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rumino i gesti di vita

Post n°158 pubblicato il 10 Febbraio 2014 da andrea_firenze
 

rumino i gesti di vita, li suscito turgidi e li traduco a te in questa scrittura che posso guardare. I caratteri somigliano ad ombre di ringhiera sulle tue spalle bianche di carta, ad uno spiovente di tetto che ripara, ad una eco in una bocca liscia di conchiglia, ad un orecchio che separa. Ciascuno di essi ha il suo proprio, di carattere; alcuni si sporgono e flettono come a trattenere un respiro di poesie in punta, all'estremità di ogni grazia, come stessero in equilibrio un passo prima di ricadere nei versi traversi delle onde, di rientrare nelle schiere sui campi di battaglia. Certi sono incerti, altri più sicuri: hanno accenti duri e spade di guerrieri in cotte di maglia, si muovono come eserciti sulle colline delle pagine. Pochi, discontinuamente, s'affacciano ai palazzi con una speranza ed un desiderio da ciascuna delle mille finestre. E capita che magari apri un libro come un mare e ti perdi fra branchi di pesci luccicanti riga dopo riga, ruzzoli su pagine come su prati coperti di foglie d'autunno, con lo sguardo al cielo, e le lettere ti sferzano come grandinate o germogliano in campi seminati di speranza, ti guardano irraggiungibili come notti stellate oppure ti travolgono rumorose in città trafficate. Là in mezzo, poi, spesso, balenano i dorsi di delfino dei ricordi; e ogni schiena è un rifugio, uno scudo, se penso al tuo viso di adesso che è crepa, recipiente; e dona riposo. La vita consuma il vissuto, lo fa malamente, selvaggiamente, senza lasciare traccia; e forse ho delle difficoltà ad accettare che l'esaurimento sia la sola purificazione, che il peccato in esso sia ciò che davvero ci monda al mondo. Non c'è differenza fra ciò che aspetto e ciò che è stato; l'unico sbaglio è la realtà, questa irrevocabile presa di forma, la multidimensionalità che ci spinge prossimi al cerchio con un morso di tigre, come un'onda. Vedo adesso che ogni circostanza è la stanza dei caratteri, in un romanzo come in una vita; un insieme di caratteri casuali disposti secondo regole arbitrarie che tornano sempre in un disegno più ampio di progetti, anch'essi, ancora, casuali. Un atto è come un tratto, ogni lettera una vita e un varco, e se le metti assieme fanno una storia e i ricordi; e la vista con cui leggo o guardo non è altro invece che la distanza di calore di ciò che resta nel tempo. Il mondo è una aggregato di volontà, l'unica entità che può essere infinita poiché si concreta continuamente in ciò che deve essere generato e poi distrutto. É come la continua ripetuta penetrazione del contadino alla sua terra, del cannone alla guerra; la sensuale esplosione di te che accendi la luce e dai un volto alla notte con la forza delle mani di un vasaio sulla creta; è forma in vita di corpi enunciati e premuti prepotentemente dagli avambracci da una stella viscosa, paratesto spaesato e sciolto e assordato sotto una realtà d'urti fra chele tenaglie, pollice ed indice dell'orizzonte. Sono tutti segni, ed il segno è ciò che più amiamo; rappresenta allo stesso tempo ciò che esiste ed ogni fallimento, il confine e l'accesso, il gesto e la sua delusa concrezione: sfintere, albero o parto, un clitoride di suoni, di