Creato da plumbook il 23/07/2009
Tutto è voluto da Dio.
 

Blog dedicato a Luigi Bracco (1918-1996) che per tutta la sua Vita, pazientemente ha ripetuto pochi e chiari concetti, sia pure con infinite sfumature:

1- Tutto è voluto da Dio, beni e mali, Dio non è stato il Creatore, è il Creatore di ogni fatto piccolo o grande che avviene nella nostra vita.

2-Dio abita nel nostro pensiero, è un pensiero apparentemente uguale agli altri, come Cristo era un uomo apparentemente uguale agli altri.

3-Ogni uomo è stato creato per conoscere personalmente Dio, non per convertire gli altri, non per fare apostolato, non per aiutare i poveri, i malati o gli handicappati, non per cambiare il mondo come piace a lui, il mondo è e sarà come piace a Dio.

4-A Dio si giunge esclusivamente con il pensiero, non con sacrifici, rinunce, regole, istituzioni, creature, riti, canti, feste o modi di comportamento.

5-La vita eterna inizia quando conoscere Dio diventa il nostro prima di tutto nel pensiero.

 

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La luce, prima cratteristica.


La luce è ciò che ci annuncia il suo principio.Anzi la luce è l'unico esistente che non si separa mai dal suo principio. Tutti gli altri esistenti si separano dal principio, anche l'uomo ha la possibilità di separarsi dal suo principio e si separa dal suo principio. Tutte le creature si separano dal loro principio, i figli si separano dalla madre, tutte le cose si separano dal loro principio. La luce è l'unico esistente che non si separa mai dal suo principio e proprio per questo è luce perché ci riporta sempre alla sua origine. Ci annuncia la sua origine.


 

La luce, 2° caratteristica.


La seconda caratteristica della luce è l'invisibilità. Sembra una contraddizione: proprio la luce che ci fa vedere tutte le cose è invisibile. Eppure abbiamo anche detto che la luce non ha bisogno di testimonianze, perché quando c'è si vede e quando non c'è non si vede. La luce è invisibile, quello che rende visibile la luce è soltanto ciò che non è luce. Quello che evidenzia la presenza della luce è l'effetto che la luce opera su ciò che luce non è. Quello che rende evidente la presenza della luce è l'impurità, la luce si vede in quanto c'è un corpo diverso su cui la luce opera. È questa la Luce che arriva ad ogni uomo, che illumina ogni uomo e che ogni uomo avverte, avverte per l'impurità che porta con sé.


 

La luce, 3° caratteristica.

La terza caratteristica della luce è che è infinita, cioè la luce non finisce. Anche come segno la luce riesce ad attraversare miliardi di anni e non si estingue, questo è segno dell'intenzione, perché là dove c'è l'unità, dove c'è l'essere cosciente e l'essere cosciente è uno, lì c'è l'infinito. Il che vuole dire che questa intenzione infinita giunge dappertutto. Siccome noi siamo uno, abbiamo il pensiero del nostro io, noi portiamo con noi questa intenzione che ha la possibilità di riflettersi su tutto. Per cui se noi non raccogliamo in Dio, l'intenzione che noi proiettiamo sulle cose a un certo momento invade tutto e tutti, tutta la creazione di Dio e anche Dio stesso.

(Luigi Bracco)

 

La clorofilla.

La caratteristica della luce è collegare il punto in cui ci troviamo alla fonte della luce stessa. La parola di Dio proprio in quanto è comunicazione del Principio, dell'assoluto, è luce, è luce per noi. Ma la parola va assimilata e cosa c'è in noi che dà a noi la possibilità di assimilare la parola di Dio? Non ci sarebbe niente sulla terra se non ci fossero gli alberi. Tutta la vita viene dal mondo verde. La caratteristica dell'albero è la fotosintesi cioè la captazione della luce. L'albero ha la possibilità, di captare la luce e di trasformarla in energia e attraverso questa energia produce tutto ciò di cui noi abbiamo bisogno per vivere.  La clorofilla nell'albero è quello che assimila la luce.L'uomo capta in quanto è in sintonia con-. Ma la sintonia vuol dire stessa presenza di-. Cioè soltanto se nell'uomo c'è la stessa presenza di ciò che gli viene comunicato, l'uomo può captare quello che gli viene comunicato, soltanto se nell'uomo c'è un punto infinito, l'uomo può captare l'infinito di Dio che si comunica all'uomo. Allora la parola di Dio non fa altro che evocare ciò che in noi c'è di Dio e che il più delle volte è trascurato. Questo qualche cosa di Dio che portiamo in noi è il Pensiero di Dio. L'albero è luce trasformata e tutto ciò che è vivo nel mondo, è luce trasformata e anche noi spiritualmente siamo vivi soltanto in quanto siamo Luce trasformata.La luce ha questa meravigliosa possibilità che trasforma in luce tutto ciò in cui penetra. Trasforma in luce o riduce in cenere.  La clorofilla significa per noi questa capacità di assimilare la luce e questa capacità di assimilare la luce è data a noi dal Pensiero di Dio.Ma questo Pensiero di Dio deve essere attualmente presente nel nostro pensiero.

 

La notte.

Se ci fosse soltanto il pensiero del nostro io e non ci fosse il Pensiero di Dio, noi saremmo illuminati, avremmo la luce del nostro io: il cane non ha mica problema per vedere, l'animale vede. La notte non esiste, è fatta dalla luce. Due luci creano la zona di tenebre, è fisica. Due luci ti creano la notte, è la presenza di due luci, è l'interferenza di due luci che ti crea la zona d'ombra. Tu metti due candele, a un certo punto hai una zona nera, tu metti due candele, metti un foglio in mezzo e vedi un punto nero, c'è il punto cieco, c'è la notte, perché la notte viene data dall'interferenza di due luci. Se tu vuoi la luce devi avere una luce sola che t'illumina. Se tu sei illuminato da due cose c'è la notte. Il dubbio è dato dalla presenza di due cose, tutto lì. L'assenza è determinata da due presenze, la mancanza d'amore non è data dal non avere amore, ma dall'avere tanti amori.Non c'è uno che non abbia amore, c'è uno che ha tanti amori e allora i tanti amori ti creano l'assenza d'amore. (Luigi Bracco)

 

Il Cielo.

 Il pensiero di Dio l'hai, non sai che cosa sia, però il pensiero di Dio ce l'hai. Tu hai il pensiero di Dio, puoi trascurarlo, puoi dire che non ci credi, però ce l'hai. Il pensiero di Dio è dato a tutti. Non siamo noi i creatori, come faccio a dire che non siamo noi i creatori? Per dire che io non sono il creatore, devo avere in me il pensiero del Creatore, altrimenti non potrei dirlo e questo è il pensiero di Dio. Il fatto di accorgermi che non sono io a fare le cose vuol dire che ho presente Uno che fa le cose, pur non conoscendolo ancora. Questo è il luogo.Questo pensiero io l'ho in mezzo a tanti altri pensieri: ho il pensiero dell'albero, del marito, della montagna, dei fiori, ho tanti pensieri e tra questi pensieri c'è anche il pensiero di Dio. La nostra mente è un po' come il cielo stellato. Ci sono tante stelle. Tra tutte le stelle c'è n'è una particolare, diciamo la stella Polare, allora guarda che in quel punto lì, in quella stella lì tu trovi quella cosa lì. Quello diventa un luogo. (Luigi Bracco)

 

Il buco nero.

Noi siamo creati per diventare pensiero di Dio ma diventiamo quello che Dio ci ha voluti, soltanto in quanto noi superando noi stessi pensiamo Dio. Se invece noi pensiamo a noi, diventiamo pensiero del nostro pensiero: ci annulliamo, diventiamo niente. Proiettiamo il nostro pensiero su tutti i doni di Dio ma proprio proiettando ed estendendo il nostro pensiero, il pensiero del nostro io sul tutto di Dio, annulliamo tutto, perché nel pensiero del nostro io non si giustifica niente. La vita ci viene là nella conoscenza, là dove c'era giustificazione, la giustificazione in Dio. Il pensiero del nostro io è un recettore, non è un creatore. Il nostro io deve essere giustificato e deve trovare la sua giustificazione. Quindi noi proiettando il pensiero del nostro io su tutte le cose e lo proiettiamo perché abbiamo la passione dell'assoluto e non possiamo farne a meno, proiettando il pensiero del nostro io su tutti doni di Dio, su tutto l'universo, su tutte le cose, cioè estendendo il pensiero del nostro io all'infinito, noi ci riduciamo a zero, a niente. Cioè ci collassiamo nel nostro finito. Ecco il significato del buco nero, il nostro pensiero è come una stella che a un certo momento collassa tutta su se stessa e diventa un annientamento di tutto l'universo, perché tutto l'universo precipita in questo niente. Ѐ un segno del nostro io che parlando di sé, pensando a sé, si riduce a niente, collassando tutto l'universo su se stesso.

 

L'universo.

L'infinito ha la caratteristica di non poter essere scomponibile, non è divisibile. Vuol dire che l'infinito è infinito in ogni suo punto. Noi abbiamo già questo nel campo dei segni, poiché Dio in tutta la sua opera, non fa altro che significare Se stesso ed essendo Egli infinito perché è Uno, significa Se stesso e noi vediamo che nella creazione, l'universo intero che apparentemente per noi è infinito, è infinito in ogni suo punto. In ogni punto dell'universo c'è tutto l'universo! Non è necessario correre attraverso l'universo, di qua o di là, per conoscere universo: basta fermarsi in un punto dell'universo per scoprire tutto l'universo, perché l'infinito è infinito in ogni suo punto. La realtà è questa: in ogni punto dell'universo c'è tutto l'universo, in ogni punto dell'infinito c'è tutto l'infinito. Noi ci mettiamo a correre per il mondo per conoscere il mondo e facciamo un errore. Se vogliamo veramente conoscere il mondo non dobbiamo correre ma, dobbiamo fermarci in un punto e approfondire, perché in quel punto mi è dato tutto l'universo: è questione di profondità.

 

La stella alpina.

