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Morte Di Gambini

Racconti

 

 

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Naufragio con Spettatore

Post n°730 pubblicato il 24 Aprile 2012 da antonio.gambini
 
Tag: CANDY

Lucrezio: Libro II, De rerum natura, 1-61

Suave, mari magno turbantibus aequora ventis e terra magnum alterius spectare laborem; non quia vexari quemquamst iucunda voluptas, sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest. suave etiam belli certamina magna tueri per campos instructa tua sine parte pericli; sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere edita doctrina sapientum templa serena, despicere unde queas alios passimque videre errare atque viam palantis quaerere vitae, certare ingenio, contendere nobilitate, noctes atque dies niti praestante labore ad summas emergere opes rerumque potiri. o miseras hominum mentes, o pectora caeca! qualibus in tenebris vitae quantisque periclis degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur iucundo sensu cura semota metuque? ergo corpoream ad naturam pauca videmus esse opus omnino: quae demant cumque dolorem, delicias quoque uti multas substernere possint gratius inter dum, neque natura ipsa requirit, si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes lampadas igniferas manibus retinentia dextris, lumina nocturnis epulis ut suppeditentur, nec domus argento fulget auroque renidet nec citharae reboant laqueata aurataque templa, cum tamen inter se prostrati in gramine molli propter aquae rivum sub ramis arboris altae non magnis opibus iucunde corpora curant, praesertim cum tempestas adridet et anni tempora conspergunt viridantis floribus herbas. nec calidae citius decedunt corpore febres, textilibus si in picturis ostroque rubenti iacteris, quam si in plebeia veste cubandum est. quapropter quoniam nihil nostro in corpore gazae proficiunt neque nobilitas nec gloria regni, quod super est, animo quoque nil prodesse putandum; si non forte tuas legiones per loca campi fervere cum videas belli simulacra cientis, subsidiis magnis et opum vi constabilitas, ornatas armis stlattas pariterque animatas, his tibi tum rebus timefactae religiones effugiunt animo pavidae mortisque timores tum vacuum pectus lincunt curaque solutum. quod si ridicula haec ludibriaque esse videmus, re veraque metus hominum curaeque sequaces nec metuunt sonitus armorum nec fera tela audacterque inter reges rerumque potentis versantur neque fulgorem reverentur ab auro nec clarum vestis splendorem purpureai, quid dubitas quin omnis sit haec rationis potestas, omnis cum in tenebris praesertim vita laboret? nam vel uti pueri trepidant atque omnia caecis in tenebris metuunt, sic nos in luce timemus inter dum, nihilo quae sunt metuenda magis quam quae pueri in tenebris pavitant finguntque futura. hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest non radii solis neque lucida tela diei discutiant, sed naturae species ratioque.

 