linguaggio; corde tese d'aria da polmoni, distanze e forze di vibrazione dagli accorciamenti, indebolimenti e tensioni nella quantità di materia, l'inverso del fuoco da una scheggia di legno. E ciò che ci rende uomini la puoi chiamare razionalità, ma è solo la casuale incertezza di chi, con un segno appunto, ha deviato per un momento dall'indifferenza nell'altezza e nella cresta che c'è in un'onda: per quanto sia bella non puoi dire chi l'abbia spinta ma sai per certo che sarà attenuata, e finita; dolcemente. Così le nostre vite e ogni singolo ricordo. Da questo il nostro amore per le staffe delle lettere e le grazie, e la grazia che troviamo in ogni curva che c'illuda di durare purché ci dia l'impressione di morire piano. É questa incertezza che perversamente amiamo e l'illusoria rimediabilità in essa e la sicumera della ripetibilità delle cose, nel prosaico e nell'astratto: tu che affondi e la bolla d'ossigeno di un feto che viene sù, i salti sempre più corti e dolorosi nelle zampe di un gatto, una scala piegata, la vecchiaia, l'incidente stradale col motorino del geometra Migliorini, le montagne russe sul Mib30, la mezza maratona di Barcellona, la palestrina usata per il bambino, il cosmo che si restringe o s'allarga, la vincita di un tablet Playbox BlackBerry, la casa di vecchie colonne che cerco di sorreggere il martedì invano, il carcinoma metastatico di mio fratello, e tutto ciò che si allarga e si stringe ancora. Come il mio cuore. E quando non sai oppure è faticoso lo sforzo di una correzione allora indulgi facilmente alla distrazione ed ai ricordi: vite vissute per sé, non con i propri cari, ma con un qualunque sconosciuto, a Londra o Parigi; uno stronzo qualunque, incontrato un giorno, per caso, e che, come gli altri stronzi, caca in una tazza; oppure dedicate, alla fine, quando non rimane altro, al tentativo di non lasciar morire le uniche storie che non finiscono, quelle fatte di visite e di testimonianze. Chi mi parlerebbe della morte di Giuliano se non ci fossi tu papà, chi porterebbe prova della sua vita semplice di contadino e del male che gli ha torto lo stomaco. Anch'io, come te, credo che per chiunque ci dovrebbe essere poesia, anche una sola poesia, e che fosse scritta. Sarebbe almeno il segno rimasto di uomini che si disfanno come piovre, e dei loro movimenti che sono i tentativi, i tentacoli di tutta una vita. Che ne saprei di come gli ulivi rivoltano le foglie quando si fa freddo e che la potatura è la parsimonia della forza nel frutto, e delle bozze d'acqua piovana dove si abbeverano gli uccelli e delle medaglie perfette del tuo Mario Moschi, se non me lo raccontassi tu. E lo so, ma non m'importa, che la storia, ogni storia è un placebo e la fuga una breve sospensione di quell'incertezza che è il soffio di vento di chi viene o va lontano, di chi non sai più niente; le linee sottili sul palmo girato della tua mano. Ma non m'importa; perché mentre giro, vago e ruoto l'ano, mi piace immaginare che a Fiesole ogni stella s'affolli ancora alle tue spalle, s'adagi amante su ogni scialle, si tenda, sporga dalla valle, e sbirci me, che continuo a leggere finché posso; e s'aguzzi fra chi fa silenzio e freme, e ascolti ogni sera la poesia struggente di un amore, morto; e la fine d'una gemma blu, sperduta, in un abisso rosso.

