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Messaggi del 16/11/2017

IL CALCESTRUZZO DEGLI ANTICHI ROMANI.....

Post n°1514 pubblicato il 16 Novembre 2017 da blogtecaolivelli

DA INTERNET

Al contatto con l'acqua marina, il calcestruzzo usato

dagli antichi Romani per le strutture portuali diventava

via via più robusto invece di indebolirsi. Merito delle

reazioni chimiche che dissolvevano le ceneri vulcaniche

presenti nella malta e formavano due minerali stratificati,

aumentando la forza di adesione del materiale(red)

Qual è il segreto del calcestruzzo romano che pur a contatto

con l'acqua del mare è arrivato fino a noi, mentre strutture

moderne dello stesso materiale durano solo alcuni decenni?

Se lo sono chiesti alcuni geologi dell'Università dello Utah

guidati da Marie Jackson, che hanno effettuato un approfondito

studio dei minerali e della struttura a microscala di questo materiale

da costruzione, usato anche in molti edifici di Roma, come il

Pantheon e i Mercati di Traiano. Il risultato, pubblicato sulla rivista "

American Mineralogist", indica che la risposta è in una reazione chimica

che coinvolge i minerali contenuti nel calcestruzzo: la loro formazione

a contatto con l'acqua marina determinava un aumento delle forze

di adesione del materiale.


A quanto pare dunque Plinio il Vecchio aveva ragione, quando nella sua 

Naturalis Historia del 77 d.C. scriveva che le strutture in calcestruzzo

dei porti romani, continuamente esposte alle onde del mare, diventavano

ogni giorno sempre più robuste, come se fossero una singola massa di roccia.

La resistenza millenaria del calcestruzzo romano

Una fase dei carotaggi delle strutture in calcestruzzo sopravvissute fino a oggi

a Portus Cosanus, un antico porto romano, in provincia di Grosseto Gli antichi

Romani producevano la malta mescolando cenere vulcanica con calce viva e poi

incorporavano a questa miscela delle rocce, producendo la cosiddetta reazione

pozzolanica, che prende il nome dalla città di Pozzuoli, nei pressi di Napoli.

L'idea di produrre il calcestruzzo in questo modo probabilmente venne

dall'osservazione del tufo, comune in quest'area, che deriva da ceneri vulcaniche

cementate naturalmente.

Un analogo moderno del calcestruzzo romano è il cosiddetto calcestruzzo

di Portland, in cui al cemento sono mescolati sabbia e ghiaia. Questi aggregati

devono però essere di materiale inerte: in caso contrario, si verifica la cosiddetta

reazione alcali-silice, che nel lungo termine frattura il calcestruzzo.

Resta dunque da capire come possa il calcestruzzo di epoca romana essere così

resistente, un problema che Jackson e colleghi studiano da molti anni. Un primo

dato importante è stato ricavato grazie a carotaggi del calcestruzzo dei porti

romani effettuati tra il 2002 e il 2009 nell'ambito del progetto ROMACONS.

Le analisi infatti hanno rivelato la presenza di tobermorite alluminosa, o Al-tobermorite.

I cristalli di questo raro minerale si formano nelle particelle di calce per effetto

della reazione pozzolanica in condizioni di alte temperature: in laboratorio Jackson

e colleghi sono riusciti a ottenerlo solo in quantità limitate.

Ora i ricercatori sono tornati ad analizzare i campioni del progetto ROMACONS

con diversi metodi, scoprendo che la Al-tobermorite e un minerale simile, la phillipsite,

si formarono nelle particelle di pomice e nei pori della matrice cementizia romana.

Il problema è che il processo pozzolanico degli antichi Romani era rapido. Qualche

fattore deve quindi aver causato la crescita di questi minerali a bassa temperatura e

molto tempo dopo che il calcestruzzo si era ormai solidificato.

Secondo le conclusioni degli autori, l'acqua marina penetrava nei pontili e nei

frangiflutti in calcestruzzo, dissolvendo gli elementi costitutivi della cenere

vulcanica, permettendo la crescita di nuovi minerali, tra cui la tobermorite

alluminosa e la phillipsite. In particolare, la Al-tobermorite ha una composizione

ricca di silice, e forma cristalli simili a quelli delle rocce vulcaniche, la cui forma

stratificata rinforza la matrice del cemento. L'interconnessione di questi diversi

strati ha come esito finale l'aumento della resistenza del calcestruzzo alla frattura.