La verità ha bisogno di una dimensione interiore, altrimenti non possiamo identificarla, non possiamo dire:"È vero". Non possiamo dire: "Questo è vero" se non l'abbiamo già dentro di noi. Abbiamo fatto l'esempio delle stelle alpine e qualcuno si è anche stufato... Ma l'esempio delle stelle alpine è molto efficace.... È sufficiente richiamare quello che si è detto in questi giorni: "Beati sui monti i passi di Colui che viene parlandoci di Dio" e abbiamo detto che i passi sui monti sono proprio queste stelle alpine, perché la stella alpina vuol dire "Piede del Leone" e Gesù Cristo nemmeno a farlo apposta è il Leone di Giuda ("Ma uno degli anziani mi disse: «Non piangere; ecco, il leone della tribù di Giuda, il discendente di Davide, ha vinto per aprire il libro e i suoi sette sigilli".)Ap 5.5 Quindi c'è un rapporto e anche queste cose servono, anche le stelle alpine servono a glorificare Dio. Abbiamo detto che la condizione per riconoscere, individuare una stella alpina è quella di averla dentro di noi. Uno che non sappia personalmente, nel suo intelletto che cosa sia una stella alpina, può trovarsi di fronte a migliaia di stelle alpine ma non la può individuare e non può dire :"Questa è una stella alpina". La stella alpina, bisogna che prima sia concepita da noi e si concepisce in quanto si fa il confronto fra la stella alpina e tutti gli altri fiori e quindi si arriva ad individuare la singolarità della stella alpina: quello che determina la singolarità della stella alpina. Conosciuta questa singolarità, adesso, trovando la realtà la possiamo individuare e riconoscere. La realtà è opera di Dio, non è opera del nostro pensiero però il nostro pensiero è la condizione essenziale per poter riconoscere la stella alpina, per poterla individuare. Ecco che noi abbiamo la sintesi. L'individuazione, l'identificazione della stella alpina, è opera di Dio creatore che crea la stella alpina, ma richiede il nostro pensiero.

 

La stella d'assenzio.

La stella di cui parla l'Apocalisse si chiama Assenzio, e precipitando sulla terra avvelena, intossica tutte le acque. Questa stella sono le scienze dell'uomo che sono costruite su due grandi categorie di causa ed effetto ma non considerano il fine. Ma proprio perché non considerano il fine delle cose non tengono presente Dio e proprio in questo diventano motivo di annullamento del significato delle cose. Attraverso le scienze dell'uomo fa asservire tutte le opere di Dio ai suoi fini ma, proprio facendole servire ai suoi fini, l'uomo si priva del significato vero delle cose. Privandosi del significato delle cose, si priva della vita. Possiamo anche dire che tra le scienze e la vita c'è un conflitto. Le scienze hanno poco a che fare con la vita vera dell'uomo, perché non parlano del fine delle cose, le scienze rendono il mondo invivibile all'uomo. Non bastano le lotte degli ecologisti per riparare il mondo da questa invivibilità alla quale approda la conoscenza dell'uomo, perché se l'uomo non ha Dio come fine, per la passione di assoluto che porta in sé, deve distruggere tutto, perché deve asservire a sè tutto, deve fare il niente e facendo niente lui stesso diventa niente. L'unica soluzione per rendere vivibile il mondo, è quella di collegare tutte le opere di Dio con il loro Fine. Perché la Vita sta nel Fine e il fine è il Pensiero di Dio e solo se noi cerchiamo in tutto il Pensiero di Dio, anche l'ambiente attorno a noi diventerà per noi aiuto di vita. In caso diverso noi verremo a trovarci con un mondo che c'intossica e renda a noi impossibile il vivere.

 

Il luogo dei funghi.

Il luogo di Dio è il suo pensiero. Ma il luogo per essere luogo deve essere comune anche a colui che cerca. Quindi deve essere comune all'uomo. Perché se non è comune, se non c'è un punto in comune, non c'è la possibilità di passare, di trovare colui che si trova in quel luogo. Se io non conosco il luogo dei funghi certamente non posso trovare i funghi. I funghi non li vedo, però andando in un certo luogo ho la possibilità di trovarli. Perché i funghi si trovano lì. Tutto è segno ed è segno di Dio, segno di Dio per noi. Dio ci significa che soltanto se noi cerchiamo Lui nel suo luogo, non nei nostri luoghi, lo possiamo trovare. Perché il suo luogo è il suo pensiero, la sua Intenzione, non le nostre intenzioni. Qui possiamo capire perché l'uomo, fintanto che non cerca Dio nel Pensiero di Dio, non trova Dio. Ma abbiamo detto però che questo sfuggire di Dio non è per sottrarsi ma è per dare a noi la possibilità di trovarlo. Lui sfuggendo ci indica il luogo in cui Lui si trova. Quindi fintanto che noi lo cerchiamo altrove, non nel Pensiero di Dio, ma in altro da Dio, proprio questo suo sottrarsi a poco per volta ci fa pensare. Se io non trovo i funghi in un campo di grano sono costretto a pensare.

 

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Il Battesimo di Giovanni.

La preparazione di Giovanni sta sopratutto nella giustizia. Dare a Dio quello che è di Dio. Tutto viene da Dio e tutto va riportato a Dio. Questo è il battesimo di Giovanni Battista. Quindi tutte le cose che arrivano a noi vanno riferite a questa giustizia. Da questa giustizia nasce l'interesse, nasce l'amore che tende a vedere tutto come lo vede l'essere amato, ad ascoltare tutto ciò che dice l'essere amato, a desiderare di capire, tutto ciò che capisce e tutto ciò che fa l'essere amato. Perché l'amore si trasferisce nell'essere amato. Vive nel pensiero dell'altro.  

 

Il niente.

Il niente non è concepibile perché non esiste. Se esistesse non si direbbe niente. Eppure l'uomo lo esperimenta. La parola "niente" è una delle più usate dalla bocca degli uomini. Il niente di per sé non esiste. Esiste in relazione a ciò che noi desideriamo. Quando è che noi diciamo "niente"? Quando cerchiamo una cosa, quando abbiamo una cosa presente nel nostro pensiero, però non la notiamo davanti a noi, non l'abbiamo presente nella realtà sensibile in cui la cerchiamo. C'è niente in relazione a quello che io ho in testa. Quindi il niente è relativo a un nostro desiderio quando questo desiderio non trova esaudimento.

 

Il paradiso e l'inferno.

Il paradiso o l’inferno sei tu; paradiso o inferno è ognuno di noi, è uno stato d’animo. L’anima che è capace, che ha la grazia, che ha la possibilità di conoscere Dio, di pensare Dio, di guardare le cose dal punto di vista di Dio è nella pienezza della gioia: Paradiso. L’anima che ad un certo momento si è chiusa, si è fossilizzata nel pensiero dell’io, che è diventata una pietra, che non riesce più a ricevere niente d’altro, quella diventa inferno.


 

Il Purgatorio.

Adamo era nel tempo perché stava crescendo. Anche il purgatorio è nel tempo. Il purgatorio è soggetto al tempo, perché sono creature in formazione. Quando io dico che la morte è mandata da Dio, io me la debbo digerire nel purgatorio, altrimenti non entro mica. E quindi mi devo digerire tutto, non sono più disturbato dai problemi del mondo ma sono sempre nel tempo. Sono in maturazione come Adamo era in maturazione. C'era tutto questo divenire che tende verso questa grande conclusione: concepire Dio, altrimenti non puoi dire chi è Dio.


 

Il Demonio.

Non ci sono due creatori. Ed è per questo che non puoi attribuire nulla di ciò che esiste o avviene ad altro da Dio. Il demonio è uno che non raccoglie in Dio e non riferisce le cose a Dio. E questo può essere il nostro io, perché il demonio ha un io che non riferisce le cose a Dio ma non è per nulla creatore come nessuno di noi è creatore. Uno solo è il Creatore vuol dire che non devi riferire nulla di tutto ciò che esiste e accade ad altro da Dio.


 

Il peccato.

Il peccato sta nel disunire le opere di Dio da Dio, nel non riportare a Dio le cose che Dio ci fa arrivare.Tutto è di Dio e il peccato sta nel non dare a Dio quello che è di Dio.C'è in noi questa possibilità: non riportare a Dio quello che è di Dio, disunire le creature, le cose dal Creatore,.Tutte le cose arrivano a noi da Dio e non tutte le cose vengono riportate a Dio da noi. Quello che non riportiamo a Dio, forma in noi il peccato.


 

 

Biografia Luigi Bracco.

