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« Poesia allegra della vecchiaiaWE are the champions »

Il tetro contorno

Post n°133 pubblicato il 09 Aprile 2008 da bartelio
 

Avvertenza: le persone facilmente impressionabili non aprano questo video. Io vi ho avvertiti.




Vorrei richiamare la vostra attenzione -perdonate questo tono da politburo- su un fatto particolare dell'infanzia di duns.

Verso il primo mattino di quel giorno, col sole basso arancione, una palla in una fettuccina di cielo, duns nel cavalcavia del Cristo Re saliva la salita (che altro poteva fare) accompagnato da nonno primo. Nonno primo era un uomo carico di anni con grandi orecchie pendule, lobi che da soli avrebbero potuto fare provincia, mani callose e schiena curva, tutta l'iconografia tipica del vecchio, un certo odore di muffa nei vestiti, gli occhi acquosi eccetera.

Sul cavalcavia di primo mattino, fuori dal paese, col campanile che sempre, sempre (sempre) suonava da morto, dlon dlon dlon, il vecchio e duns ragazzino si fermarono per un attimo a contemplare lo scempio di quella pianura. Erano parole del vecchio, il vecchio diceva, in questa pianura sin dove si perde crescevano gli alberi e tutto era verde, eccetera.
Pensa cosa mi fanno dire, diceva il vecchio che mostrava una sofferenza difficile da raccontare. Diceva, immagina i frutti, immagina i fiori e pensa alle voci e pensa ai colori, così, in rima; mi fanno parlare in rima, diceva il vecchio, e soffriva sia per la pianura (e era sofferenza autentica di vecchio che ha visto con i propri occhi le cose marcire) che per il modo in cui questa sofferenza veniva espressa, la forma che prendeva.

Il vecchio sentiva che la forma è tutto. La forma è il contenuto, duns, ti ho mai parlato di questa mia invenzione? La forma è il contenuto, diceva al nipote. Mi fanno dire che non so distinguere il falso dal vero, il vero dai sogni, mi fanno rincoglionito, subisco le ingiurie degli anni, io vorrei far vedere loro cosa significa subire le ingiurie degli anni, che cosa mi mettono in bocca, così diceva il vecchio.

C'erano cose nel mattino di duns, dunque. Il sole era basso arancione, ancora in parte assopito, alle spalle della Siad Gas; alla sinistra del cavalcavia del Cristo Re, la Tenaris Dalmine Tubi; più indietro, l'inceneritore; poi l'autogrill Pavesi, sotto di loro l'autostrada e a destra capannoni. Tutto intorno, il tetro e padano contorno di torri di fumo.

Duns si appoggiò con la fronte alla ringhiera del cavalcavia, ferro intrecciato che gli disegnava onde sulla pelle. Gli lacrimavano gli occhi per il freddo (insolito, si era a Aprile, ma un Aprile gagliardo: se non il più crudele, senz'altro il più bastardo dei mesi: duns detestava già allora tutti i mesi che cominciavano con la A).

Guardava la sua terra e aveva come la sensazione del vomito. Vomitò davvero, appoggiate anche le mani alla ringhiera, pensò al tetro contorno e vomitò nei quadrati di ferro incrociato, pezzi di cibo della sera prima - strachì rustì, polenta rancida, yogurt alla fragola - che si appiccicarono al ferro ondulato della ringhiera. Il vomito cadde di sotto nell'erba morta, tra i fiori e l'erba tristi di scarpata autostradale. Il vomito precipitò sull'erba e duns si pulì la bocca col dorso della mano.

Povero figlio, disse nonno primo. Tolse dalla tasca la macchina digitale e scattò una foto al sole e alla periferia industriale dell'impero. Poi chiuse gli occhi per un attimo, sistemò tutto quanto e si incamminò con duns verso la sommità del cavalcavia.
Mentre camminavano, il vecchio e duns bambino si preser per mano, così. Si preser. Perché si preser?, pensava duns nella testa e quel pensiero era come il rimbombo di un campanone che sale e poi ricade, ti trascina in alto e poi ti lascia e sdooooon sdoooooooon: un tale fragore di bronzo!

Perché preser, pensava duns, è tutto in questo preser lo sterile ambientalismo l'affanno dietro le balene il buco dell'ozono le stagioni che vacillano non mangiare la carne che puzza di morte il velleitarismo contemplare i tramonti con gli occhi pieni di lacrime e vaghe domande sul senso della vita e delle cose è in questo pressappochismo metrico che si sfalda il presente in questo poetume che fa alzare la polvere rossa lontano a coprire l'orizzonte, pensava duns bambino con una sorprendente, precoce lucidità e spietatezza.

La dannata polvere rossa che si alzava lontano e ricadeva sui davanzali, sulle teste delle persone, sulle bestie; il sole velato da questa misteriosa polvere rossa splendeva di luce non vera; ma se non è vera, la luce, che sarà mai?, pensava ancora duns, la mano nella mano di nonno primo.

Sul cavalcavia, poco lontano dalla vetta, dove la strada si piega e diventa discesa (sempre che non la si percorra nel senso opposto, perché allora il discorso cambia), dove la discesa ricomincia c'era un uomo con una grande barba e capelli lunghi neri e una chitarra acustica, che strimpellava cantando con una orribile erre moscia. L'uomo, un gigante, puntava il dito verso la periferia industriale, mentre il vecchio e duns s'eran presi per man e salivano, puntava il dito e gridava, il tetro contorno, ecco il tetro contorno di torri di fumo.