 
 
 

UN ANTICHISSIMO CULTO MAGICO-RELIGIOSO....

Post n°1513 pubblicato il 16 Novembre 2017 da blogtecaolivelli

DA INTERNET

30 giugno 2017

Un culto dei teschi nella Turchia del Neolitico

Un culto dei teschi nella Turchia del Neolitico

Cortesia German Archaeological Institute (DAI)                                                                                                     Nel più antico sito monumentale neolitico, quello

di Göbekli Tepe, vicino al confine turco con la Siria,

sono stati rinvenuti dei crani che portano tracce di i

ncisioni, fori e pitture. Queste alterazioni intenzionali

probabilmente erano legate al culto degli antenati o alla

credenza di poter acquisire particolari capacità del defunto(red)

archeologiaantropologiaA Göbekli Tepe, un sito archeologico

nella Turchia sud-orientale famoso perché nel 1995 vi fu scoperto

il primo complesso monumentale megalitico, datato fra il 9600

e l'8000 a.C., sono state ritrovate le prove dell'esistenza di un

"culto dei teschi" risalente agli inizi del Neolitico. Le analisi di

una serie di crani che hanno portato a questa conclusione sono

state condotte da ricercatori dell'Istituto archeologico tedesco

di Berlino, che firmano un articolo su "Science Advances".

Un culto dei teschi nella Turchia del NeoliticoVeduta aerea di Göbekli Tepe. (Cortesia German Archaeological Institute, DAI)

Gli studi antropologici registrano numerosi casi di culto dei teschi,

che possono essere venerati per vari motivi, dal culto degli antenati

alla credenza nella trasmissione di particolari abilità del defunto

al vivente. Questo culto può assumere forme diverse, dalla deposizione

dei teschi in luoghi speciali, alla loro decorazione con diversi colori fino

alla ricostruzione dei tratti del volto con la malta.

Un culto dei teschi nella Turchia del Neolitico

Pilastro di un edificio di Göbekli Tepe.

(Cortesia German Archaeological Institute, DAI)

Non è chiaro se Göbekli Tepe fosse un complesso di templi,

come ritiene la maggioranza degli archeologi, o di un insediamento anche

abitativo, come suggerito da altri, ma gli scavi condotti a Göbekli Tepe

finora non hanno portato alla luce alcuna tomba.

Tuttavia è stato rinvenuto un numero considerevole di ossa umane,

gran parte delle quali (408 su 691) sono frammenti di ossa del cranio.

La frammentazione dei crani e le tracce e scalfitture presenti su di essi

finora erano stati  attribuiti a processi di degradazione naturali, tanto

più che tutto il sito era stato ricoperto con terra e sassi fino a formare

una vera e propria collina artificiale.

Grazie a una più attenta analisi dei resti, Julia Gresky e colleghi ora hanno

identificato in tre crani parziali delle profonde incisioni praticate con utensili

litici, dimostrandone cosi l'origine intenzionale. Ulteriori analisi hanno escluso

che le incisioni fossero una conseguenza secondaria di un'asportazione dello scalpo.

Uno dei crani, inoltre, mostra anche un foro nell'osso parietale sinistro e residui

di ocra rossa.

Secondo gli autori, probabilmente i teschi furono scolpiti, e forse adornati, per

venerare gli antenati o per esibire nemici uccisi.

 
 
 

UNA NOTIZIA SORPRENDENTE......

