o per i campi, noi maschi, grandi e piccoli, andavamo a cacare, di solito in buona compagnia, nel greto asciutto del fosso, con bei ciottoli lisci, non sempre di prima mano, per pulirci il culo; e se tardava a piovere, anche il guado tra le ciambelle era un problema. Non era invece un problema cacare in compagnia; anzi, era un’occasione per dialogare; e la puzza, all’aria fresca, non si sentiva o era oggetto di battute: “Hai mangiato a casa del prete, oggi?” Le donne erano più spesso costrette a usare in casa secchio e orinale. Questo poi veniva vuotato tranquillamente per le contrade, tutte in terra battuta; anche dalla finestra, nelle case ben situate; mentre merda e cenere dei secchi venivano portate a vari scarichi usuali, ad attendervi la ripulitura piovana. Ci mancava la paura dei Tedeschi, che non solo effettuavano frequenti retate per la macchia, riportando spesso dei malcapitati, ma operavano rastrellamenti anche in paese, avendo sentore che qualche prigioniero vi trovava rifugio. Una notte percorsero la nostra contrada di Pescaria; avevano trovato qualcuno. E ora sfondavano tutti gli usci che non venivano subito aperti e assieme ai prigionieri portavano via gli adulti di casa. Fummo destati dal chiasso esterno, io e Franco nel letto della mamma, Vanda nel lettino a fianco, la mamma pronta ad aprire non appena le percussioni che si sentivano fossero giunte al nostro uscio. Con nostro grande sollievo avvertimmo che la nostra casa era stata saltata. Capimmo il perché la mattina seguente: la mamma aveva lasciato la chiave nella toppa; l’usanza paesana le aveva fatto dimenticare la prudenza suggerita dalla particolare circostanza; e la cosa doveva avere rassicurato il nemico. |
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