Creato da anonimo.sabino il 06/09/2006

L'altra campana

Itinerario spirituale di un pagano

 

Messaggi di Aprile 2015

TATA GIOVANNI - 14

Post n°1891 pubblicato il 30 Aprile 2015 da anonimo.sabino
 

     La maestra coccolava in modo particolare Vinicio, uno dei rarissimi figli di solo padre, anziché di sola madre. Non so come fosse morta: con i cocchetti non ho mai fraternizzato; mi dava perfino fastidio vederlo tra quelli che ascoltavano le mie canzoni; mentre lui, che non ne aveva colpa, cercava così disperatamente di uscire dall’isolamento al quale lo condannava la sua condizione di cocco.

     So che suo padre doveva avere un buon impiego e forse un’altra donna. Non si faceva vedere spesso, a giudicare dalle chiamate al parlatorio, ma era particolarmente munifico.  Gli aveva regalato perfino un vocabolario, che non aveva neanche la maestra, in quel rinomato collegio; sicché lei lo invitava affabilmente a trovarvi questo o quel termine, affiancandolo carezzevole per aiutarlo, quando lui, scarso nell’ordine alfabetico, non lo trovava.

     Mi presi con lei la rivincita. Oltre ad avere una istintiva facilità di sintesi e una buona capacità espressiva, ero maturato precocemente; come i fiori melànconi dei nostri monti, che fiorivano a marzo ma a maggio per l’infiorata bisognava raccomandarsi alle ginestre; e come le ragazze del paese, donne a dodici anni e vecchie a trenta. Costretta ad ammirare i riassunti che riuscivo a spremere e i temi che componevo in quarta, li leggeva ai bambini di quinta, perché imparassero. Ma non diceva nemmeno il nome del paesano di quarta che li aveva composti. Né mi diede la minima speranza di farmi recuperare l’anno che mi era stato sottratto. Non ero nelle sue grazie, ma sopportava la mia bravura. Non sempre.

     Una volta ci diede da svolgere il tema: “Due angeli nella mia vita, la mamma e la maestra”. Tema tanto temerario per se stessa quanto inappropriato per certe madri, in quell’ambiente; ma alla persona religiosa, che sente sempre il dovere di edificare,non interessa tanto la realtà quanto le possibilità di manipolarla. Svolsi tutta la parte riguardante la mamma, descrivendola, con passione, come l’angelo che mi aveva abbandonato per il mio bene. Per completare lo svolgimento, aggiunsi in tono scherzoso che avrei desiderato vedere nella maestra un angelo capace di prendere il posto di quello perduto, ma che riuscivo più spesso a vedervi un demonio. Mi mise zero.

 
 
 

TATA GIOVANNI - 13

Post n°1890 pubblicato il 29 Aprile 2015 da anonimo.sabino
 

      Ripenso sempre con raccapriccio al piccolo Roma (che fantasia, a dargli quel cognome), un biondino gracile e brutto che suora Artura picchiava tutti i giorni. Infine prese il lenzuolo bagnato e glielo mise in testa. Sicché una mattina di quel freddissimo inverno,scoprendo il suo letto, lo trovò asciutto.

     “Hai visto che la cinghia fa effetto? …Ma dove sta?”

     Lo trovammo nel cesso, intirizzito. Vi aveva trascorso tutta la notte.   

     Suor Maria Teresa fu la maestra di quarta e quinta. Quasi sufficiente, come maestra, e di bell’aspetto; l’aspetto che mi sarebbe poi venuto in mente leggendo, nel Manzoni, della Monaca di Monza: mi raccontarono che dopo la mia partenza suor Maria Teresa lasciò la vita religiosa, scappando con il bacarozzo, come chiamavano il direttore.

     Come suora Agnese impersonava la più vile falsità monacale e suora Artura la più cruda aridità, suor Maria Teresa lumeggiava un altro aspetto, senza sottrarsi ai primi due, del carattere tipicamente monacale, la parzialità. E mi è venuto da pensare in modo particolare a lei quando ho sentito, negli anni successivi, parlare del celibato ecclesiastico come della condizione che, liberando dalle cure familiari, farebbe riversare l’amore in Dio e nel prossimo. Ebbene, vivendo per ben tredici anni in ambienti religiosi, ho dovuto constatare che l’amore di Dio non è altro che rancore verso l’uomo e verso il suo mondo. Il rancore mal represso e l’aridità che diventano abituali nella persona religiosa le derivano, credo, proprio dalla rinuncia a una normale vita di coppia, nonché alla maternità o alla paternità. Il fatto sta che il rigurgito del sentimento, insopprimibile,si esprime non nell’amare come propri i figli altrui, ma nella forma distorta del favoreggiamento. Così nel frate e nella suora difficilmente nasce l’amore per una persona, ma è abituale la discriminazione tra le persone.