Post n°1512 pubblicato il 16 Novembre 2017 da blogtecaolivelli

DA INTERNET

0 maggio 2017

Più di 9000 anni fa la prima domesticazione del riso

Più di 9000 anni fa la prima domesticazione del risoI resti vegetali

del sito di Shangshan, lungo il basso corso del fiume

Yangtze in Cina, rappresentano il primo esempio

noto di riso domesticato e risalgono a un periodo

compreso tra 9400 e 9000 anni fa. Lo rivela una

nuova analisi delle minuscole particelle di silice

incluse nei reperti(red)

La coltivazione preistorica del riso nell'Asia sudorientale

Il riso più vecchio del mondo

agricolturaarcheologiaLa prima domesticazione dei riso ha

una data: è avvenuta tra 9400 e 9000 anni fa. A determinarla

con la tecnica del radiocarbonio sono alcuni ricercatori dell'Accademia

delle scienze cinese guidati da Naiqin Wu, analizzando i resti

della pianta del riso (Oryza sativa L.) scoperti nel sito di Shangshan,

lungo il basso corso del fiume Yangtze, in Cina.

Lo studio, pubblicato sui "Proceedings of the National Academy of Sciences",

mette così un punto fermo nella lunga serie di studi che negli ultimi decenni

hanno cercato di chiarire l'origine l'origine e l'evoluzione di questa importante

cultivar, essenziale per il sostentamento di più della metà della popolazione mondiale.

Più di 9000 anni fa la prima domesticazione del risoCredit: PhotoAlto RF/AGF

Le ricerche in proposito sono risultate particolarmente difficili

e hanno prodotto risultati frammentari. I più antichi resti di Oryza 

sono stati scoperti nei siti di Diaotonghuan e Xianrendong, nella

provincia di Jiangxi, in Cina, e sono stati collocati cronologicamente

alla fine del Pleistocene, cioè tra 12.000 e 9.000 anni fa circa.

Il problema è che insieme a questi reperti sono stati recuperati pochi

manufatti riconducibili a un'attività umana di manipolazione delle piante,

come le pietre usate per la macinatura. La maggior parte degli utensili

scoperti, fatti di osso, corna di cervo e conchiglie, probabilmente

serviva per la caccia e la raccolta e questo, insieme alla loro datazione,

ha suggerito che il riso trovato assieme a essi fosse ancora una specie selvatica.

A candidarsi come primi esempi di riso domesticato sono stati i resti scoperti

nel sito di Shangshan, risalenti a 11.000-8600 anni fa. Anche in questo caso,

però, la datazione effettuata analizzando i materiali organici estratti da

frammenti di vasellame è risultata incerta, poiché potrebberonon riflettere

direttamente l'epoca in cui gli alimenti erano stati manipolati.

Wu e colleghi hanno pensato di datare con la tecnica del carbonio-14 i fitoliti

presenti nei resti di riso. I fitoliti sono microscopiche particelle di silice amorfa

che si trovano nelle piante: la loro utilità nella datazione dei reperti antichi è

dovuta al fatto che, durante la loro formazione, possono includere carbonio

organico derivato dall'anidride carbonica catturata dalle piante durante il processo

di fotosintesi clorofilliana. La concentrazione di carbonio-14 all'interno dei fitoliti

dovrebbe quindi rappresentare le condizioni dell'anidride carbonica atmosferica in

cui si sono formati.

Secondo i risultati dell'analisi, i resti del riso scoperti a Shangshan risalirebbero a

un periodo variabile tra 9400 e 9000 anni fa.

La morfologia dei fitoliti indica inoltre che si tratta di specie vegetali simili a quelle

moderne, il che suggerisce che la domesticazione del riso potrebbe essere iniziata

proprio a Shangshan durante l'inizio dell'Olocene, l'epoca geologica in cui ci

troviamo tuttora.

 
 
 

ANTICHISSIMI MISTERI....

Post n°1511 pubblicato il 16 Novembre 2017 da blogtecaolivelli

DA INTERNET

 L'analisi genetica di frammenti di tessuto mummificato

su alcuni teschi rimaste inspiegate per trent'anni

archeologiaNegli anni settanta, in quella che è la regione

più arida della Terra, il deserto di Atacama, un gruppo

di archeologi scavando nell'antico cimitero di Coyo Oriente,

in Cile, scoprì 225 scheletri e mummie risalenti a un periodo

compreso fra 500 e mille anni fa, quattro dei quali, appartenuti

a donne, mostravano strane lesioni. Come se una parte del loro

ranio fosse stata erosa o quasi "divorata". L'ipotesi avanzata

allora fu che quelle lesioni potessero derivare da lebbra,

tubercolosi o cancro. 

