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« Tonno selvaggioThe amaro »

La grazia del mio cuore (di Clotilda Trevino)

Post n°115 pubblicato il 25 Dicembre 2007 da bartelio
 


Ringrazio bartelio che ha insistito perché ricopiassi in questo spazio una mia vecchia lettera. Confesso che per scriverla ho dovuto saccheggiare alcuni dei poeti che amo. Perdonatemi. Spero di non disturbare e ne approfitto per augurarvi un buon Natale. Sempre vostra, Clotilda)



Caro Vittorio,

mi perdoni anzitutto l'ardire che mostro nel chiamarla
col suo proprio nome, perché questo è il suo
nome, vero? Mi perdoni dunque
questa libertà che mi prendo,
questo piccolo gesto di intimità che forse le
potrà sembrare inopportuno, affrettato,
persino volgare, ma come lei
certamente saprà,
poiché è uomo di buone letture,
"nomina sunt consequentia rerum",
i nomi sono conseguenza delle cose,
(sopporti, la prego, la civetteria di questa
piccola citazione latina: sa la soddisfazione per
chi, come me, non ha nemmeno fatto le scuole)
e il suo è un bel nome, un nome franco e
aperto, lo stesso nome, per quel delicato
e fitto reticolo di coincidenze nel quale ci
troviamo a camminare, lo stesso nome, dicevo,
che ho dato a uno dei miei figli, Vittorio.

Ho sorriso questa mattina, sa, quando ho
letto la sua risposta ai miei sciocchi
complimenti.
Ho sorriso a quella sua buffa e tenera,
ancorché malandrina,
profferta amorosa.
Sa, alla mia età fa una certa strana
sensazione, come un formicolio, un
calore che sale dai piedi.
Non perché non lo si desideri, anzi: mai
come in questi anni ho sentito forte
il ridestarsi dei sensi, per troppo, troppo
tempo sopiti, ho sentito tornare la memoria della carne
e del sangue. Ma lei sa che gli uomini
comunemente
rivolgono la loro attenzione a chi ancora
ha tutti i propri ossicini in bocca, Vittorio,
lei sa certamente com'è. Gli uomini, e le donne, Vittorio,
anche le donne, si saziano di beni spirituali,
anelano realtà invisibili, ma non amano le rughe
e la pelle vizza. E' una cosa a cui si
fa l'abitudine, presto o tardi.
Come a tante altre, del resto.

Vorrei tornare a quel suo bel testo, Vittorio.
In un momento di distrazione _ del resto
le avevo pur detto quanto fossi indaffarata _
ho chiamato quel testo "racconto", anche se racconto
in fondo non è. Se non le dispiace e se
non le appare offensivo, vorrei parlare piuttosto
di supplica, una sorta, mi conceda, di preghiera,
di perorazione,
come se il personaggio che dice io
si rivolgesse a una divinità assente,
una divinità la cui sede sia vacante,
quasi a invocarne l'epifania,
ma non ne ricavasse che un ricordo
un ricordo struggente, se vuole,
ma difficile da stringere al petto
o nel letto,
la sera.

Sa, Vittorio, non so se ho inteso
compiutamente le parole che lei
ha speso,
e temo persino di avere equivocato;
nel qual caso, mi appello alla sua magnanimità:
ho la mia età e le mie stanchezze.
Ma le dicevo di quanto mi avessero toccata,
di quanto percepissi come prossimi
i temi che ha sfiorato.
Il suo discorso mi ha ricordato una storia
ascoltata tanto tempo fa,
una storia che parlava, non me ne voglia, di ragni.
Non vorrei sembrarle insolente,
tutto fuorché questo, mi creda,
ma per un oscuro gioco di rimandi, la storia si è messa
a marciare di vita propria dentro la mia testa.
Una storia bizzara e persino buffa, se vuole.
Le femmine dei ragni hanno buoni costumi, diceva,
e si accompagnano al maschio che fa i salti
più alti, al maschio dal pelo più scuro,
al ragno che sospira le parole più dolci,
ma che sa anche fare la voce più grossa;
sino a che non subentra sulla scena
un ragno migliore. E poi un altro ancora,
un terzo ragno sensibile, che ha gusti comuni alla ragna:
si parte sempre dai gusti comuni, Vittorio,
e poi nel giro di pochi giorni ci si ritrova
a fare leggiadre acrobazie nel letto,
così diceva la storia.
Ma presto, anche
questo terzo ragno mostra la sua debolezza
di aracnide, ha le coliche, gli spuntano
grossi peli dal naso, e dimentica spesso
i calzini sotto il letto.
Così arriva il quarto ragno, il ragno
migliore di tutti, quello che legge kafka,
musil, proust e ama bach. Aspetti, come lo
definivano in quella storia, ecco: bach, un robot senza cuore
e meccanico geometra. E bach determina il
successo del quarto ragno, e la ragna
gioca di nuovo la scena del "non ti amo più, mio piccolo
infame terzo ragno, ti ho amato ma il mio amore
s'è seccato, come un geranio senz'acqua":
come avvizzisce il sentimento, quando le ore
si accumulano e i denti si cariano,
e il fiato diventa un ansito sempre più pesante.
Non c'è Bach che tenga, Vittorio.
Queste sono le cose che diceva la storia,
che si chiudeva in un gran ballo, sa,
un gran ballo,
un gran numero di scheletri che ballavano
in un cimitero, e tutti si tenevano per
mano e tutto non era più vanità,
ma solo un ballo sciocco che faceva dire:
che abbiamo fatto, che abbiamo vissuto,
che cosa abbiamo creduto, Vittorio,
valeva davvero la pena,
piccolo mucchio di ossa.