Post n°39 pubblicato il 12 Aprile 2020 da plumbook
Foto di plumbook

Biografia di Luigi Bracco. Di Gianpiero Pettiti per “La Fedelta” di Fossano. -

“Noi abbiamo un contabile che fa meditazione”: è il commento, tra lo stupito e lo scandalizzato, che si bisbiglia a Fossano sul conto di un ragioniere, tal Luigi Bracco, che un bel giorno, di punto in bianco, abbandona un posto di lavoro dalla promettente e ben remunerata carriera, per dedicarsi, in casa propria, alla preghiera e alla meditazione. Se l’esperienza delle “monache di casa” non è certamente nuova nella storia della Chiesa, bisogna però dire che questo “monachesimo domestico” si è sempre quasi esclusivamente espresso al femminile, e non è mai stata così comune, specie dalle nostre parti, una sua versione maschile. Si capisce allora lo sconcerto del rilevatore del censimento che alla domanda “professione?”, sentendosi rispondere da Luigi “Faccio la volontà di Dio”, si trova nell’imbarazzo di cosa scrivere, finendo poi per faticosamente concordare con il diretto interessato la formula “religioso laico” che più si avvicina, pur senza centrarla in pieno, con la particolare ed esclusiva “ricerca di Dio” che l’uomo sta conducendo. Nasce nel 1918, ereditando una particolare predisposizione per gli studi dal padre e dal nonno: come loro in prevalenza autodidatta, con spiccata preferenza per gli studi filosofici e teologici, ma anche portato per le scienze esatte, in nome delle quali si diploma ragioniere da privatista, con l’aiuto e sotto l’assistenza del futuro cardinal Pellegrino, esigentissimo e per niente disposto a fare con lui brutta figura. Un rischio abbastanza remoto, vista la promozione a pieni voti e la totale applicazione negli studi, per i quali sacrifica tutto, anche i giochi e i divertimenti classici dei bambini. Orfano di padre nel 1927, che muore in conseguenza della “spagnola” contratta nella prima guerra, ancor prima del diploma di ragioniere comincia a lavorare all’Ufficio Imposte, dove dimostra di sapere il fatto suo e si impone per la serietà e la diligenza nel lavoro. Arruolato durante la seconda guerra (anche se in teoria dovrebbe esserne esonerato in quanto orfano di militare deceduto per causa di servizio) viene spedito alla Cecchignola, da dove fa ritorno dopo l’8 settembre 1943, attraversando fortunosamente l’Italia a piedi e vivendo poi, fino alla Liberazione, tappato in casa. Ufficialmente disertore, che rischiava grosso, anche la deportazione; concretamenteun giovane uomo che non può aderire alle forze armate della RSI e combattere a fianco dei Tedeschi. L’autosegregazione nella sua cameretta è forse il preludio alla sua successiva vocazione: studio continuo e preghiera lo modellano alla vita contemplativa e meditativa che si esprimerà al meglio a Liberazione avvenuta. Luigi è assunto alle dipendenze della Cassa di Risparmio: si impone come sempre per capacità e professionalità, gode della stima dei superiori ed è facile pronosticargli una brillante carriera (qualcuno già lo vede direttore di filiale, tutti comunque avvertono di aver a che fare con uno che “farà strada”). Invece qualcosa in lui si rompe e la prima ad accorgersene è la mamma, che lo vede ammalarsi, diventare inappetente e insonne, reso perennemente triste da un tormento interiore che Luigi non vuole svelare, quasi vergognandosene e che tira fuori un giorno solo perché pressato dai famigliari: “Non voglio mica passare la mia vita dietro una scrivania”. È l’inizio della crisi interiore, dalla quale sa di non poter uscire senza abbandonare quel lavoro, che tuttavia gli è indispensabile perché unico mezzo di sostentamento della famiglia. Mamma, dopo la vedovanza, ha allevato, mantenuto e fatto studiare i figli, imparando anche a fare la maglierista e riuscendo alla fine a comprare, di seconda mano, una macchina per lavorare a maglia. Si rende quindi perfettamente conto che, qualora venisse a mancare lo stipendio del figlio, dovrebbe continuare a mandare avanti la famiglia come aveva fatto fino ad allora, tuttavia, da donna cui non manca la fede, sprona il figlio a lasciare il lavoro ed a seguire la sua “strana” vocazione, “perché”, dice, “la Provvidenza ci penserà”. La gente commenta e non approva: nulla sarebbe stato se Luigi avesse abbandonato il lavoro per entrare in convento o in seminario, ma il dedicarsi esclusivamente alla preghiera e alla meditazione restando in casa è davvero troppo per il comune sentire. Così c’è chi lo giudica uno scansafatiche, chi lo critica per aver buttato alle ortiche un posto in banca che tutte le persone “normali” si sognerebbero e c’è anche chi commisera quella mamma che ha fatto tanti sacrifici per mettere quel figlio all’onor del mondo e che si vede ripagata a quel modo. Siamo nel 1946, nell’immediato dopoguerra, c’è fame di lavoro e tanta povertà, soprattutto spirituale, cui Luigi cerca di ovviare intensificando il suo rapporto con Dio. Il lavoro principale, se non esclusivo, di Luigi Bracco diventa così la ricerca di Dio, la meditazione della sua Parola, l’annuncio di uno stile nuovo di vita modellata sul Vangelo. Nascono i “gruppi del Vangelo” a dimensione domestica, ospitati cioè nelle case di amici e conoscenti che si lasciano affascinare dalle sue proposte e dalla radicalità con cui annuncia ed attualizza il messaggio evangelico. Non si limita ai confini fossanesi, facendo anche qualche puntata fuori diocesi, addirittura a Peveragno, che raggiunge in bicicletta oppure a piedi perché rifiuta, coerentemente con lo stile povero di vita che si è imposto di servirsi del treno o di accettare passaggi in auto. Nel 1948, insieme a don Antonio Gazzera e Cina Ramonda, dà vita alla “Messa del Povero”, mutuandone nome ed idea dall’analoga esperienza avviata da Giorgio La Pira a Firenze nella chiesa di San Procolo, ma soprattutto attingendo allo spirito più autentico del Vangelo. Sono le Domenicane ad ospitare, all’inizio, questi incontri domenicali dei vecchi e nuovi poveri, ai quali insieme all’annuncio della Buona Notizia di Gesù e alla celebrazione eucaristica, viene offerta la colazione, magari qualche vestito o un po’ di viveri per la settimana. Per qualcuno è anche l’occasione per lasciarsi sbarbare e ripulire, per tutti è sicuramente il posto in cui trovare un incoraggiamento o una parola di conforto. Gli appuntamenti si spostano poi, e continuano tuttora, alla chiesa di San Giorgio e nei locali attigui, che certamente meglio si prestano a questo genere di accoglienza, ma la domenica caritativa di Luigi non si limita qui, prolungandosi nel pomeriggio con la visita dei malati, nelle corsie dell’ospedale o nei sanatori, dove lascia un segno di amicizia, una parola buona, una rivista. Di pari passo con l’intensificarsi della sua attività a servizio della Parola di Dio, cresce anche una sorta di diffidenza nei suoi confronti, soprattutto in alcune frange del clero fossanese. “Più che diffidenza, ricorda oggi un testimone di quell’epoca, direi una certa difficoltà a capirlo; si avvertiva il rischio che si travisasse il suo messaggio, perché Bracco volava alto, molto alto e mica tutti riuscivano a seguirlo”. D’altronde, non bisogna dimenticare che, soprattutto in epoca preconciliare, una certa diffidenza circonda la stessa Parola di Dio, soprattutto se lasciata in mano ad un laico. Dal 7 settembre 1966 le meditazioni di Luigi vengono pubblicate sul “La Fedeltà” a cadenza settimanale nello spazio “Oasi dello Spirito”, offrendo ai lettori “la ricchezza del suo pensiero, la profondità del suo spirito e anche la squisita delicatezza dei suoi sentimenti che trapelano, ora qui ora là, con accenti di alta e velata poesia prorompente da un cuore appassionato per Dio, da quasi tutti i suoi scritti”. Sarà una collaborazione che durerà trent’anni, cioè fino alla sua morte, anzi anche dopo, visto che a cura dei suoi amici si continuerà per alcuni mesi a pubblicare i suoi scritti inediti. Ma già da ben prima le sue meditazioni hanno una loro divulgazione attraverso semplici fogli ciclostilati che a pacchi vengono spediti e diffusi anche a Torino, dimostrando quanta sete di Dio alberghi nel cuore dell’uomo. Luigi muore il 14 aprile 1996, domenica in Albis, dopo aver ultimato il suo calvario di sofferenza in unione a quello di Gesù. Proprio il Venerdì Santo è confortato dalla visita e dalla benedizione di mons. Natalino Pescarolo, che lo ringrazia del servizio di preghiera e testimonianza reso per mezzo secolo, definendolo poi, durante la veglia funebre, “maestro e testimone della Parola di Dio”. Una testimonianza, forse meglio di altre, prova a sintetizzare la sua eccezionale esperienza del divino:“La sua vita era caratterizzata da un’autenticità, una schiettezza e una coerenza sorprendenti e anche da aspetti apparentemente contrastanti: severo e gioviale; riservato ed aperto; staccato (“bisogna saper far l’orso se si vuol salvare il tempo interiore per Dio”, soleva dire) e disponibile ; amico dei poveri e amico dei ricchi; netto, radicale, senza mezze misure nelle scelte di vita e amante delle cose belle, della natura, dell’arte, della musica, dei fiori e soprattutto della montagna...”.Insieme alla sua testimonianza di vita e alla sua costante ricerca dell’Assoluto restano oggi di lui, la Casa di preghiera, ancora aperta sul Coniolo, le sue pubblicazioni, le registrazioni delle sue meditazioni, qua e là i suoi spunti e le sue meditazioni, che continuano a circolare. e che si trovano anche in internet.

 
 
 

L'ultimo giorno di festa.

Post n°38 pubblicato il 08 Aprile 2020 da plumbook

Commento di Luigi Bracco al Vangelo.

Nell'ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: «Chi ha sete venga a me e beva”.

Gv 7 Vs 37

3.Aprile.1983

Incontro completo:https://www.youtube.com/watch?time_continue=3185&v=5x3EI86iozs&feature=emb_logo 

 
 
 

La scoperta del pensiero di Dio oggettivo in noi.