     Non c’era sorella (e più tardi padre) che non avesse i suoi cocchetti, anche se vedevo in suor Maria Teresa, giovane sostenuta ma bisognosa d’amore, colei che lo riversava su di noi in modo particolarmente differenziato. E per un bambino non c’è mortificazione più grande che sentirsi discriminato. 

 
 
 

TATA GIOVANNI - 12

Post n°1889 pubblicato il 28 Aprile 2015 da anonimo.sabino
 

     Nei giorni successivi qualcuno dei compagni che mi avevano sentito mi chiese di cantare. Prendemmo a riunirci, quando eravamo stanchi di ruzzare, nell’angolo del terrazzone opposto a quello della vigilante, sedendoci in cerchio e allontanando i molestatori. E le canzoni preferite dai miei compagni non erano quelle dell’oratorio o della battaglia del grano, imparate da Ulda. Essi rimanevano a bocca aperta quando cantavo i drammoni popolari del paese, come La storia di Adele, La barbiera, Donna Lombarda. La più richiesta, da quei figli della guerra, era la prima:

    Cara Adele, ti lascio in un pianto.

Io parto e vado ai confini.

Ti raccomando i miei cari bambini…

     Diffido di tutte le suore e mi sono tutte antipatiche. Abituato a fare l’esame di coscienza, ho sospettato che si possa trattare di un pregiudizio, derivato dalla negativa esperienza.  Da adulto, però, non ho mai incontrato persona che, vissuta nell’infanzia in un istituto religioso, non abbia le monache almeno in antipatia.

     Certo, anch’io ho sentito parlare (anzi,non ho mai sentito altro) delle suore missionarie e delle buone crocerossine, che si sacrificano per il bene dell’umanità. Ci ho creduto, come tutti e più di molti; tanto da coltivare poi quell’ideale. E credo ancora che qualche suora possa sentire la vocazione umanitaria, come altre persone non religiose. Ma non ho mai conosciuto una Teresa di Calcutta. Solo qualche suora, per lo più tra le giovanissime, meno arida delle altre. Mentre ho conosciuto tante suora Agnese, suora Artura e suor MariaTeresa. Né basta la loro ignoranza della pedagogia a spiegarne non dico il comportamento, ma la stessa condizione.

     Della prima ho già parlato troppo.

     Suora Artura era una virago dalla voce stridula e l’accento ciociaro; essendo alta, aveva una cintola di cuoio più lunga. Quando entrava lei in camerata (e per un certo tempo vi entrava quasi tutte le mattine), ci veniva la tremarella, qualcuno scappava al cesso, c’era chi cominciava a frignare prima ancora che la suora arrivasse a lui. Passava letto per letto, rivoltando il lenzuolo; e quando  vedeva la macchia d’orina, prendeva il malcapitato, gli tirava giù calzoni e mutande e faceva schioccare la sua cinghia sulle chiappette nude, talvolta lasciandovi i segni. Inutili i pianti, per chi era stato tanto cattivo da lasciarsela scappare nel sonno.

 
 
 

TATA GIOVANNI - 11

Post n°1888 pubblicato il 27 Aprile 2015 da anonimo.sabino
 

     Mosconi non l’aveva, una madre alla quale chiedere o dare aiuto. Una volta che una suora lo picchiò di nuovo, per punirlo della sua insolenza, le afferrò il velo e tirò giù con tutta la forza, togliendole la cuffia e gridando:

     “Scuffia! Scuffia! Te la levo io, la scuffia. Stronza!”

     La suora emise un urlo e si accasciò semisvenuta. Mentre il “cattivo” si ritraeva nell’altro angolo e scoppiava in un pianto dirotto. Come un bambino.