Eppure, uomo arrotato, avrebbe voluto dirgli duns, dovresti sapere che la periferia industriale ha prodotto il tetro contorno ma anche l'elettricità e i lettori dvd e i tostapane e il forno a microonde, tutte cose magnifiche, diceva duns al vecchio che piano parlava e piano piangeva.

Perché piangi nonno, chiedeva duns.
Piango perché ho l'anima assente e rincorro il ricordo di miti passati.
Nonno, è grave?
Figliolo è terribile, terribile, figliolo non puoi sapere, ho fatto la guerra, ho visto le trincee, ho seguito le tribune politiche degli anni Settanta, ma tutto questo, tutto questo è niente se confrontato con il tetro contorno.
E un giorno qui era tutta campagna, gli fece eco duns.

I due si guardarono per un attimo.
Figliolo, disse il vecchio, che andava assumendo l'aspetto di un pastore mormone, lascia che ti mostri ancora una cosa. Duns non disse niente, continuò a tenersi aggrappato a nonno primo. Nonno primo guardò verso il gigante dai lunghi capelli neri, arruffati, il vento che gli si impigliava nella barba, un largo maglione blu tutto patacche.
Ancora strimpella, disse il vecchio sottovoce. Pensa, duns, decenni di folk squisito, hai presente i Byrds di Turn Turn Turn, sai Tim Buckley, i Fugs; oppure prendi, per avvicinarci a noi, Michelle Shocked o Ani DiFranco: e noi abbiamo questo, questo! urlò nonno improvvisamente.

Duns si spaventò. Pietrificato, aprì appena la bocca, un filo di bava gli cadde sulle scarpe da ragazzino senza le stringhe.
Disse, nonno possiamo salvarci, possiamo ancora venirne fuori in qualche modo.
Nonno lo guardò, batté le palpebre, è necessario bere fino in fondo il nostro calice, rispose. Somigliava sempre più al pastore mormone di cui sopra, aveva lunghi peli sulle orecchie, denti anneriti, un sesto di sigaro spento tra le labbra, un cappellaccio, l'iride che si contraeva a vuoto nervosamente.

Duns, un'erbaccia non è altro che una pianta fuori dal proprio elemento, disse il vecchio.
Nonno, non ti capisco, perché mi diventi così enigmatico tutt'a un tratto?
Ora fallo, duns, fallo.
E duns lo fece. Si fermò, guardò verso la pianura fin dove si perdeva, fin dove l'occhio di un bambino poteva arrivare e lo fece: ristette.
Ristai figliolo, chiese nonno.
Ssssttt, fece duns.
Ristaccio, ristaggo, ristagno, ristò, nonno, diobono, ristò.
Come ci si sente duns, eh?
Nonno, è doloroso.
Ma poi passa, figliolo, poi passa.
Ristò un altro po', nonno.
Sì figliolo, permani nel tuo ristare.
Dio, come parli, nonno.
Lo so, ma che ci posso fare.

Il gigante sopra il cavalcavia nel frattempo si era fermato e li guardava.
Lo sai che aspetta quell'uomo orribile, lo sai duns?
Lo so, nonno.
E allora dillo, duns, dillo e chiudiamola qui, ti prego, veloce e a bassa voce perché non ci senta nessuno.
Nonno, perdonami,credo di essere ristato a sufficienza. Vorrei chiederti, nota la mia voce sognante, nonno, perdonami e nota la mia voce sognante, nonno, lo sai, perdonami mi piacciono le fiabe, nonno, fai di me quel che vuoi, lo capisco, mi piacciono le fiabe, nonno, raccontamene altre.
Possiamo andare, caro, ora possiamo andare.

Duns si voltò per un'ultima volta verso il gigante dal maglione blu, che appoggiata la chitarra alla ringhiera li osservava con le braccia conserte.

Il tetRo contoRno di toRRi, disse il gigante di nuovo, arrotando tutte le erre con grande crudeltà e fece cenno di sì con la testa come a dire: andate.

E i due, le spalle curve, si allontanarono verso l'orizzonte domestico, giù dal cavalcavia, verso i capannoni, la merceria cinese, l'oratorio Don Giovanni Bosco, lo spazzolificio Crotti, il muro di cinta della Tenaris, l'ufficio di Manpower, il precariato, un disegnatore progettista a cottimo che passava per la strada in bicicletta, una ragazza che lasciava proprio in quel momento lo stage alla Rabarbaro Zucca. Giù verso le fabbriche che chiudevano e spostavano la produzione in Romania e da lì in Turchia e poi in Bangladesh, verso il ristorante cinese Pagoda ricavato in un condominio, le puttane bielorusse di sedici anni, un suv scuro che passava a tutta sopra i dossi all'ingresso del paese.

E ancora rimbombava l'eco delle ERRE arrotate e duns diceva a nonno, nonno io qui non ci voglio restare, è indispensabile? Andiamo a casa caro andiamo a casa, diceva nonno tirandolo per un braccio.
Ho paura nonno ho tanta paura.

 
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