Post n°37 pubblicato il 07 Aprile 2020 da plumbook

Qui si parla di ultimo giorno della festa. La festa era quella dei Tabernacoli. Ultimo giorno fa pensare che la festa stia passando. Il concetto di festa è legato al concetto di riposo. Riposo da che cosa e riposo per che cosa? Normalmente si dice che la festa è riposo dai lavori servili e che sia sufficiente questo. L’interpretazione del mondo è che la festa è data per recuperare le forze. C’è anche una interpretazione religiosa della festa che si richiama al riposo del Creatore nel sabato, dopo avere fatto tutta la creazione. Per cui secondo l’interpretazione religiosa, il giorno di festa bisogna andare a messa e compiere certi doveri. Ma è tutto un concetto di festa inteso come assenza di occupazione nel mondo. Invece quello che è sopratutto efficace nel concetto di festa è il riposo per-, per quale motivo? Cioè essendo tutto opera di Dio, dobbiamo chiederci perché nell’ultimo giorno Dio si riposò. Cioè tutto quello che Dio ha fatto, lo ha fatto per noi. Se l’ha fatto per noi dobbiamo chiederci quale possa essere il significato di questo suo riposo. Questo riposo di Dio è un invito all’uomo ad entrare nel riposo di Dio, nella pace di Dio. C’è questo silenzio, questa assenza d’impegni nella creazione, affinché la nostra anima possa essere disponibile ad occuparsi delle cose di Dio, ad entrare nel riposo di Dio, nella pace di Dio. San Paolo nella sua lettera agli ebrei dice: “Se tu oggi ascolti la parola di Dio affrettati ad entrare nel suo riposo, nella sua pace affinché non t’avvenga come avvenne a quegli ebrei che non poterono entrare nella terra promessa, perché mancò loro la fede”. Qui ci fa capire che la fede è quel sostegno che ci deve condurre e introdurre nella terra promessa, cioè che ci deve introdurre nella pace del Signore. Questa pace viene a noi dalla scoperta oggettiva della presenza di Dio tra noi e in noi. Quando si parla di pace s’intende un accordo con-, un armonia con-. L’accordo è presentare un rapporto tra due termini, tra due esseri. L’elemento fondamentale del rapporto è sempre il termine fisso a cui si rapporta ogni cosa. Nel rapporto ci sono due termini, uno è fisso e l’altro si misura su quello. Quello fisso serve come misura per l’altro. Tutto dipende da ciò che nel rapporto teniamo come punto fisso di riferimento. Per cui possiamo stabilire in noi dei rapporti sbagliati, oppure possiamo stabilire dei rapporti giusti. Il rapporto è sbagliato, quando il termine fisso a cui noi rapportiamo non è quello vero, se ad esempio noi abbiamo come termine fisso di rapporto il pensiero di noi stessi, tutto ciò che noi riferiamo al pensiero del nostro io, crea in noi dei rapporto sbagliati. Perché il nostro io non è un punto fisso di riferimento. Da questi rapporti sbagliati, ne deriva che le soluzioni sono sbagliate: anziché pace, noi troviamo inquietudine, noi troviamo incertezza, noi troviamo dubbi. Lo sbaglio consiste nell’avere messo come punto fisso di riferimento a cui rapportare ogni dato, ogni cosa, ogni parola, ogni pensiero. Ne consegue che le soluzioni sono sbagliate, quindi noi non troviamo la pace. Questo è quello che ogni uomo verifica. Noi tutti verifichiamo questa tristezza di vita in cui non troviamo un luogo di pace. Quello che è difficile a noi è fare la diagnosi di questa malattia. Cioè è difficile identificare il punto fisso di riferimento sbagliato che noi mettiamo nella nostra vita. Certamente avendo come punto fisso di riferimento il pensiero del nostro io, noi riteniamo realtà, dato oggettivo, tutto quello che si riferisce al nostro io, ci appare realtà ma non è Realtà, sono effetti della Realtà e quindi tutti i nostri giudizi restano sbagliati. Questo è il campo di soggettività, in cui noi veniamo a trovarci, un cerchio chiuso da cui noi da soli, assolutamente non ne possiamo uscire. E poi c’è il rapporto giusto, il rapporto giusto è quando noi mettiamo come termine, come principio, come termine fisso di riferimento quello che veramente è, il termine fisso di riferimento è il Creatore. Dio è il vero principio “In principio era il Verbo”. Questo è il dato, il “Principio”. Ci viene detto affinché ognuno di noi lo metta come principio, e non abbia quindi a stabilire dei rapporti sbagliati e non abbia a venirsi a trovare in situazione di impossibilità di entrare nella pace. Se noi mettiamo come principio, quindi come termine fisso di riferimento, quello che è il vero Principio, cioè Dio, allora le soluzioni vengono giuste, allora noi entriamo nella pace di Dio. E la pace di Dio vuol dire certezza, vuol dire riposo, vuol dire luce, vuol dire conoscenza. E questa è la festa. Ora, questo principio, questo punto fisso di riferimento è in noi, perché Dio abita in noi. Dio creando l’uomo ha fatto dell’uomo il suo santuario, il suo tempio, la sua abitazione, la sua casa ma l’ha fatta senza di noi, per cui Dio è presente in noi, Dio è in noi senza di noi e forma la nostra stessa coscienza. Noi non ci rendiamo conto ma il nostro sapere di essere è sapere l’Essere, è la presenza dell’Essere in noi. Dio si è dato a noi senza di noi, però non si fa conoscere senza di noi. Farsi conoscere per noi è entrare nella pace di Dio ma in questa pace noi non entriamo senza di noi, perché la pace è effetto di un rapporto giusto. Non basta quindi avere Dio presente in noi, bisogna rapportare a Dio, tutto quello che Dio ci presenta, le sue parole, i fatti, le opere, il pensiero stesso del nostro io. Il pensiero stesso del nostro io, rapportato a Dio come Principio, come termine fisso di riferimento, è una cosa buona e c’illumina, ci porta nella pace. Se invece il pensiero del nostro io viene posto come principio a cui rapportare tutto diventa principio d’inquietudine, di tenebre e d’incertezza. Il pensiero di Dio è in noi, lo portiamo in noi. Ogni uomo lo porta in sé ma la grande difficoltà è giungere alla scoperta oggettiva di questa presenza del pensiero oggettivo di Dio in noi. Abbiamo visto l’impotenza dell’uomo a giungere nel luogo in cui si trova il Figlio, il luogo cioè in cui il pensiero di Dio ha l’essere, esiste indipendentemente da noi. L’uomo è impotente da solo a giungere in questo luogo: “Dove Io sono, voi non potete venire”, cioè dove Lui ha l’essere. Noi entriamo in questo luogo soltanto ascoltando la parola di Dio, è la parola di Dio che ci conduce a trovare questa presenza oggettiva di Dio, cioè indipendente da noi, cioè non riferita a noi. Campo soggettivo è tutto ciò che si riferisce al nostro io come punto fisso di riferimento, per cui quando diciamo: “Questa cosa è così perché io la vedo così”, noi facciamo riferimento a un principio (il nostro io) che non è un principio e allora noi stabiliamo un campo di soggettività, di dubbio, d’incertezza da cui da soli non ne possiamo assolutamente uscire. Soltanto se noi abbiamo la grazia, la possibilità di scoprire il vero principio e cominciare a guardare da questo punto di vista, dal punto di vista di Dio, noi cominciamo a stabilire questo campo di oggettività, in cui troviamo la nostra pace, in cui entriamo nella festa. Ma abbiamo detto che c’è una festa che sta passando...se festa è avere la possibilità di stabilire questo rapporto con il vero Principio e se per potere stabilire questo rapporto con il principio è necessario giungere a individuare, a scoprire la presenza oggettiva del pensiero di Dio in noi, questo ci fa capire che soltanto con la presenza fisica del Cristo che parla con noi, con la sua parola noi, potendo giungere alla scoperta della presenza oggettiva del pensiero di Dio in noi, abbiamo la possibilità che è grazia, di stabilire dei rapporti giusti e quindi di entrare nella nostra pace, cioè nella pace di Dio. Ho detto “possibilità”, perché non è detto che avendo scoperto la presenza del pensiero oggettivo di Dio in noi, si sia già entrati nella pace. La pace viene nella misura e per quello che noi rapportiamo a questo dato oggettivo, a questo principio ed è tutto un lavoro interiore, perché questo principio è dentro di noi, quindi è tutto un lavoro di raccolta, di subordinazione di ogni cosa a questo dato oggettivo in cui noi abbiamo la possibilità di raccogliere tutto e raccogliendo possiamo trovare la nostra pace. Ora, se la possibilità di entrare in questa festa ci viene data dalla presenza del Cristo che parla a noi, ecco che abbiamo un nuovo concetto di festa: il concetto di essere con-. Cioè c’è una festa che è data dalla presenza di Cristo nel nostro mondo e fintanto che è nel nostro mondo. Una festa che passa, perché Gesù stesso dice: “Non sempre avrete Me”. “Fintanto che Io sono nel mondo, sono luce del mondo”, fintanto! Quindi Lui entrando nel nostro mondo inaugura una festa, poiché inaugura un “essere con-“, soltanto se il Verbo di Dio entra nel nostro cerchio di soggettività in cui noi ci siamo chiusi, dà a noi la possibilità di spezzare questo cerchio e di uscire e di recuperare un dato oggettivo, di recuperare cioè il Principio che è poi il principio della nostra pace e della nostra salvezza. Però questa presenza del Cristo tra noi è transitoria e la transitorietà da cosa è determinata? La parola di Dio, cioè la presenza del Cristo tra i Giudei e la sua parola, siano state frustrate. Mentre Gesù diceva: “Mi cercherete e non mi troverete...” Lui era il Verbo di Dio con loro che parlava a loro. E quindi era una festa, essere con- è la festa, il paradiso terrestre era essere con-, l’impossibilità di essere con un altro, cioè essere soli, non è più festa: l’uomo che non riesce a uscire dal pensiero di se stesso, l’uomo che parla sempre con sé, anche quando parla con altri, è un essere che non può godere della pace, che non può godere della festa. La festa è data dall’essere con un altro. Se l’Altro viene a noi, in quanto è con noi, anche se è transitoriamente con noi, inaugura un giorno di festa. Però questa festa sta passando, l’occasione temporanea offerta da questa presenza transitoria è determinata dal Cristo che parla a noi e dalla risposta che noi diamo. Cioè il tempo di questa festa è determinato dallo spazio che passa tra la parola di Dio che arriva a noi e la ricerca da parte nostra del pensiero di Dio in essa o il rivestimento della parola stessa di Dio del pensiero del nostro io. Come noi rivestiamo la parola di Dio della nostra realtà che ha come punto fisso di riferimento il pensiero del nostro io, noi usciamo dalla festa, la festa è terminata. Qui questi giudei, hanno perso l’occasione del “Cristo con loro”. Perché Cristo mentre diceva loro: “Mi cercherete e non mi troverete, dove Io sono, voi non potete venire” offriva loro l’occasione della scoperta oggettiva del pensiero di Dio in loro. Poiché il parlare del Cristo è un parlare di salvezza, non è un parlare di giudizio o di condanna, mentre apparentemente sembra escluderli, realmente Lui apre una strada. Però questa strada è necessario percorrerla e per percorrerla è necessario intendere le parole del Cristo che giungono a noi nel pensiero di Dio e non nel pensiero del nostro io. Se noi intendiamo le parole di Cristo nel punto fisso di riferimento del pensiero del nostro io, noi proiettiamo sulle parole del Cristo il nostro campo di soggettività e quindi usciamo dalla festa. Perdiamo cioè l’occasione della salvezza offertaci dal Cristo stesso. Abbiamo visto in questi giorni un brano di Ezechiele che è molto interessante. Nel capitolo 37 versetto 28 di Ezechiele: “Le genti sapranno che io sono il Signore che santifico Israele quando il mio santuario sarà in mezzo a loro per sempre”. “Il mio santuario” è il suo pensiero, Dio abita nel suo pensiero. Santificare vuol dire fare entrare nel giorno del riposo, della festa. “Per sempre” cioè oggettivamente, non dipendente da loro. Soltanto quando l’uomo sa, trova, per grazia della parola del Cristo che giunge a lui, trova questa presenza oggettiva del pensiero di Dio in sé, ha la possibilità di sapere che “Io sono il Signore”, per sempre, quindi indipendente dall’uomo. 