 
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questo è un canto che dura quanto tu resisti

Post n°157 pubblicato il 05 Febbraio 2014 da andrea_firenze
 

questo è un canto che dura quanto tu resisti perché quell'amore pungente come un riccio e scostante, che ancora miete pensieri, non si è levigato nel tempo, come speravo, ad un dissapore dolce d'irrimediabilità. In notti morbide e profonde come fili di lana c'è adesso in più una soglia dove prima ogni contorno, ogni cima d'albero, ogni filo di tetto era semplicemente una persistenza nel mio cuore molle di terriccio. Le punte che spingevano forte sulla pelle sono rimaste ma la stretta si è allentata ed il dolore ha confuso arma e ferita; lo steccato su cui sbattevo le corna e gli zoccoli, che mi imprigionava e allo stesso tempo mi proteggeva, si è aperto in spazi senza direzioni; e la matassa fanciullesca di esperienza e strade, che abbiamo condiviso, si è sciolta ed ha allentato la tensione e dimenticato le sue ragioni, anche se i segni sono rimasti, come sulle braccia graffiate di una zuffa di bambini. E ancora il tempo insiste ogni passo nella direzione dell'assenza e continuamente svela il tuo crescere primitivo e ne fa nostalgia. In fin dei conti la vita è una serra che frena e attutisce i vecchi deliri e protegge ogni parola che si sprigiona e pronuncia da una intermittenza a schiudersi spegnendola in un vuoto di forze che oscilla. In ognuna di esse l'espressione ce la mettevi tu, che eri l'accensione di un pensiero e di un corpo che sarebbero stati altro. Ti ho amato di più prima, ti amo di più adesso, se ti penso dopo questo corpo, perché ho la speranza che non sia incessante l'immaginazione dell'atto carnale ma persista la dolcezza labile e provvisoria in esso, sfumato e mascherato dal ricordo. Infondo la capacità di immaginare e le possibilità sono nella coerenza della trasformazione all'infinito della materia e riguardano ogni cosa dal più breve evento, all'oggetto semplice, al tempo, che aderisce in essa alla dilatazione di un'onda. Sulla materia e sulle altre vite la storia avanza in strati d'urlo, e trasfigura le esistenze, e disperde ogni cosa che diverga e, alla fine, la cimenta in circuito. Se solo potessi ucciderei tutti i ricordi di questa vita come fossero i figli di Niobe, e farei in modo di renderli raggiungibili come rocce e che ogni volto, ogni incontro, ogni evento accaduto sotto la volta d'ogni volta fosse sempre giovane e recente come una lucciola, non le distingui d'estate sui prati, in una umanità che, se la pensi, nel complesso non invecchia, come i fiumi. Mi chiedo se sia davvero una fortuna essere stati liberi di camminare, senza argini, o se sia una benedizione possedere occhi che al massimo del vigore non precipitino nel buio da una cateratta, e che si faccia giorno: è sicuro che il tratto di una direzione non tracci di fatto solo l'inizio della fine? Riporto sangria e nacchere da Barcellona, cicale di porcellana e sapone da Marsiglia, souvenir che non ho acquistato per te ma che metto in valigia con l'idea che ogni oggetto sia lo stato imperituro dell'idolo che rappresenta: qualcosa di assolutamente fortuito ma così capace di macchiarti la pelle da personalizzare un contesto. E fisso nella memoria un ammonimento per i giorni che verranno: che il cuore affronti inerme ogni istante come l'aria un uccello appena nato che si lanci dal nido, e che non metta penne e non sviluppi la capacità di volare poiché ogni cosa che viene donata trasfigura una morte. Volerei adesso, se si potesse non offendere, se fosse concesso di venire a mani vuote e non pretendere niente, se questo volesse dire interrompere per un po' l'oggi ed avere la possibilità di sbirciare in quelle vite che avremmo potuto essere e che sentiamo parallele in ogni cosa vissuta come con l'orecchio poggiato sulla pancia di un feto. Ma solo alla notte, intrisa di latte, lucida e fredda come una foglia di palma, dal buio di quella soglia, il cuore sussulta, ed il suono colpisce forte, e prima o poi rimbalza, piano e forte, una voce su un io isolato, cinto di simboli, immobilizzato come una formica in una goccia d'acqua: pioggia sono i tuoi semplici capelli, sul viso, intrecciati dal vento; come rami delicati, luccicanti sotto il peso della neve, i tuoi occhi abbassati; e l'immaginazione è la stessa del ricordo, passato, di una sensazione: un mare di bambù improvviso fra le canne e, in mezzo, i giochi sporchi, colpevoli di sperma di bambini che spiavano, a sera, le macchie di cacca sulla faccia della luna. Ed ogni volta è ancora come allora: si ama spezzandosi, tu eri l'onda ed io sono la roccia.