La seconda cosa che vorrei dirle, Vittorio, ha a che
fare con la mia vita. E' la mia storia, se vuole
ascoltarla, se non s'è ancora stancato,
arrivato a questo punto, e ne avrebbe del resto ben donde.
Avevo un marito, sa, un marito
col quale ho convissuto per trentadue anni.
Abitavamo al Lorenteggio, in un palazzo tra
piazza Tirana e Largo Fatima, pensi che nomi:
dalla bestemmia del socialismo reale
alla devozione delle pastorelle.
Vivevo in uno di quei palazzi,
uno di quei palazzi che la gente nemmeno vede,
presa com'è nelle pieghe della propria giornata.
Uno di quelli con le strade che ti passano all'altezza
del soggiorno, ed eravamo solo una finestra,
io e Osvaldo, una finestra,
buia di giorno e accesa di notte, una finestra
come tante,
in un palazzo che nessuno guarda davvero,
un palazzo che forse vedono solo i ragazzini,
nella loro infinita crudeltà di ragazzi,
quando immaginano,
sciocchi e bambocchi,
la vita da insetto che vi si svolge.

Osvaldo, mio marito, aveva lavorato
trent'anni in Ansaldo, impiegato all'acquisto dei
materiali, prima che chiudessero
la fabbrica. Aveva fatto le scuole serali
in gioventù, aveva potuto studiare.
Un privilegio.
Gli andò bene, sa, quando chiuse l'Ansaldo.
Pre-pensionamento e via, con tanti anni
ancora davanti a sé. La sua seconda vita,
la chiamava. E come ci era attaccato.
Come ci siamo tutti ostinatamente attaccati,
Vittorio.

Sa, quella mattina gli ho tenuto la
mano e lo guardavo in faccia, anche se
si faceva sempre più tiepido, e il suo polso più fermo.
Non ha avuto nemmeno il tempo di
salutarmi, Vittorio. Non s'era fatto nemmeno la barba.
Ha farfugliato cose incomprensibili.
Un rantolo che faceva glu-glu-glu.
Quel dolore al petto, la corsa
al Niguarda, l'ambulanza che scartava tra
le macchine, il vigile che fermava con la paletta.
Tutto inutile, Vittorio.
Me lo hanno restituito, qualche giorno dopo,
pezzo di carne inerte in una cassa scura,
quel che restava dell'uomo che avevo amato.

La vita è una dimidiazione continua,
e non so se c'è modo di accettarlo,
di prenderla così com'è.
Un poeta (i poeti sono come le lampadine
tascabili, che dimentichi in un cassetto
e vai a cercare quando ti salta la luce;
hanno solo parole: ma lei sa, Vittorio, che le parole
che scambiamo sono una seconda pelle che
ci sfreghiamo addosso),
questa poeta ha scritto che
nel grande dilemma ontologico
che lacera il mondo
è necessaria la morte
perché la vita sia bella.

Eppure noi avevamo fatto un patto,
io e Osvaldo, avevamo fatto un patto,
zitto, silenzioso, lui e io, assieme.
Gli stiravo le camicie e lui
preparava il ragù, comprava il pane,
la carne dal macellaio, passava lo straccio
in cucina.
Nel patto avevamo scritto che non ci
saremmo mai separati,
perché si stava bene assieme,
nella nostra piccola vita da insetto,
perché era un riparo
un modo come un altro per carezzarci e farci
del bene, perché il freddo che ci attende,
là fuori,
non dà tregue ed è per sempre.
Avremmo voluto depistarlo, sa,
quel freddo, avremmo voluto
scaldare i nostri cuori con il tranquillo
invecchiare fianco fianco,
facendo a volte sì ancora l'amore,
in una maniera quasi ispida,
ma sempre senza fare rumore,
come se potessimo
nasconderci da queste insidie,
come se stando zitti, senza parole,
il tempo non ci potesse trovare.
E per un lungo tratto di strada
è andata bene, è andata benone,
ci siamo amati, abbiamo con-diviso le
nostre vite, senza mai saziarci l'una dell'altro:
come ci si può saziare veramente di un essere
umano?