Traduzione Italiana

È dolce, quando sul vasto mare i venti sconvolgono le acque, guardare dalla terra alla grande fatica altrui; non perché sia un dolce piacere il tormento di qualcuno, ma perché è dolce vedere da quali mali tu stesso sia privo. Dolce è anche contemplare i grandi scontri di guerra schierati nella pianura senza che tu prendi parte al pericolo. Ma nulla è più piacevole che star saldo sugli alti spazi sereni, ben fortificati dalla dottrina dei sapienti, da dove tu possa guardare dall’alto gli altri, e vederli errare qua e là e cercare smarriti la via della vita, gareggiare d'ingegno, rivaleggiare in nobiltà di sangue, e sforzarsi notte e giorno con instancabile attività per assurgere ad una grande ricchezza e impadronirsi del potere. O misere menti degli uomini, o petti ciechi! In che tenebre di vita e tra quanto grandi pericoli si trascorre questa vita, qualunque essa sia! E come non vedere che la natura nient’altro reclama per sé, se non che il dolore sia rimosso e sia assente dal corpo, e nell’anima essa goda di una piacevole sensazione, priva di affanno e di timore? E vediamo dunque che alla natura del corpo sono necessarie assolutamente poche cose, che tolgano il dolore, e sono tali che possono anche procurare molti piaceri; Può essere allora più gradito, però la natura di per sé non lo richiede, se in casa non ci sono statue dorate di giovani che reggono nelle mani destre fiaccole luminose, perché sia data luce ai banchetti notturni, né il palazzo risplende d'argento e brilla d'oro, né le cetre fanno risuonare i soffitti a riquadri e dorati - mentre tuttavia, distesi familiarmente sulla tenera erba, presso un ruscello, sotto i rami di un albero alto, senza grandi spese ristorano piacevolmente il corpo; soprattutto quando il tempo sorride e la stagione cosparge di fiori le verdeggianti erbe. Né le ardenti febbri, se ti agiti tra coperte ricamate e la rossa porpora, lasciano il corpo più presto che se devi giacere con una misera coperta. Perciò, poiché nulla al nostro corpo giovano i tesori, né la nobiltà, né la gloria del regno, quanto al resto si deve pensare che nulla giove anche all'animo; salvo che, per avventura, quando vedi le tue legioni ardentemente ondeggiare per il campo muovendo finte battaglie, appoggiate da grandi truppe ausiliari e dalla forza della cavalleria, e le schieri fornite di armi e parimenti animate, ‹quando tu vedi la flotta ardentemente agitarsi e spiegarsi per largo spazio,› allora, sgomentate da queste cose, le paure religiose fuggano via dall'animo trepidanti, e i timori della morte lascino allora sgombro il petto e sciolto dall'affanno. Ma, se vediamo che questi pensieri sono ridicoli e degni di scherno, e in realtà i timori degli uomini e le angosce che non ti lasciano mai non temono i fragori delle armi, né gli audaci dardi, ma con audacia si aggirano tra i re e i potenti del mondo, né riveriscono il fulgore che proviene dall'oro, né lo splendore di una coperta di porpora, come puoi dubitare che questo potere sia tutto della ragione? Specie se pensi che tutta la vita si travaglia nelle tenebre. Difatti, come i fanciulli trepidano e tutto temono nelle cieche tenebre, così noi nella luce talvolta abbiamo paura di cose che non sono per niente da temere più di quelle che i fanciulli nelle tenebre paventano e immaginano che accadranno. Questo terrore dell'animo, dunque, e queste tenebre non li devono rimuovere i raggi del sole, né i luminosi dardi del giorno, ma l’osservazione razionale della natura.

 
 
 
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Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
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era la statua nella sonnolenza
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"Il mondo … questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro. Non c’era stato niente prima di esso. Niente. Non c’era stato un momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che m’irritava : senza dubbio non c’era alcuna ragione perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse.

 
Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente : gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza : la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare … ecco la Nausea".

"Eravamo un mucchio di esistenti impacciati, imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d'esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto si sentiva di troppo in rapporto agli altri. Di troppo: era il solo rapporto ch'io potessi stabilire tra quegli alberi, quelle cancellate, quei ciottoli. Invano cercavo di contare i castagni, di situarli in rapporto alla Velleda, di confrontare la loro altezza con quella dei platani: ciascuno di essi sfuggiva dalle relazioni nelle quali io cercavo di rinchiuderli, s'isolava, traboccava. Di queste relazioni (che m'ostinavo a mantenere per ritardare il crollo del mondo umano, il mondo delle misure, delle quantità, delle direzioni) sentivo l'arbitrarietà; non avevano più mordente sulle cose. Di troppo, il castagno, lì davanti a me, un po' a sinistra. Di troppo la Velleda…
 
Ed io - fiacco, illanguidito, osceno, digerente, pieno di cupi pensieri - anch'io ero di troppo. Fortunatamente non lo sentivo, più che altro lo comprendevo, ma ero a disagio perché avevo paura di sentirlo (anche adesso ho paura - ho paura che questo mi prenda dietro la testa e mi sollevi come un'onda). Pensavo vagamente di sopprimermi, per annientare almeno una di queste esistenze superflue.
 
Ma la mia stessa morte sarebbe stata di troppo. Di troppo il mio cadavere, il mio sangue su quei ciottoli, tra quelle piante, in fondo a quel giardino sorridente. E la carne corrosa sarebbe stata di troppo nella terra che l'avrebbe ricevuta, e le mie ossa, infine, ripulite, scorticate, nette e pulite come denti, sarebbero state anch'esse di troppo: io ero di troppo per l'eternità"

(JP Sartre, La nausea)
 

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