 
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con lo scatto del pesce che smuova la sabbia

Post n°156 pubblicato il 30 Gennaio 2014 da andrea_firenze
 

con lo scatto del pesce che smuova la sabbia sul fondo dell'immenso mare razzolo le strade come una gallina e agito i ricordi ed ho ben presente l'instabilità e la svogliatezza che ci contraddistingue nel fissare e approfondire le cose, nell'averne una visione chiara, mentre il tutto scorre. Euforici d'acqua e d'aria, sempre davanti a ciò che possediamo oltre il limite di una presa purché ci sia un ciglio, un'ala, un giglio, un cirro basso di nuvola nelle campagne di Arras, la nostra è una distratta ricerca antropomorfa nella massa senza nome dove resta un desiderio ed un mera aspirazione, se si muova, riuscire a mettere a fuoco cosa significhi essere vivi. C'è un tempo in cui maneggi tutto e poi più niente e che cosa sia la vita, l'estate dell'adolescenza, un bacio, un panorama, un calcio al pallone, il tuo sorriso, un volo d'uccello e come si bagni il posto da dove scenda la pioggia è il dilemma dell'essere stati qui e di che cosa sia ogni cosa e se sia la stessa e sia soggetta alle stesse modificazioni di quando sia partita. Ma cosa c'è di più solipsistico della natura che cerca di comunicare generando cose che finiscono per parlare, come me, solo di se stesse. Ci provo a generalizzare, e questa estate sudata è diventata nella mia mente il guado e la tua carne di strada è un sorriso al jazz che assorda nelle metropolitane d'aria che mi fanno sentire come fossi il brivido di una Parigi di pelle, e le persone per le strade, che guardo eruttando al ristorante Vesuvio mentre il colombo caca sulla testa della statua di Diderot, sono ciottoli di letto di fiume con i loro muscoli pieni di vita come alghe gonfie d'acqua e mi guidano da qualche parte, la parte nel mondo che cerco di definire, e forse ogni direzione è una scheggia impazzita, e fiorire è tornare su se stessi, o più probabilmente mi aprono la strada verso la seconda morte, la dimenticanza, che non è, come è consuetudine e comodo considerare, altro da te, ma la stessa scintilla del tuo volto giovane che si spenge. Si finisce raschiati, in vite ricettate come oggetti rubati, scarti di rassicurazioni date in pegno ai rigattieri, mentre ogni cosa esplode e perde il pernio in lance di forza, imprese d'aria in prese d'aria, come le formiche sputate dai formicai, i rami dagli alberi, i pianeti dal centro, le auto sulle autostrade, i capelli dalla testa, i petali dai fiori, le bolle d'acqua su un lago, il vento e la grandine dal cielo, le spine dai rovi che feriscono affilate come spade di Toledo. Ma le grandezze e le distanze sono così anonime nella nostra percezione e così belle le curvature di nervi, fruste, spine, supine, dune, onde, colline e seni, rappresentazioni materiali di forze trattenute in fuga, che i minuti del tempo, che gattona, sono come le ginocchia sbucciate di un bambino e le deflagrazioni vengono attutite dal respiro senza labbra del cielo, dalla calura fra gli alberi colati, dal bisbiglio di un mare che suda. Si serrano senza rumore gli artigli del gatto sulla tranquillità infuriata di una luna che sobbolle senza nascondigli fra cespugli chiassosi e belare di siepi. Le strade, le vene, le nuvole si scardinano come girandole e la morte è il contorno che si squaderna laggiù all'orizzonte. Per questo raccogliamo le cose, ci facciamo una casa, mettiamo dei vestiti e teniamo i soldi in tasca; per questo potiamo gli alberi, togliamo le foglie secche alle piante, abbandoniamo e dimentichiamo chi ci intralcia o non ce la fa, ci tagliamo i capelli, ricordiamo: è il desiderio di mantenere intatto l'essere, quel piccolo essere che tendiamo a considerare tutto l'essere. E la sintesi è il fine ma anche la fine, che sia astratta o concreta, sia il succo, l'escremento; siano le viscere, i flussi di pensieri, o i fiumi della terra, spremute di sperma. Il noumeno non è altro che il fenomeno che descrive il fenomeno, un puro atto d'assimilazione, che, in quanto uomini, siamo i più bravi a fare; ed è così che, in volo, non puoi fermarti a soppesare l'esistenza, sarebbe come stare a guardare un gelato che si strugge. Ogni giorno ti scarta e ti scava la morte dal petto e l'imminenza è l'unica tessitura cui possiamo aggrapparci nella caduta e l'ago più appuntito, efficiente e maneggevole per tesserla è il nostro pene, che è un fucile caricato a salve. Ed esso oblitera ogni mio pensiero, appena abbozzato, che vedo crescere o svanire come una piccola seppia molle e instabile a pelo d'acqua, ed il mio cervello è una rete in cui rimangono impigliate le cose, le impressioni del momento, mentre le idee, modeste, di cui vado fiero, sono i pochi pesci, di piccola taglia, che riescono a fuggire e che scompaiono in un metro d'acqua. E la squallida, invadente, costante consapevolezza è l'adesso, è l'escrescenza del mattino e del sole che sgomita le colline e occhieggia la terra da una cateratta d'argento; è il tempo spellato e il sole che ti spella fra carcasse di case su vene di vie deserte, case tozze, grasse e calde come squali bianchi; è il falò accecante sulla spiaggia delle tue cosce; e se alzo gli occhi e penso un centro esso è la tua fica infiammata sotto un cielo ingarbugliato come il corallo, sono i tuoi capezzoli, vivi come stelle marine ruvide all'onda sullo scoglio, è il dolore rosso, non cicatrizzato, e la libidine e l'invidia per gli esseri viscidi e molli, schiumanti come saponette, per gli uomini fulmine e lumaca che schiumano il pane della tua femminilità.