 
 
 

La ricerca della felicitą.

Post n°36 pubblicato il 07 Aprile 2020 da plumbook

Commento di Luigi Bracco al Vangelo. 16.Settembre.1979

 
 
 

I falsi profeti.

Post n°35 pubblicato il 06 Aprile 2020 da plumbook

Le Parole di Dio quando non sono chiare, devono essere sempre commentate con altre Parole di Dio. Per capire il significato di questa porta e sopratutto per capire il criterio per riconoscere coloro che possono venire e sedurre la nostra anima, noi andiamo a cercare un'altra parola del Signore, quando Lui dice: "Guardatevi dai falsi profeti". E qui ci dà un altro criterio. Perché quando ci dà un ammonimento, ci deve dare un criterio per poter capire, in modo da poter distinguere, riconoscere. Il criterio dice: "Li riconoscerete dai loro frutti". Qui ci dice che li riconosceremo per il fatto che non passano per la porta delle pecore, ma il discorso qui (pur essendo una parabola è oscuro), là ci dice che i falsi profeti li riconosceremo dai loro frutti. Anche qui il termine frutto dovrebbe essere chiaro per noi se riferito a un albero, ma riferito a un profeta, a un uomo che parla con noi è ambiguo. Generalmente si dice che i frutti sono le opere buone ma poi abbiamo San Paolo che ci dice che se anche uno donasse tutto ai poveri, questo non è sufficiente, se uno si sacrificasse o rinunciasse al suo corpo, questo non è sufficiente, perché può essere ambizione o orgoglio. Cosa dobbiamo intendere per questi "frutti"? Anche qui abbiamo la Parola di Dio, perché se noi siamo attenti, la Parola di Dio non ci lascia mai a metà strada. E quando Gesù parla del frutto, lo presenta come la conclusione del seme. Il seme che porta frutto. Qui abbiamo già un'apertura, perché: "Terreno buono è quello che giunge al frutto". E quando dice:"Quello che giunge al frutto", ci dice:"Sono coloro che pongono mente al seme", ma il "seme", ce lo dice ancora Lui, è la Parola di Dio. Allora, ponendo mente alla Parola di Dio si giunge al frutto. Si giunge alla conoscenza. Qual è il frutto della Parola di Dio? Dio parla per farsi conoscere. Il frutto della Parola di Dio è la conoscenza di Dio. Questo è il fine per cui Dio ha creato e crea tutte le cose. Noi abbiamo avuto l'esistenza per conoscere Dio. Ed è Gesù, ancora la Parola di Dio che ce lo dice:"La vita eterna sta nel conoscere Te Padre". Dio ci ha creati per la vita eterna. La vita eterna sta nel conoscere Dio. Qui abbiamo il compimento. Qui abbiamo il fine. Qui abbiamo il frutto. Qui abbiamo la possibilità, adesso di capire. Quando dice: "Li riconoscerete dai frutti" significa che li riconoscerete dal fine che vi propongono. Quindi i falsi profeti li riconoscerete dal fine che vi propongono. Ogni parola è sempre una proposta. Quindi tutti coloro che arrivano a noi, arrivano a noi dicendoci sempre qualche parola, facendoci qualche proposta. Però il più delle volte queste proposte sono nascoste e noi possiamo restare ingannati. Dice: "Guardatevi da coloro che vengono a voi con il vestito di pecora e poi sotto sono dei lupi". Noi possiamo essere ingannati, perché fintanto che siamo in cammino, noi non abbiamo in noi la luce sufficiente per riconoscere lo spirito delle cose e il più delle volte ci fermiamo all'apparenza. L'apparenza è la pecora e quando ci accorgiamo del lupo è troppo tardi. Il Signore ci dice che li riconosceremo da quello che ci propongono. Il fine è conoscere Dio, se qualcuno vi propone un fine diverso, qui abbiamo un falso profeta: state attenti. È Parola di Dio.

Commento di Luigi Bracco al Vangelo di San Giovanni.4.Giugno.1989

 
 
 

Il pensiero dell'io.

Post n°34 pubblicato il 06 Aprile 2020 da plumbook

La caratteristica dell'uomo per cui dopo subisce le crisi d'identità sta in questo: l'uomo non sopporta che le cose cambino o che le persone che amiamo mutino, perché è fatto per l'immutabile, nonostante che lui subisca tutte le conseguenze di questo mutare delle cose, ne soffre, ne patisce, eppure lui rimane sempre se stesso, cioè rimane sempre un io, una persona. Il che vuol dire che non è l'oggetto del suo pensiero che fa essere l'uomo, chi fa essere l'uomo è Dio. L'uomo è creatura di Dio. Quindi l'uomo ha la consapevolezza del suo io, di essere persona che resta come io, nonostante tutti i mutamenti che lui subisce, tutte le crisi che subisce. Per cui noi possiamo subire tutte le crisi di questo mondo, possiamo anche morire ma restiamo un io, restiamo un io non per volontà nostra ma, per volontà di Colui che ci ha fatti essere, per volontà del Creatore, per volontà di Dio. Quindi il nostro io è costituito dalla presenza di Dio, da questo "Tu" immutabile in noi eterno ed è questo che ci fa essere, ci fa essere come io, come persona, però Dio abita in noi e costituisce qui il nostro io, per cui il nostro io è fatto in coppia, fatto dalla presenza di Dio e dal nostro pensiero che pensa Lui. Dio abita in noi, non è detto che noi abitiamo in Dio. Tutte le crisi sono date da questo fatto: Dio abita in noi, non è detto che noi abitiamo in Dio. Noi abitiamo là, dove pensiamo, abitiamo là dove dedichiamo il nostro pensiero. E il nostro pensiero, noi lo determiniamo attraverso le scelte che facciamo ogni giorno, ciò per cui noi viviamo. Ogni giorno noi facciamo delle scelte e ogni giorno quindi determiniamo l'oggetto del nostro pensiero. Se l'oggetto del nostro pensiero non è Colui che ci fa essere, qui si crea (una parola che non vorrei usare) una dicotomia. Cioè si crea una rottura, si introduce un altro fattore che ci fa essere. Perché quello che ci fa essere è quello che noi eleggiamo con il nostro pensiero, dedicando nostro pensiero a-, siamo determinati da quello, però quello che ci fa essere è Dio. Se l'oggetto del nostro pensiero non è Dio, qui creiamo una frattura tra ciò che noi siamo per effetto di ciò che noi abbiamo eletto nel nostro pensiero e ciò che veramente ci fa essere cioè Dio. Tutte le crisi nascono da questa frattura che si forma in noi. L'unico modo è quello di far coincidere l'oggetto del nostro pensiero, l'oggetto della nostra vita, con il Principio della nostra vita oggettivo, cioè indipendente da noi, farlo coincidere con Dio. Il nostro principio è Dio che ci fa essere indipendentemente da noi, ciò per cui noi viviamo personalmente, quindi soggettivamente, deve coincidere con il nostro Principio oggettivo in noi, indipendente da noi. Solo da questa armonia, da questa coincidenza noi viviamo e quindi abbiamo come genitore il nostro vero padre Dio e abbiamo qui la possibilità allora di evitare tutte le crisi d'identità, le crisi esistenziale che si formano nella nostra vita quando noi abbiamo come genitore altro da Dio.

(LUIGI BRACCO)

 
 
 

La fonte dell'identitą.

Assoluto vuol dire che non dipende da niente. Solo ciò che non dipende da niente non è soggetto a mutamento. Noi non potremmo pensare all'assoluto (sciolto da qualsiasi condizionamento) se questo non fosse presente nel nostro pensiero. Se è presente nel nostro pensiero, noi possiamo pensarlo questo Assoluto. Noi possiamo pensare Dio. Possiamo pensarlo, non siamo costretti a pensare Dio, perché noi col nostro pensiero possiamo rivolgerci al mondo esterno, è vero che il mondo esterno ci riconduce sempre alla necessità di pensare, però noi possiamo distogliere il nostro pensiero dalla ricerca dell'assoluto e rivolgerlo al mondo esterno. Come invece possiamo pensare Dio, l'immutabile, l'assoluto. Se l'uomo entra in crisi in quanto ha presente qualche cosa che muta, già questo fatto ci fa capire che l'identità dell'uomo non dipende da ciò che l'uomo è ma, dipende da ciò che l'uomo ha presente. L'uomo non è un io assoluto, immutabile. Se fosse immutabile non entrerebbe in crisi, se entra in crisi vuol dire che muta e non è una realtà assoluta (la realtà assoluta è Dio) e se entra in crisi in quanto muta ciò che lui ha presente, evidentemente già questo ci fa capire che solo se l'uomo ha presente ciò che non muta nel modo più assoluto, l'uomo può evitare la crisi. Ma l'uomo può evitare il mutare delle cose? Può evitare il passare del tempo? Fintanto che è proiettato nel mondo esterno, sicuramente non può evitare. Però in lui si forma il problema della necessità per evitare la crisi, di evitare quello che muta. In quanto c'è un problema, in quanto l'uomo sente il problema ha la soluzione, se non avesse l'soluzione del problema non sentirebbe il problema. L'animale non ha problema di Dio, non ha il problema dell'assoluto, non ha il problema della sua identità. L'animale non entra in crisi per la sua identità. L'uomo entra in crisi d'identità crisi, di vita, ed è una crisi esistenziale, crisi perché gli è mutato il punto fisso di riferimento. Questo è un problema dell'uomo e in quanto l'uomo sente il problema ha la soluzione. Se ha la soluzione vuol dire che può sfuggire a tutto ciò che muta. Come può sfuggire? Trovando ciò che non muta. Questo ci rivela che l'uomo ha la possibilità, altrimenti non sentirebbe il problema, di giungere ad avere presente ciò che non muta e soltanto giungendo a questa Presenza, trova la fonte della sua identità. Un'identità che non è più soggetta a crisi, perché non è più soggetto a mutamento di ciò che lui ha presente.