Oggi, a trent'anni di distanza, un gruppo di ricercatori diretti

da Otto Appenzeller del New Mexico Health Enhancement e

Carney Matheson della Lakehead University a Thunder Bay,

in Ontario, è venuto a capo di questo "giallo" archeologico. 
Come raccontano in un articolo pubblicato sulla rivista on line

ad accesso pubblico Plos One, amplificando e analizzando il

DNA estratto da frammenti di tessuti mummificati che ancora

aderivano ai teschi hanno infatti potuto identificare diversi geni

che sono caratteristici del protozoo parassita Leishmania,

che provoca la leishmaniosi. 

La leishmaniosi in effetti è endemica in buona parte del Sud

America, ma "la malattia - osserva Appenzeller - oggi non è

presente a San Pedro de Atacama ed è improbabile che vi

fosse mille anni fa, dato che il clima estremamente secco

impedisce al parassita di completare il proprio ciclo di vita" :

altrimenti sarebbe facilmente divenuto endemico dato che ad

Atacama "tutto il resto che gli serve per il suo ciclo di vita -

sabbia, roditori e cani - è presente". 

Secondo i ricercatori, le donne il cui teschio riportava quelle

strane lesioni sarebbero state immigrate Yungas, una popolazione

che viveva a 400 chilometri di distanza nel bassopiano tropicale

alle falde orientali delle Ande, dove la leishmaniosi è endemica.

Gli abitanti delle aree montane e desertiche di Atacama, dediti

per lo più all'allevamento di lama, apprezzavano le sostanze

allucinogene che crescevano nei territori degli Yungas tanto

che si era creata una fitta rete commerciale fra le due regioni.

Probabilmente, osservano i ricercatori, le quattro donne avevano

contratto la malattia da giovani nel bassopiano e si erano poi

sposate con persone di Atacama prima che si manifestassero le

lesioni facciali, che per svilupparsi richiedono una ventina d'anni. 

 
 
 

DENTI FOSSILI......

Post n°1510 pubblicato il 16 Novembre 2017 da blogtecaolivelli

DA INTERNET

I denti fossili della Grotta del Cavallo non appartengono

a un Neanderthal, come finora creduto, ma a un bambino

della nostra specie. L'accurata datazione dello strato in

cui sono stati rinvenuti i resti testimonia inoltre che

quello del Salento è il più antico insediamento di

uomo moderno in Europa finora conosciuto

antropologiapaleontologiaDue denti da latte scoperti 

presso il sito della Grotta del Cavallo, in Puglia, rappresentano,

in senso metaforico e letterale, la prima infanzia dell'uomo moderno

in Europa. Questi reperti furono portati alla luce da Palma di Cesola

dell'Università di Siena nel 1964 e inizialmente vennero attribuiti

ai nostri "cugini" Neanderthal. Questa attribuzione portò fra l'altro

allo sviluppo di un intenso dibattito sulle capacità cognitive dei

Neanderthal e sul loro possibile sviluppo indipendente di un

comportamento simbolico simile a quello dei primi esseri umani

moderni. Nella grotta erano infatti presenti anche testimonianze

della cultura Uluzziana, caratterizzata da oggetti di ornamento

personale, strumenti in osso e pigmenti.

Ora però un gruppo internazionale di ricercatori, rianalizzando

i reperti con nuove più sofisticate tecnologie ha appurato che essi

sono in realtà appartenuti a un bambino della nostra specie.

Lo studio, descritto in un articolo pubblicato sulla rivista "Nature"

a prima firma Stefano Benazzi, attualmente all'Università di Vienna,

ha analizzato modelli digitali tridimensionali dei denti ottenuti a

partire da una serie di tomografie computerizzate, per confrontarli

con un ampio campione di denti umani moderni e di Neanderthal. 

