Creato da umamau0 il 15/04/2008

Sarcophaga Carnaria

ciò che è non può essere vero

 

 

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Papaveri e rotaie

Post n°22 pubblicato il 20 Luglio 2014 da umamau0
 

La vita di chiunque, a seconda di come la guardi e di quando la guardi, o è un impegno o è uno spreco, e per i più è un po’ l’uno e un po’ l’altro. Impegno per qualcosa o per qualcuno. Spreco dietro qualcosa o dietro qualcuno. O per niente e per nessuno” Antonio Franchini

 

Lui arrivava sempre di corsa. Saliva le scale, le dava un’occhiata e i loro sguardi si incrociavano per un momento, prima che si aprissero le porte del treno.

Lei saliva per prima. Lui la seguiva. Si sedevano divisi dal corridoio, in mezzo a chi ancora stava dormendo. Lui la guardava riflessa nel finestrino, fissava per un momento il sedile sporco che aveva davanti, poi si fermava con lo sguardo sul piede di lei, che dondolava. Quindi, ritornava all’immagine riflessa dal finestrino.

A lui piaceva. Gli piaceva quel piede snello con le vene ben in vista, che si infilava nella scarpa col tacco alto. Gli piaceva quella caviglia sottile. E le gambe accavallate sotto la gonna gli ricordavano quelle delle professoresse, alle medie. Quando i suoi compagni si facevano le seghe in classe guardando dentro alle gambe aperte sotto la cattedra – pensavano che alle prof. piacesse farli godere e lo facevano apposta a tenere le gambe aperte – A lui, quella donna di quasi mezza età, piaceva davvero.

Gli piacevano le curve ancora sode contenute dal tailleur. Gli piaceva la scollatura generosa della camicetta sbottonata. A lui piaceva, ma non sapeva come dirglielo.

Ci aveva provato, ma quello che ne era venuto fuori era un semplice “Buongiorno”. Ogni volta, appena un attimo prima di aprire la bocca, gli tornava in mente quella bambina, che lo prendeva in giro davanti a tutti, perché, lui le aveva detto: ”Ti voglio bene. Mi vuoi sposare?” Da quel giorno, sempre così. Ogni volta si bloccava. Quello che gli rimaneva da fare, era guardare. Senza una parola.

Questa storia andava avanti da due anni. Da quando, per colpa della crisi, aveva rinunciato all’auto per prendere il treno. Tutti i giorni: andata e ritorno dal lavoro. Quando non lavorava, stava chiuso in casa per scrivere qualcosa che pensava di farle trovare sul sedile del treno. Due anni avanti e indietro. Solo sguardi e qualche buongiorno. Lei, di tanto in tanto, incrociava il suo sguardo nel riflesso del finestrino, parlava ridendo al telefono, o sbuffava sotto la pressione di quegli occhi sempre addosso. Ma non faceva una piega da dietro gli occhiali da sole. A lui piaceva quella donna sicura, chiusa in quel tailleur. Ma non riusciva a dirglielo.

In certi momenti avrebbe voluto essere come quei muratori che fischiavano dietro a tutte le donne. Oppure, avrebbe voluto accendersi una sigaretta: uno sguardo un tiro; uno sguardo un tiro; alla fine della sigaretta, le avrebbe fatto un occhiolino e il gioco era fatto. Lei avrebbe finalmente capito. Ma lui non aveva mai fumato. Lui non era mai stato con una donna. Ogni volta che ci provava. Il ricordo di quella bambina, pesava come la morte sui suoi desideri. E poi, come lo avrebbe detto ai suoi che amava una donna di vent’anni più grande di lui? E se avesse un marito e dei figli? No. Non poteva essere. Non poteva essere. Meglio continuare a guardare e stare zitto. Due anni di sguardi e qualche “Buongiorno”.

E poi. E poi, arriva un venerdì pomeriggio. Milano è vuota. Loro, come sempre, salgono nell’ultima carrozza del treno delle 13:42, che da Porta Venezia li riporta verso casa.

Lei sale per prima. Lui la segue. Sono seduti di fronte e le gambe si sfiorano. Lui la guarda – sono da soli. Non c’è nessuno – Lei apre il giornale – il treno parte – rimangono vicini, al buio. Lei dondola il piede. Lui la guarda riflessa dal finestrino nei lunghi intervalli di luce e buio del tunnel – il treno va, fa due fermate. Lei chiude il giornale, si toglie gli occhiali da sole e lentamente si abbassa verso di lui. Gli appoggia una mano sulla gamba. Lui diventa rosso e trattiene il fiato. Lei con l’altra mano gli abbassa la cerniera. Lui sempre più imbarazzato, respira lento – il treno va, fa una fermata. Ora, lui le appoggia una mano sulla testa carezzandole i capelli. Vorrebbe dirle che, no. Non era quello che voleva. Il treno va e esce dalla galleria.

A Milano c’è il sole. I papaveri crescono tra le rotaie e lui si abbandona al profumo caldo di quella donna. Chiude gli occhi e pensa alle parole che aveva scritto la sera prima:

“Piove. Piove veleno di miele. Piove e la tua voglia liquida scorre sugli occhi di pietra dei miei desideri uncinati. Piove. Piove fango di magnolia. Piove e il tuo sangue mi nutre nell’utero di questa morte germinante. Piove. Piove sborra senza futuro. Piove e il tuo amore, stanotte, verrà a cercarmi sulle ali di una zanzara per succhiarmi un pezzo di cuore. Piove e stanotte, l’amore mi troverà. Perché l’amore che mi dai non ha vergogna.”

Il treno va. Lui sente l’aria, che entra dal finestrino, sulla faccia. Apre gli occhi e l’unica cosa che riesce a dire, prima di premere il grilletto, è: “Succhia, zanzara puttana!”

Shame

 

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PATRICIA HIGHSMITH

"Non capisco la gente a cui piace far rumore; di conseguenza la temo, e poiché la temo, la odio. é un circolo vizioso emotivo"

 

 

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