 
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mi hanno regalato un'orchidea ed è morta

Post n°155 pubblicato il 27 Gennaio 2014 da andrea_firenze
 

mi hanno regalato un'orchidea ed è morta. Ha perso tutti i fiori ed adesso è uno stecco, uno sterco, un filo di sperma di cazzo. Non ne ha avuta per molto di vita: ha sviluppato grosse radici, gonfie d'acqua; ha divorato la terra come un verme più che ha potuto fino ad essere soffocata dalle pareti trasparenti di un vaso di plastica asettico come una membrana d'intestino, ma, prima di questo, ha perso le foglie ad una ad una lentamente e si è giocata, in breve tempo, l'ultima possibilità d'espressione. Perché di questo si tratta: ogni cosa, qualsiasi cosa è un segno, che è meno di un segnale, che è diretto come comprensibile a qualcuno, mentre esso chissà se capiti che possa trovare chi lo sappia decifrare. Un'orchidea morta in questo senso è più oggettiva, meno attiva; è come uno sterno, il mio sterno, un torsolo di mela, una lisca di pesce, un fiore fossile che è anche una strada lastricata, una parola continuamente storpiata; è ciò che resta di una sgroppata aerea a tre volute uguale alla vita di mio zio ottantenne con le pupille rosse, una vita delusa di grandi speranze e di poche parole e alla fine, dice, tre possibilità: un colpo di pistola, la badante moldava, una donna che lava. Se lo osservo bene, nel volto di mio zio riconosco una struttura alata, una croce di tre sepali, la testa e le due spalle, e la piaga nel costato di cristo è il labello, e la sua lingua, allo stesso tempo, è un gastro peloso di femmina di imenottero e la parabola viscida di una salamandra. Ora che si avvicina la fine, caro zio, adesso che mi parli come fossi il figlio con il quale non hai mai comunicato, capisco come ogni vita e anzi ogni cosa sia un problema di espressione, atto e direzionalità; e nelle pause delle tue parole sagge, di uomo di grande esperienza, non trovo il coraggio per confessarti che non avresti comunque avuto la possibilità di vincere e che quanto credi che avresti potuto non ti sarebbe ugualmente appartenuto e sarebbe uscito storto e morto. Anche tu e il posto dove vivi e la tua storia sono solo una bocca, un passaggio; e la natura, tale e quale ad una fabbrica senza consumatori, ne genera di sempre diverse e sempre uguali come provasse senza sosta a dire ciò che non riesce, e forse s'inganna in un linguaggio che non capisce; e la conseguenza è che gli aborti che ne nascono sono infettati dalla morte: fiori, vagine, labbra, crepe, fulmini, polline, lava, schiuma, sono corpi sdruciti, entità di un mondo vescica, tasche per uccelli, bestie e fiori; cisterne e minzioni, suoni gutturali fra vocali aperte, temporali; e le nuvole, lassù, sono la cartilagine del cielo, e la terra, che gira, l'osso nella scapola. Quante porte e forze e vettori, quanti denti che masticano, inquilini che si coricano nelle loro stanze come uova depositate, sconosciuti che dormono o muoiono e, mentre sognano, il respiro corre a spirale nelle volute dei loro polmoni come il vento fra gli alberi di una foresta e spazza via ogni motivazione. I miei sogni di oggi, cabala del giorno tredici luglio duemiladodici, fragili e instabili come canne al vento, sono