     Io strinsi i denti e restai. Speravo inoltre che in tre anni (significano l’eternità, per un bambino) qualcosa potesse cambiare. Qualcosa cambiava in me. Imparai tutte le parolacce del vocabolario romanesco. Per forza: nei primi tempi, vedendo come i bambini provenienti dai paesi erano presi in giro e chiamati burini, me ne stavo per lo più taciturno (anche per questo ero considerato un buono); e quando dovevo proprio parlare, cercavo di imitare i romani. Mi riconobbi una rara versatilità linguistica. Ma in un ambiente come quello diventai litigioso e violento, quantunque, rispetto al peggio, continuassi ad essere classificato tra i buoni. Accettavo subito la rissa, schierandomi però con il più debole. “Non è giusto” era la mia parola d’ordine: ero stato già socializzato dal paese. E conobbi cose che non avrei mai saputo: la mafia tra bambini, la sopraffazione, il ricatto, la frustrazione.

     Conobbi anche l’amicizia, il sogno, la speranza. Ma rischiai una deformazione del mio stesso carattere, cadendo in una rete di bande e di rappresaglie fanciullesche (i fanciulli possono essere più crudeli degli adulti), nella quale i più “vecchi” e spregiudicati schiacciavano ogni possibile contendente trattandolo da nemico. Una volta uno mi saltò addosso a sorpresa dopo avermi sgambettato e mi tempestò di pugni. Per scommessa, mi dissero poi.

     Credo di essere stato salvato dalla mia voce.

     Una delle suore che a turno ci sorvegliavano nel terrazzone, una suora nuova, un giorno si mise a cantare, con alcuni bambini chiamati attorno a sé. Di solito me ne stavo lontano dalle scuffie, pieno di rancore contro tutte. Sentendo alcuni canti che avevo imparato da Ulda, mi avvicinai e, invitato anch’io a partecipare, presi a cantare. Mi gradirono al punto che rimasi a cantare da solo; gli altri a sentirmi. 

 
 
 

TATA GIOVANNI - 10

Post n°1887 pubblicato il 24 Aprile 2015 da anonimo.sabino
 

     Tata Giovanni significava per me fare in tre anni e in regime di reclusione i due anni residui di scuola elementare che potevo fare al paese in libertà. E senza che mi si aprisse la prospettiva degli studi superiori.      

     “Beato te, che ci hai tu’ madre!” mi dicevano certi monelli. Alcuni di loro erano trovatelli. E mi accorsi presto che anche molti che avevano la madre mi invidiavano di avere avuto un babbo morto in guerra: la maggior parte non sapeva chi fosse il padre; e si insultavano con parolacce da far venire i brividi.

     “Perché nun dici a tu’ madre de portatte via?”

     Magari! Acquistai l’assoluta convinzione (e ce l’ho ancora) che la peggiore delle mamme, anche una prostituta, sia migliore della più buona delle suore e che comunque internare un bambino in una comunità (lo urlai poi a mia sorella) sia un delitto; che anche in un ambiente ottimale, nessuno meriti l’inferno della segregazione in istituto, o in quelle che, soppressi gli orfanotrofi come una palese vergogna, si sarebbero chiamate “casa famiglia”; che chiunque dica il contrario sia un vigliacco e che sia l’interesse degli istituti religiosi a rendere in Italia tanto difficili le adozioni, essendo intuibile anche da uno sprovveduto che per un bambino è meglio essere adottato da  omosessuali o barboni che vivere senza famiglia.

     Non avevo la forza di gridare la mia disperazione. E avevo lasciato la famiglia in condizioni così misere che una bocca in più, pensavo, sarebbe stata per la mamma un peso insostenibile. Ma perché la retta non poteva essere data a mia madre, anziché alle scuffie? Forse per evitare che ci campasse decentemente tutta la famiglia?  

     Credo che lei stessa, che stupida non era, cominciasse a chiedersi se mi avesse messo proprio “a studio”. Ma pensavo che non avesse scelta, ormai. E alle sue ripetute domande rispondevo sempre rassicurandola che ci stavo volentieri, che mangiavo e che tutti mi volevano bene. Mi facevano indossare la divisa, per uscire con lei. Al giardinetto di Testaccio, presso la nostra futura scuola d’avviamento, c’era un fotografo che ci riprendeva davanti alla scenografia di una laguna. Ero veramente carino, vestito così bene. Ed ero felice, con lei. Poi, ripartita la mamma, tornavo a piangere di nascosto.

     Ma anche adesso, nel raccontarlo, mi pongo la stessa domanda: chi può farci caso alle lacrime di un bambino? 

 
 
 


 

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