Commento di Luigi Bracco 10.Maggio.1987

 
 
 

Interrogare per capire.

Prima di tutto dobbiamo chiederci perché l'uomo interroga. Se interroga è perché è spinto ad interrogare ma, cosa è che spinge l'uomo a porre interrogazioni? Perché l'uomo chiede perché? L'uomo interroga per capire ma, intanto se interroga è perché sente il bisogno di capire. E che cosa vuole capire? Capire vuole dire giustificare. Giustificare una cosa nell'altra, quindi vuole dire stabilire dei rapporti. L'uomo sente il bisogno di stabilire dei rapporti. Di fronte a due cose, l'uomo non è soddisfatto. Ha bisogno di stabilire un rapporto tra una cosa e l'altra. Quando noi diciamo che l'uomo sente il bisogno di stabilire un rapporto, è perché sente il bisogno di unificare, di dire che cosa è una cosa rispetto all'altra. Tiene fermo un termine e vuole misurare l'altra cosa su quel termine lì. Basta dire questo per capire che l'uomo è sospinto dal bisogno di unificazione. Quello che attrae l'uomo, quello che gli fa sentire il bisogno di capire, quello che gli fa sentire il bisogno di interrogare è il bisogno di unità. Abbiamo già visto altre volte che questo bisogno di unità è una espressione della sete di Assoluto che l'uomo porta in sé. La sete di Assoluto dell'uomo è una testimonianza: "Voi stessi dite che io sono". La sete di Assoluto è una testimonianza che l'uomo porta in sé l'Assoluto e questo Assoluto è uno. L'uomo non cercherebbe l'Assoluto se non portasse già in sé l'Assoluto. Proprio perché l'uomo porta in sé l'Assoluto e questo Assoluto è uno, l'uomo sente il bisogno di unificare tutto in questo uno. Sente il bisogno di rapportare tutto a questo uno. Ed è proprio per questo bisogno di rapportare tutto a questo uno, che l'uomo ha bisogno di capire. Per cui di fronte alle cose che gli si presentano, l'uomo non si accontenta della realtà delle cose ma, va a cercare la giustificazione, il perché. Qui questi discepoli stanno cercando la causa della cecità di quest'uomo nato cieco. Abbiamo già osservato nelle domeniche precedenti che quando l'uomo cerca la causa fa della scienza. Tutte le scienze sono fondate sul rapporto causa-effetto e implicitamente trascurano il fine. L'uomo fa della scienza (conoscenza delle cause), perché riferisce tutte le cose al pensiero di se stesso. L'uomo nel pensiero del suo io, esperimenta cause ed effetti. Ma nel pensiero del suo io, l'uomo non esperimenta la finalità. La finalità è l'espressione dell'intenzione di un essere che opera e solo se si ha presente l'essere che opera, si va alla ricerca del fine per cui opera. Direi che il fine è più importante dell'opera stessa, perché è il fine che dà significato alle cose e anche alle parole. Infatti se vogliamo intendere il parlare di qualcuno o l'operare di qualcuno, dobbiamo sempre andare alla ricerca dell'intenzione che ha quest'uno, del fine che guida quest'uomo a parlare in questo modo o a operare in quest'altro modo. La ricerca del fine presuppone sempre la presenza di un essere operante. Per questo dico che questi discepoli che, stavano interrogando sul peccato, sulla colpa per cui questo uomo era cieco, davanti ai loro occhi non avevano presente Dio. Ci sono due perché nella vita dell'uomo. C'è il perché attraverso il quale l'uomo cerca la causa di una cosa che non può sopportare di per sé. La cecità è un difetto, è una negatività. Con la cecità, noi abbiamo tutte le negatività che esperimentiamo nel nostro mondo. Anche la morte è una negatività. Ora, le negatività, non sono sopportabili da sole. Noi non le sopportiamo perché abbiamo presente la Positività. La positività, abbiamo visto prima, è data dal Dio che opera tutte le cose. Noi non sopportiamo le cose finite. Noi non sopportiamo la molteplicità. Noi non sopportiamo la privazione...........

Commento di Luigi Bracco al Vangelo di San Giovanni. 21.12.1986

 
 
 

La realtą del pensiero.

Post n°31 pubblicato il 06 Aprile 2020 da plumbook

Commento di Luigi Bracco al Vangelo di San Giovanni 27.4.1987

 
 
 

L'infinito nel pensiero dell'uomo.

Post n°30 pubblicato il 05 Aprile 2020 da plumbook

Commento di Luigi Bracco al Vangelo di San Giovanni. 27.4.1987

 
 
 

Il luogo di Cristo.

Post n°29 pubblicato il 05 Aprile 2020 da plumbook

La creatura intelligente è quella che sa riconoscere il luogo in cui si trova una cosa. La creatura non intelligente è quella che non riflette sul luogo in cui si trova una cosa allora la cerca dappertutto, la creatura non intelligente cerca la cosa dappertutto e naturalmente spreca tutta la sua vita in niente. Infatti abbiamo detto che tutti gli uomini sono dei cercatori di Dio, cercano tutti l'Assoluto, però lo cercano in luoghi sbagliati e allora sprecano la loro vita, alla fine della vita dicono: "Non ho trovato niente"....e già! Sei salito tutti i giorni su un albero di mele per cercare dei fichi, hai sprecato tutta la vita, non hai mai trovato un fico.Ma dovevi saperlo, dovevi saperlo. Quando Maria e Giuseppe lo cercano per tre giorni: "Perché ci hai fatto questo?", Lui li rimprovera: "Dovevate saperlo, non lo sapevate?" Quando dice: "Non lo sapevate?" fa un rimprovero, vuol dire che dovevano saperlo: "Io mi debbo trovare nelle cose del Padre". Quindi se tu stai cercando Cristo tu lo devi sapere dove, altrimenti sei scemo, mi spiego? Lui si trova nelle cose del Padre. E allora se qualcuno ti parla non del Padre ma ti parla di altro, stai tranquillo che lì, non trovi il Cristo, non perdere del tempo perché Lui si trova nelle cose del Padre. Quindi Lui me lo ha detto chiaro. Ha rimproverato sua madre sia chiaro! Abbiamo visto che figura è Maria eppure dice:"Dovevate saperlo". Quindi è una lezione per tutti noi. Per cui Lui ci dirà: "Non lo sapevi?" "Signore lo sapevo"..."E allora perché hai cercato altrove? In un luogo sbagliato?" Dio ci presenta tutta la sua creazione ma ci presenta anche Se Stesso, per cui ogni cosa ha una sua individualità, ogni cosa ha un suo valore, ogni cosa ha un suo luogo e queste tre cose qui noi non possiamo ignorarle, perché sono segni di Dio, ogni cosa individuale, si distingue dall'altra, Ogni uomo si distingue dall'altro. Ogni cosa ha un suo luogo, per cui tu sbagli se sbagli luogo, e ha un suo valore per cui se tu ti dedichi alla creatura anziché al Creatore tu fai un peccato, ti assumi una colpa, perché preferisci quello che vale meno a quello che vale di più e cosa è che ti fa invertire questi giudizi, giudizi di valore, vuol dire che il valore si rende presente. Quindi ogni cosa, ogni segno, ogni esistente quindi anche Dio stesso già in quanto si presenta a noi, si presenta con una sua individualità ben precisa, con un suo valore e con il luogo. Sbagliare uno dei tre, confondere uno dei tre è già assumersi una responsabilità di colpa.

Commento di Luigi Bracco al Vangelo di San Giovanni. 7.6.1987

 
 
 

Il luogo della Veritą.