fatti di quadri espressionisti e astratti, sono concrezioni momentanee di sale e di persone che se ne vanno allegre e frenetiche su e giù per le scale a chiocciola del Le Petit Trianon Hotel, come una spina dorsale percorsa da turisti di passaggio e dai furfantelli di sempre. E un'altra notte mi cova con le sue coperte sudate per rompere il guscio del domani, mi scalda di speranza e inganna ancora nonostante ormai possegga un certo referenziale e narcisistico apprezzamento estetico per la rassegnazione all'indulgenza per l'inespresso. Nel dormiveglia immagino che il Pont des Artes, a Parigi, sia la via per la riva occidentale del Gange, a Varanasi, dove scendere cinque ghats nel tentativo di fuggire il samsara, la catena di vita e di morte, passaggi attraverso i quali potresti fuggire anche tu; e che sia un'altra sconfitta sul campo di battaglia, dove tanti ci hanno provato ad averla vinta aggrappando le loro vite a tutti questi lucchetti allucchettati, prima che ne fossero risucchiate, è una certezza. Sogno di essere un tucul traghettatore che troneggi, come Caronte, sul castello di Buda e separi le anime dannate distribuendole fra il Ponte della Libertà e quello della Catene come quando mi succhi il cazzo ed io sono il razzo, il rostro che separa i peli biondi del tuo viso come fosse l'onda gentile che spezza il gelo sottile, ai primi freddi, su un lago, e il recente nevischio; e lo sperma appiccicoso come l'ostia sulla lingua del fedele s'inchina nella tua bocca, fagotto di suoni, nei meandri del santuario di stomaco e vagina, nei placidi laghi dalla pancia larga. E mi manca il giudizio, perché è evidente come l'amore sia solo una reciproca concessione di conoscenza e constatazione di squallore; perché so che alla fine dei conti l'unica vera consolazione sarebbe essere prima e dopo la fiammata. E non c'è via d'uscita neppure nell'auto annientamento, nella bava di fulmine che è solo un'altra forza d'inversa direzione a quella in cui cresci e invecchi ma che perpetua l'essere, un morire per non morire, ed alimenta il desiderio, l'impazienza che ti spinge al non so cosa per cui ogni giorno mi alzo di nuovo dal letto e guardo in alto costruttivamente e osservo le vagine rasoterra; sebbene lontano, spesso, intraveda la morte. Poi faccio l'igiene dentale, scopo, torno a casa e, sempre più frequentemente, più che altro, guardo scopare. Parlo con te e con gli altri; parole vuote fuoriescono dalla bocche: non c'è alcun significato sorprendente se non di germogli da semi ed è impossibile stabilire quale sia la personalità che parli e che si voglia dire. Diverse e molteplici sono le uscite ma non ci sono vie d'uscita; in entrata un po' di sperma è il passaggio da conservare, in una vagina losanga e clessidra, gonfia come un bulbo di pianta, o nella pisside della tua gola, dove si fa la comunione col mondo, in un calice di fiore, e i denti sono petali che cadono e la lingua il suo pistillo, una lingua prigioniera in ceppi, rassegnata e comoda nelle sue catene le tonsille il cui linguaggio è l'esistenza. E non c'è soluzione, perché, anche se non lo sai, è in te che nasci quanta morte esiste e l'intensità della tue passioni è il ragno che di essa fila la tela attorno ai rami della vita.