Ma non è mai così, accidenti, Vittorio.
Il poeta che ho imparato a leggere
e ad amare dopo la morte di Osvaldo
dice e si chiede, e ci chiede, dove diamine
siano finiti tutti i baci e gli abbracci
e le promesse e se risaliranno mai alla
superficie, da quegli abissi profondi.
Chi lo sa, Vittorio.
Forse qualcuno ci sputerebbe sopra,
sopra questa nostra vita da insetti
ma chi se ne importa,
ogni vita ha il proprio colore e
conosce i propri fallimenti:
tra pensiero ed espressione
passa una vita, dicono,
e le cose cambiano a seconda del tempo che fa,
e nessun amore è migliore di un altro.
Io posso dire che fino a che è
durata è stata una pacchia
una vera pacchia e che sono
una donna fortunata, Vittorio.
Ho amato e sono stata riamata:
che altro chiedere, Vittorio.

Porto i fiori a Musocco la domenica mattina,
e siamo in tante, sa, un'allegra compagnia di
vedove, e a volte cantiamo sorridendo quella
canzone che saprà: Volver, tornare.

"Volver... con la frente marchita,
Las nieves del tiempo platearon mi sien...
Sentir... que es un soplo la vida,
Que veinte años no es nada,
Que febril la mirada, errante en las sombras,
Te busca y te nombra.
Vivir... con el alma aferrada
A un dulce recuerdo
Que lloro otra vez..."

Ciò che non scordo è quel che avevo giurato di fare,
e che non ho fatto.
Avevo pensato a un mattino chiaro di primavera,
perché potessi sentire il fresco
e l'allegria salire dalla strada, Vittorio.
Avevo immaginato di salire su una sedia
tra i gerani del balcone
ancora in ciabatte
e spiccare il volo
e confondermi con il fresco
e con l'allegria.
Ma poi perché, mi sono detta,
non ho nemmeno un dio ad attendermi,
solo un niente che non riesco
nemmeno a coprire con l'immaginazione
solo quel freddo,
e sapere che il mio corpo
avrebbe riposato accanto al suo,
in quel lento e silenzioso disfarsi
che è di tutte le cose, Vittorio,
per tutte le creature,
un calmo sonno che si scioglie piano,
come dice un altro poeta,
quel calmo sonno può attendere
anche perché non è nulla:
non è davvero nulla,
solo un modo di consolarmi, pensandolo.

Sono rimasta qui
tra i miei, tra i nostri figli,
tra i nipoti,
non l'ho fatto, perché nonostante tutto
la vita mi piace, mi piace che sia così
a volte crudele a volte dolce
una cosa che finisce sempre troppo in fretta.

Quindi, per quel poco che vale _
e per me, per questa donnetta sola,
i ricordi sono tanto, sono tutto,
sono il mio tavolo e la mia musica,
il mio modo di tenere osvaldo dentro,
coperto, come se fosse ancora qui _
per quel poco che vale posso dirle
senza esitazione
che quel vuoto non è me.

Siamo proprio due cose diverse, Vittorio,
io e il vuoto,
siamo due cose diverse, grazie al cielo,
e lo resteremo ancora per un po',
lo resteremo sempre:
perché quando ci sarà lui,
il vuoto,
non ci sarò più io,
e quindi l'onda che ho smosso
sopra la superficie del lago
tornerà a sciogliersi
e sarà come se io non mi ci fossi
mai tuffata.
Un bel modo di fregare il vuoto
non trova, Vittorio:
restituirgli un altro vuoto,
fargli marameo, se vuole,
come un bambino,
come un moscerino,
come un'efèmera.

Lo sa che le efèmere vivono un giorno
solo, a volte due, Vittorio.

La saluto Vittorio, stia bene,
abbia cura di sé e delle persone che ama
e non lasci mai che alcuno le dica
che ha sbagliato, che non ha capito
che non doveva protestare, che non doveva
battere i piedi per terra.
E' l'unica cosa che abbiamo, questa paura
questa tenerezza, questo dolore: è tutto
nostro e ci confonde, a volte, nelle sere
scure, sotto le stelle sfocate di questo
autunno infinito, Vittorio.

"Ovunque proteggi
la grazia del mio cuore"

un tenero bacio
sua clotilda

ps. cielo, mi accorgo solo adesso
di aver dimenticato l'arrosto! :-)

 
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