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IL CADETTO DEI BORBONE

Post n°142 pubblicato il 30 Ottobre 2006 da takagika

Gaeta novembre 1860

E chi glielo avrebbe detto che lui ora era qua su uno sperone di roccia battuta dalle palle di cannone come un’eroe dei quadri che aveva visto una volta al Museo di Capodimonte. Si sentiva come se fosse già grande. Era solo un cadetto ma quel giorno faceva la guerra come un soldato vero.

Certo la divisa cominciava a stargli stretta e s’era pure rovinata nella polvere e nella terra della trincea. Ma fuori, fuori sembrava Piedigrotta tra botti tonfi e spari.

Tutta Gaeta sparava e non era a salve. Dio quanto era bello.

Monte Orlando guardava verso il basso e il mare era così blu da sembrava di diamante.

Vide gli spruzzi filanti verso la prua della nave sabauda che li sfidava. Cannoni da fortezza contro navi da battaglia come nel manuale della scuola militare.

Solo che non era sui banchi dell’aula. L’odore, i rumori erano quelli della guerra vera.

Caricarono ancora. “Pronti! Fuoco !!”.

Inquadrarono nel mirino del pezzo d’artiglieria il tricolore della fregata.

“Questo ai Savoia e questo a Garibaldi”.

La batteria faceva il suo dovere sputando fuoco dal crinale.

Ei proiettili del cannone si potevano quasi vedere fermi in aria.

Ma la battaglia non andava bene.

Erano circondati. Da terra le postazioni del nemico si erano moltiplicate

E non contenti quei “fetentoni” si facevano sotto sempre più vicini.

In piazza un capitano aveva detto che si stavano spingendo da Monte Cristo a ridosso degli spalti per aggiustare il tiro.

“Da là ci fanno secchi senza temere neanche uno starnuto”.

Il tiro di controbatteria finiva corto. Molti pezzi erano dei tempi di Bonaparte, pochi avevano canne rigate. Ma il coraggio quello non mancava di certo.

Lontano una corvetta piemontese puntava verso sud.

“Ha visto Miche’, hai visto che bordate”.

Nella ridotta della batteria tre ragazzini effettivi al Reggimento Regina e un vecchio maresciallo guardavano a distanza il duello di piombo.

Ora sparavano verso il castello e una canna rigata, una delle poche, rispondeva secca colpo su colpo, affinando il tiro.

La pirofregata  intanto s’era allontanata dopo una grandinata di bombarda.

Napoli stava sullo sfondo bella nella giornata tersa. Pensò alla scuola. I giorni del maniero si erano interrotti ma non per le vacanze era solo novembre e re Francesco alla reggia non c’era più. Ora stava con loro e dal castello continuava a far guerra ai piemontesi. La Nunziatella era così distante come mamma e papà. Ma lui era grande e ce lo aveva scritto che il dovere si fa anche a 15 anni e si doveva. Senza permesso né benedizione era scappato insieme ai suoi compagni, tutti cadetti, ed oggi stava lì davanti al fuoco.

Il capitano della nave sarda stava per dare l’ordine di fuga, la botta verso l’alto era l’avviso che l’assalto finiva ma a Michele, Antonio e Nicolino non lo disse nessuno che arrivava.

D’un tratto la montagna gli esplose in faccia, la trincea venne giù come inghiottita dallo scoppio. La terra in bocca, negli occhi anche nel naso persino nelle tasche della giacca. Il maresciallo riuscì a tirarlo fuori, mezzo morto ma gli altri se li era presi la bordata.

Più tardi in ospedale tra i gemiti  i feriti che la battaglia aveva risparmiato sembrava di sognare: una bella signora in mezzo ai pagliericci e alle brandine il passo lieve. E intorno gli ufficiali, le mostrine, le sciabole splendevano di loro. Stavano tutti intorno: “E’ la Reggina !! “Una bella così chi l’ha mai vista”. Ma quando poi se la trovò vicina che gli toccava il viso con le mani credette di vedere il paradiso. “Non piangete Signo’ io sto bene e ora m’alzo mi aggiusto e vado fuori. Certo non sono ancora caporale ma il mio dovere posso farlo anch’io”. Un capitano lo guardò negli occhi e a lui sembrò che si tirasse dritto come faceva lui coi superiori. Un brivido di freddo ed era morto l’ultima cosa ferma dentro gli occhi Maria Sofia e gli uomini li intorno rigidi sull’attenti nel saluto.

 

 

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