 
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alla fine del mese del sole

Post n°154 pubblicato il 23 Gennaio 2014 da andrea_firenze
 

alla fine del mese del sole, in cui sono nato, me ne andrò curioso come un pesce del mare per le strade di Montsouris, stretto fra la città universitaria, la rive gauche della Senna e le catacombe, indifferente alle piste degli astri ed alla pace che va fatta per sopravvivere, di nuovo bersaglio dell'instancabile riproporsi delle cose. Percorrere delle distanze, separarsi oppure incontrarsi ancora, in stati diversi, rivestiti di movimenti, corpi incauti e gesti d'autodifesa è una sporca faccenda diretta dal caso con storie di malizia o di disinteresse poiché esso non è un ente astratto di cui siamo vittime ma semmai si costituisce nella distrazione che fa divergere in noi la determinazione e allenta il nodo fra la mente, i più bassi desideri e il cuore. Per caso mi hanno gettato alla nascita nel mio corpo, come un po' di terra in un vaso; per tanti anni ed ancora questo corpo mi ha usato come io uso lui, lo ha fatto per la sua di sopravvivenza: è comprensibile. Poi sono finito, ancora per caso, nel tuo, come sarò fra pochi giorni nel tuo quartiere; dico nel tuo di corpo, che come gli altri a ben guardare è un buco, dove c'eri già tu; là per poco sono rimasto e adesso torno in chi ti tiene, cosicché lui contenitore vi sarà di nuovo contenuto ma non potrà raggiungerti poiché altrove sei caduta e non sei più dentro ai tuoi capelli neri e al tuo viso, che hai prestato come guanti e cappello a qualcun altro, e dal quale, per caso o per fortuna, dalle feritoie, potremmo di nuovo, inutilmente, forse appena scambiare il muco. E ormai ti so trovare solo nei posti dove ti ho nascosto, nei ricordi, che sono i buchi che ho fatto con le mie mani, tasche invisibili, che mi trascino dietro, e l'unica possibilità che avremmo avuto sarebbe stata appunto una caduta e poi uno scontro in uno stesso posto, come cadono le pesche dallo stesso o da un ramo diverso e, fortuitamente, si trovano a morire assieme, rotolando, fra l'erba. E che altro sono la vita e la morte se non rimbalzi di distanze, e che succeda di rivedersi non è più probabile fra queste strade illuminate di quanto lo sia dove saremo senza respiro, al buio, senza orientamento. Chissà se succederà di incrociarsi in Rue des Fossés-St-Germain, o a prendere un'acqua gelata o a gustare un sorbetto all'improbabile caffè Procope, mobilio di lusso adesso, ma luogo piuttosto malfamato, che mi sarebbe piaciuto ai tempi in cui Verlaine ci passava le giornate. E neppure oggi ti sento respirare ma infondo è un dettaglio, un accessorio che potremmo smarrire e non perderemmo la nostra natura; e qual'è la nostra natura di adesso e quale sarà per il futuro se non il solco della divisione, l'orlo della separazione. Solo il nulla e il tutto coincidono, come persone al mattino che si specchiano; essi soli sono il bello fatto, la piena conseguenza dell'azione e non lo sterile incremento d'esultanza dei ricordi, delle passioni, delle sensazioni che sono brevi lamenti di allontanamento, e ogni giorno si fanno più sommessi, perché si dimentica presto ciò che ci è appartenuto, semplicemente perché non ci appartiene più, e non si tratta di un costante dolore di protezione ma di passeggera sofferenza per ciò che non avremo indietro e che sostituiremo. E ogni giorno mi fa male, ma almeno penso, e ogni giorno mi chiedo, con pudore, se oggi faccia male un po' meno. E vorrei poterla abbandonare la sensibilità con cui non riesco a venire a patti; vorrei abbandonarla, come un cane, questa timida ragazza, a volte sfacciata come una puttana; vorrei proprio che non desiderasse che tu sapessi che alla fine del mese del sole, in cui sono nato, me ne andrò curioso come un pesce del mare per le strade di Montsouris, stretto fra la città universitaria, la rive gauche della Senna e le catacombe; vorrei che non desiderasse che tu sapessi che prenderò un gelato al caffè Procope, adesso ristorante Procope, indifferente alle piste degli astri ed alla pace che va fatta per sopravvivere, di nuovo bersaglio dell'instancabile riproporsi delle cose. Cose per le quali “il pleure dans mon cœur come il pleut sur la ville”.

 
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