I primi europei moderni? Vissero in Puglia Cortesia Stefano Benazzi

L'attribuzione è garantita dal fatto che nell'analisi sono stati utilizzati

due metodi indipendenti per confrontare sia le caratteristiche interne

sia quelle esterne dei denti, tra cui lo spessore dello smalto e la

conformazione generale della corona, che hanno fornito risultati

perfettamente concordanti. "La nostra analisi - ha osservato

Katerina Harvati dell'Università di Tubinga, che ha coordinato

la ricerca - mostra chiaramente che i resti dentali di Grotta del

Cavallo appartenevano a esseri umani moderni, e quindi che la

cultura Uluzziana è stata prodotta da esseri umani moderni e

non dai Neanderthal."

Inoltre, nuove analisi di datazione al radiocarbonio effettuate sulle

conchiglie marine rinvenute negli stessi livelli archeologici dei denti

indicano che questi strati risalgono a un periodo compreso fra i

43.000 e i 45.000 anni fa circa. Questa datazione implica che quelli

della Grotta del Cavallo sono i più antichi resti umani moderni in

Europa finora noti. "L'Homo sapiens moderno sembra essersi

diffuso in Europa, un continente già occupato dai Neanderthal,

già prima dell'inizio dell'Aurignaziano", ha concluso Ottmar Kullmer

della Senckenberg Research Institution a Francoforte, rilevando come

la prima linea di penetrazione nel continente sia probabilmente partita

proprio coste europee meridionali che si affacciano sul Mediterraneo.

Alla ricerca hanno partecipato Cinzia Fornai, anch'essa presso

l'Università di Vienna, Francesco Mallegni dell'Università di Pisa,

Annamaria Ronchitelli dell'Università di Siena e Silvana Condemi

del CNRS a Marsiglia.

 
 
 

UN REPERTO ANTICHISSIMO.....

Post n°1509 pubblicato il 16 Novembre 2017 da blogtecaolivelli

DA INTERNET

Il primo del nostro genere

Trovata una mascella "umana" di 1,8 milioni di anni fa
paleontologiaantropologia
Nel 2013 nella grotta di Rising Star, in Sudafrica, è

stata scoperta una straordinaria quantità di resti

fossili di un ominide. La loro classificazione e ricomposizione

ha permesso di stabilire che appartenevano a una nuova specie

di ominide fino ad allora sconosciuta, battezzata Homo naledi

e annunciata poche settimane fa.

Analisi più approfondite della mano e del piede di H naledi

confermano e, anzi, accentuano l'unicità di questa specie di

Homo con cui i paleoantropologi si trovano ora a dover fare

i conti nella ricostruzione dell'albero filogenetico del nostro

genere e della nostra specie. I risultati di questi studi sono

descritti in due articoli pubblicati sull'ultimo numero di "Nature

Communications".

Le caratteristiche uniche di Homo naledi

Cortesia Will Harcourt-Smith/Nature

Il primo studio, a prima firma Tracy L. Kivell, ha analizzato

approfonditamente la mano, che rivela un pollice lungo e robusto

e una morfologia del polso che che si ritrova nei Neanderthal e negli

esseri umani moderni, e che sono considerati adattativi per una

elevata capacità di manipolazione degli oggetti.

Tuttavia, le ossa delle dita sono più lunghe e più incurvate rispetto

non solo all'essere umano moderno, ma anche alla maggior parte degli

australopitechi, indicando che la mano era ben adatta anche per

afferrare i rami per arrampicarsi sugli alberi e sostenere il corpo in

posizione sospesa.

Il secondo studio, a prima firma W.E.H. Harcourt-Smith, è invece

dedicato al piede di questo antico ominide. Si tratta di un piede

sostanzialmente moderno: morfologia dell'alluce, allungamento del

tarso e struttura della caviglia e dell'articolazione calcaneo-cuboidea

testimoniano in maniera chiara che H. naledi era abituato alla stazione

eretta e a camminare in modo bipede. Eppure anche in questo caso si

riscontrano alcuni dettagli, in particolare la curvatura delle falangi prossimali

del piede, che rimandano a una buona capacità di arrampicarsi sugli alberi.

Secondo i ricercatori, tutti questi caratteri indicano che H. naledi doveva

avere un repertorio di capacità di locomozione più ampio sia degli australo

pitechi, poiché era perfettamente a suo agio con la camminata bipede,

sia dell'uomo moderno, poiché si poteva comunque arrampicare e

spostare fra i rami molto più agevolmente.

 
 
 

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