E qui sta l'intelligenza, l'intelligenza sta nel capire dove si trova una cosa. Colui che è stolto cerca in tutti i luoghi. Colui che è intelligente non cerca in tutti i luoghi, ma individua il luogo in cui deve cercare, qui si rivela l'intelligenza, nel capire dove si deve cercare. Lo stolto cerca la stella alpina in un campo di grano o magari in piazza. La persona intelligente prima di cercare si interessa per capire dove si possono trovare le stelle alpine. Quindi non va a cercare a vanvera ma cerca polarizzando la sua attenzione su-. Abbiamo detto che la conoscenza del luogo è intermediazione tra ciò che vediamo e ciò che ancora non vediamo. Tutto l'universo è fatto di luoghi. Così noi abbiamo luoghi di cose, abbiamo il luogo degli esseri viventi e abbiamo i luoghi degli uomini e abbiamo il luogo del Figlio di Dio, abbiamo il luogo della verità, abbiamo il luogo di Dio. Tutta l'opera di Dio è fatta di luoghi. L'unico essere che non ha un luogo è il demonio, il demonio è senza luogo, il demonio è il nostro io, io nostro io autonomo. Il nostro io autonomo è senza luogo, per cui è costretto a vagare, a vagare di luogo in luogo senza quiete, perché non ha luogo. Il luogo di un essere vivente è là dove trova la vita. Conoscendo la vita, conosco il luogo: ogni vivente ha bisogno di comunione, vive di comunione, conoscendo la vita di un essere vivente possiamo individuare dove possiamo trovarlo: da dove lui trae la vita. Al principio la vita degli uomini era la luce. Quindi al principio potevamo sapere dove si trovavano gli uomini: gli uomini si trovano nel campo della luce. Ma quello che determina il luogo degli uomini è l'interesse e a seconda dell'interesse che l'uomo ha, viene a trovarsi in certi luoghi piuttosto che in altri. Potevamo sapere dove si trovano gli uomini, gli uomini si trovano nel campo della luce. Ma abbiamo detto che quello che determina il luogo degli uomini è l'interesse e a seconda dell'interesse che l'uomo ha viene a trovarsi in certi luoghi piuttosto che in altri. Quindi il sapere, il conoscere, il vedere dove un uomo si trova è anche denuncia, rivelazione del suo interesse principale. Anche il pensiero è un luogo. Abbiamo visto le volte scorse che il pensiero elegge il proprio genitore, la sorgente della propria vita, quindi luogo del pensiero è ciò cui uno si dedica. Luogo del Figlio di Dio è il Padre. Luogo di Dio è Dio stesso. E questo già ci fa capire che soltanto cercando in Dio possiamo trovare Dio. Ma come possiamo giungere ad individuare il luogo ed evitare di passare tutta la vita cercando in luoghi diversi, il luoghi in cui non c'è ciò che cerchiamo? Se noi riflettiamo sulla verità, anche la verità ha un suo luogo. Abbiamo detto molte volte che la verità non è dipendente né dal tempo, né dallo spazio, una cosa è vera non perché è stata detta in un certo tempo e non sia più vera fuori di quel tempo lì. Una cosa è vera non perché è stata detta in un certo luogo e in un altro luogo non sia più vera. Basta questo per capire che la verità trascende le dimensioni del tempo e le dimensioni di ogni luogo, cioè non appartiene né al tempo, né allo spazio. La verità non può trovarsi in quei luoghi che sono condizionati dal tempo e dal luogo. Quindi la verità non possiamo trovarla nel mondo esterno, il che vuol dire che fintanto che noi cerchiamo la verità nelle cose esteriori, nel nostro mondo esterno, certamente noi ci condanniamo al fallimento. La verità trascende. Non appartiene né al tempo, né al luogo e in quanto non appartiene, non dipende, quindi non si può trovare in questi luoghi. Ora cosa succede qui, che riflettendo sulla verità noi già individuiamo il luogo in cui si deve cercare la verità. E allora possiamo capire come determinare il luogo in cui si può trovare una cosa, cioè, soltanto la conoscenza della cosa che cerchiamo dà a noi la possibilità di individuare il luogo in cui dobbiamo cercarla. Quindi il grande problema è questo: se la conoscenza della cosa che cerchiamo ci conduce a individuare il luogo in cui possiamo trovarla, evidentemente se dobbiamo conoscerla prima l'abbiamo già trovata.

Commento di Luigi Bracco al Vangelo di San Giovanni. 7.6,1987

 
 
 

La grande tristezza di Cristo.

Post n°27 pubblicato il 05 Aprile 2020 da plumbook

In questa situazione qui, di passione, di senso di morte... troviamo che a Betania gli fanno una cena. Festa, fanno cena e fanno festa. Apparentemente sembra una festa. Profondamente è una grande tristezza perché rivela a Gesù, quel che Gesù già sa. Che gli uomini gli battono le mani. Gli uomini gli fanno pranzo, fanno festa. E lo mandano a morte. Lo vedremo poi domenica prossima con la grande rivelazione di Maria di Magdala. Li si rivelerà. Perché lì di fronte a quel profumo sprecato dietro a Gesù, Gesù avrà tutto il suo pensiero di morte. "L'ha fatto per la mia sepoltura". Ecco, dico il senso di morte che Gesù portava. E il senso d’incomprensione da parte dell'uomo. Da parte degli uomini. Erano amici quelli di Betania, Gesù li amava. Ma proprio in casa di coloro che amava, riceveva questa testimonianza. A Lui che va a morte. È come un agnello che sia portato a morte e gli si faccia festa, che lo si adorni di fiori per portarlo al macello. Ecco, c'è questa insensibilità profonda nel cuore dell'uomo. Questa durezza. Questa incapacità di penetrare in quello che c'è dentro l'uomo. Cristo era uomo. Quello che c'era dentro l'uomo. Dentro quest’uomo c'era questo senso di morte. Lo sapeva perfettamente. Eravamo a sei giorni dalla Pasqua. E tutto ci convoca qui. A sei giorni dalla sua passione e morte. E che tipo di passione e morte! Lo sapeva perfettamente. L'aveva già detto parecchio tempo prima. Ai suoi apostoli. Quante volte l’ha ripetuto. Che Gesù il Figlio dell'uomo doveva essere dato nelle mani degli uomini. Che gli faranno tutto quello che vorranno. E lui sapeva cosa voleva significare questo "Faranno tutto quello che vorranno di Lui". L'uomo che portava questa consapevolezza qui, di questa morte. Di questa terribile passione... Quest'uomo si vede far festa. Vuol dire che gli uomini non capivano niente. Non capivano niente perché non capiscono niente. Questo per rivelarci che noi molte volte crediamo di far festa al Signore, di rallegrarlo, che lui sia contento di noi, e molto probabilmente tutte le nostre feste per Lui sono motivo di tristezza, motivo di pianto. Perché? L'uomo va in cerca di comprensione. E Gesù, Figlio di Dio, incarnandosi è uomo. E come uomo va in cerca di comprensione. (LUIGI BRACCO)

 
 
 

Il tutto e i frammenti

Post n°26 pubblicato il 05 Aprile 2020 da plumbook

L'uomo è caratterizzato dal fine. L'uomo finisce o di aver come fine Dio o di aver come fine le creature, Se l'uomo ha come fine i frammenti del mondo, allora tende a possedere le creature, del terreno, delle case, uno stato, ma è sempre possedere qualche cosa. Tutte queste cose, sono tutte cose buone ma, sono segni di Dio, sono frammenti di Dio. L'uomo non deve finalizzare la sua vita a questo, queste cose devono condurmi a cercare Dio. C'è una breve novella che ho letto qualche tempo fa. C'è il demonio che sta passeggiando con un uomo. A un certo momento vedono una persona davanti a loro che si china a raccogliere qualche cosa. Il demonio dice all'uomo: "Ha raccolto un frammento di verità". "E non sei arrabbiato?" dice l'uomo al demonio? "No sono molto contento" risponde il demonio "Adesso lui con quel frammento di verità si costruirà una scienza e dimenticherà Dio". Noi facciamo così noi nel mondo esperimentiamo dei frammenti di verità: "Questo è buono,questo mi serve" e vivo per quello, costruisco la mia scienza e dimentico Dio. Vedi il problema del fine, Dio è il fine, non costruire la tua vita, la tua scienza, il tuo mondo sui frammenti di Dio, perché vivendo per quelli tu dimentichi Dio. Noi abbiamo la passione dell'Assoluto e tutto ciò che tocchiamo, tendiamo a trasformarlo in Assoluto e viviamo tutto lì attorno e intanto dimentichiamo Dio. Invece dobbiamo sapere che tutte le cose arrivano a noi per farci alzare gli occhi a Dio, per cercare Dio. Il nostro fine deve essere Dio, non il mondo, non le creature, quelle sono solo voci, voci di Dio che ci conducono a Lui, a conoscere Lui ma, Lui si conosce soltanto nel suo pensiero: "Nessuno viene al Padre se non per mezzo di Me" dice il Figlio, cioè il suo pensiero. Il suo pensiero Lui ce lo ha dato, perché è un infinito, è il punto di contatto tra tutto l'universo. L'universo si sintetizza nell'uomo. Nell'uomo c'è il punto di contatto tra l'universo che è finito e l'infinito di Dio e questo punto di contatto dà la presenza del Pensiero di Dio in noi che è dato a noi senza di noi. Tutto quello che è dato a noi senza di noi, noi non lo possiamo capire, ne subiamo le conseguenze, (passione d'Assoluto) ma non lo possiamo capire. Quello è il passaggio obbligato per arrivare alla sorgente, nella sorgente, dopo attingeremo la luce per questo Figlio che è dato a noi. Anche la stessa cecità mentre fa capire a noi il nostro destino, ci fa anche capire il luogo in cui è la luce, il luogo in cui è la luce è dentro di noi, nel Pensiero stesso di Dio che portiamo in noi. Perché se io chiamo luce tutte le cose che sono fuori, tutte quelle cose che sono fuori diventano esperienza mia, quindi scienza, quindi opposizione a Dio. Invece la mia cecità mi conduce a capire, a scoprire, che la sorgente della luce è dentro di me, nel mio stesso pensiero. Il mio pensiero è la possibilità di pensare Dio, con il Pensiero di Dio ed è lì che trovo la luce. Però questa luce siccome discende dal Padre, non discende senza la partecipazione nostra, quindi senza la dedizione nostra a questo.

Commento di Luigi Bracco al Vangelo di San Giovanni 4.12.1986

 
 
 

La cecitą.

Post n°25 pubblicato il 05 Aprile 2020 da plumbook

Ma noi dobbiamo chiederci cosa rappresenta questa cecità, quale è il significato di questa cecità e sopratutto qual è la natura di questa cecità e perché l'uomo sa di essere cieco. Quando abbiamo parlato dell'assenza, abbiamo detto che l'uomo esperimenta l'assenza di una cosa in quanto l'ha presente, se l'uomo non avesse presente qualche cosa non potrebbe esperimentare l'assenza di quel qualche cosa e così anche per la cecità. L'uomo è cieco perché è portatore della luce. E proprio la presenza in lui di Dio, fa toccare all'uomo la cecità perché fintanto che l'uomo non vede le cose nella luce di Dio, tutto ciò che vede per lui è notte, è tenebra, è esperienza di tenebra. Allora diciamo che la cecità è data dalla presenza di Dio nell'uomo che è la vera luce e dalla presenza di segni di Dio, di opere di Dio, della creazione di Dio, non vista nella sua sorgente, non vista nella luce di Dio. Diciamo che la cecità nell'uomo è la conseguenza della presenza di due luci nell'uomo, la luce di Dio e la luce delle creature. E fintanto che le creature non sono viste nella luce di Dio, l'uomo fa esperienza della sua cecità. Ora abbiamo visto che l'uomo è essenzialmente determinato dal fine per cui vive. E non può far a meno vivendo di fare delle scelte e quindi di eleggere dei fini, di vivere per qualche cosa. Vivere vuol dire tendere a qualche cosa. Ora questa scelta non può avvenire senza l'uomo perché è l'uomo che fa. Il conflitto in cui è venuto a trovarsi l'uomo con la parola stessa di Dio è stato opera dell'uomo. L'esperienza dell'assenza di Dio è stata opera dell'uomo, perché l'uomo ha opposto un suo dato, una sua conoscenza alle parole stesse di Dio, quindi qui c'è l'esperienza dell'assenza, perché Dio è sempre presente. Abbiamo detto che la verità di Dio è trascendente, quindi non è quello che oppone l'uomo a Dio che possa annullare Dio, Dio non è annullabile dall'uomo, la verità di Dio nessun uomo con tutto il suo parlare, con tutte le sue opposizioni, con tutte le sue scienze, con tutte le sue pietre, la può annullare: Dio rimane, Dio rimane con la sua presenza, Dio rimane come Principio di Luce, perché Dio è il Creatore ed è trascendente tutto ciò che l'uomo dice, tutto ciò che l'uomo fa, tutto ciò che può opporre l'uomo.Ora è proprio per questa presenza che l'uomo esperimenta il vuoto e l'assenza, è proprio per questa presenza che l'uomo esperimenta la cecità finché che non vede le cose nella luce di Dio che è la luce del principio, che è la sorgente della luce. Ora siccome però l'uomo è determinato dal suo fine, questo ci fa capire che l'uomo esperimenta la cecità fintanto che non ha Dio come fine e Dio non può averlo come fine, fintanto che lui stesso non vuole avere Dio come fine. Perché il fine è l'uomo che lo pone. Dio si concede all'uomo come principio, si da all'uomo come principio, Dio manifesta tutta la sua creazione, tutte le sue opere, tutti i suoi annunci che sono tutti i suoi messaggi, tutte le sue parole indipendentemente dall'uomo ma, Dio non illumina l'uomo senza l'uomo. Allora la cecità dell'uomo rivela questo grande significato, che la luce non sorge nell'uomo senza l'uomo. E fintanto che l'uomo non s’impegna personalmente a porre Dio come suo fine, l'uomo continuerà a navigare nelle tenebre e nella notte e a costatare la sua cecità. Questo è il grande significato dell'uomo cieco, ma questo è anche il significato della sua vocazione, la cecità dell'uomo rivela il destino dell'uomo. Abbiamo detto che l'uomo non farebbe esperienza della cecità, non saprebbe di essere cieco se non avesse presente la luce. Ma proprio perché lui fa esperienza di cecità questo gli testimonia e gli rivela il suo destino: l'uomo è fatto per la luce.

Commento di Luigi Bracco al Vangelo di San Giovanni. 14,12,1986

 
 
 

Il valore delle cose.

Post n°24 pubblicato il 05 Aprile 2020 da plumbook

È il passaggio a Dio che è difficile! Ad esempio l’abitudine al fumare, ad un certo momento tu scopri che la sigaretta è dannosa per cui vorresti smettere; eppure non basta questo! Come mai non basta? Per cui uno ha raggiunto una certa carriera, un certo posto, poi ad un certo momento quello diventa inutile, assurdo perché non ha più bisogno di quello avendo raggiunto un certo benessere, un capitale, eppure, forse per il nome, la gloria, ci possono essere tanti motivi che giocano, che pesano sul nostro io, per cui noi non possiamo liberarci dalle cose inutili della nostra vita che constatiamo tali. Non basta constatare l’inutilità, la vanità di una cosa per potercene liberare: noi ne constatiamo la vanità, ma non possiamo liberarcene; per liberarcene bisogna orientare la nostra vita a qualche cosa di superiore, cioè soltanto avendo un bene migliore, possiamo lasciare un bene inferiore, altrimenti non possiamo lasciarlo anche se vediamo la vanità di questo. Quante abitudini noi abbiamo assunto e che non possiamo lasciare, perché non c’è qualcosa d’altro che ci prende! Quando Gesù parla degli operai della vigna, quelli ai quali il padrone rivolge l’invito alle cinque della sera, e dice: “Come mai ve ne state qui tutto il giorno a fare niente?”. Anche nella nostra vita ad un certo punto noi scopriamo che tutto il nostro agitarci, tutto il nostro parlare, tutto il nostro muovere, tutto il nostro far rumore, è un “fare niente”, sostanzialmente, perché si formano in noi degli “altri” bisogni che poi scopriamo, ed è opera di Dio, che sono un “fare niente”. Magari noi credevamo di sacrificarci tanto per il bene degli altri e poi, in conclusione, ci accorgiamo, ed è Dio che ce ne fa accorgere, che abbiamo fatto niente, perché, magari, gli altri non sanno cosa farsene di tutto quello che noi abbiamo fatto per loro! E così in tutti i valori: è il Signore che ci fa toccare con mano il loro decadimento! Però, abbiamo detto, che non basta questo, perché quando il padrone si rivolge a quegli operai dicendo: “Perché state qui tutto il giorno senza fare niente?”, loro rispondono: “Perché nessuno ci ha presi a giornata!”, se noi non siamo presi da qualche cosa di superiore, noi giriamo a vuoto in tutte le nostre faccende inutili, vane anche constatandone la vanità; questo perché bisogna essere presi; se uno non è preso da qualche cosa che vale di più non lascia il meno, non può lasciare il meno. Noi non possiamo stare “senza”: noi siamo fatti per essere con “qualcosa” o con “qualcuno”, anche se questo “qualcosa” o questo “qualcuno” diventa “niente” o diventa “nessuno”, noi non possiamo lasciarlo, se non siamo presi da qualcosa di superiore. Giovanni: In sostanza l’uomo riconosce la sua nullità, però resta schiavo. Luigi: Resta schiavo, e la tristezza dell’uomo è data proprio da quello! Perché fintanto che l’uomo riconosce la validità di ciò che egli fa, anche se è un illuso, ma lo riconosce valido, trova gioia perché riconosce valida la cosa. Anche se gli altri dicono che è uno stupido, e che è niente quello che lui fa ma agli occhi suoi, quella cosa che egli fa è importante e, in quanto vale, trova gioia di vita, c’è ancora del vino: qui non abbiamo la tristezza della vita; la tristezza della vita è quando uno scopre l’inutilità! Allora la vita diventa pesantissima perché uno si accorge che gira a vuoto; però non basta constatare questo, ecco quello che dico! Non basta constatare che il vino viene meno, si resta senza, ma uno non sa come uscirne, bisogna che ci sia un intervento superiore, cioè bisogna che uno sia preso da qualche cosa che valga di più, che lo scopra, che orienti la sua vita lì, allora riuscirà a lasciare: ecco il passaggio. Giovanni: Il vino in senso spirituale è la Parola di Dio? Luigi: No, la Parola di Dio è quella che verrà poi dopo, all’ultimo. Ma ho detto che vino è ciò che dà gioia, è quello che vale, è quello che dà significato alla nostra vita, quello che vale per noi. Questo è il vino: quello che rallegra la nostra vita, un valore. Ad un certo momento diventa parola di Dio, perché vediamo che il vino buono arriva all’ultimo, ma questo vino qui che si esaurisce, rappresentano i valori della nostra vita, è ciò che per noi è importante.In verità ciò che per noi è importante dovrebbe essere Dio, la parola di Dio, però non è vero, perché l’importanza di una cosa è la conseguenza, è la sintesi di due fattori: un fattore oggettivo ed un fattore soggettivo. Per cui una cosa può essere importantissima in sé ma io vederla niente. Perché Gesù qui dice: “Non è ancora giunta la mia ora”? Ma perché era inutile che Lui parlasse a della gente che si ubriacava, non era la sua ora; perché quella gente lì avrebbe ritenuto la sua parola niente anche se è importantissima. Abbiamo visto molte volte che ciò che dà importanza al pane è la fame; noi possiamo trovare il pane quando non abbiamo fame, il pane è importantissimo, però se noi non a....

Commento di Luigi Bracco sulla mancanza di vino alle nozze di Cana.

 
 
 

Dovere e amore.

Post n°23 pubblicato il 05 Aprile 2020 da plumbook

È lo Spirito di Dio, proprio la Presenza di Dio in noi. Soltanto trovando la Presenza di Dio c’è in noi uno Spirito nuovo, ma la presenza di Dio oggettivamente, e non come pensiero nostro: Lui veramente presente; è la Presenza di Dio che ci salva. Altrimenti noi facciamo delle grandi astrazioni; siamo sempre noi che parliamo. Ecco, noi abbiamo bisogno di trovare l’Altro; noi siamo salvati dall’Altro, e non siamo salvati dalle regole, dai doveri. Tutta la Legge, anche i comandamenti di Dio non ci salvano, non ci possono salvare, perché chi ci salva è “Quello” che ci libera dal pensiero di noi stessi. Ora, soltanto il Cristo ci libera. Cioè, chi mi salva è un’Altro da credere, da amare e da seguire, quindi è un Essere personale; quindi è un Essere indipendente da me, che è presente a me, perché se non è presente a me io continuo a girare attorno a me stesso. Quindi se anche ubbidissimo a tutti i comandamenti della legge, riuscissimo anche ad osservare tutti i nostri doveri, noi diventeremmo solo degli esseri orgogliosi, perché ci confronteremmo con gli altri, al punto da arrivare a dire: “io ho fatto questo, e l’altro non l’ha fatto; io sono diverso dagli altri; io sono il popolo eletto, ecc.”, ed è finita, perché mandiamo a morte Cristo credendo di fare ancora un piacere al Signore. Chi ci salva è l’Amore, ma l’amore di un Altro, di un Essere personale; perché ci salva? Perché il problema della salvezza è un problema del superamento del pensiero di noi stessi. Noi da soli non ci possiamo superare; abbiamo bisogno di un punto d’appoggio, un Altro, su cui far leva. E fintanto che non troviamo la Presenza di quest’Altro noi non facciamo altro che girare sempre attorno a noi stessi, per quanti sforzi noi facciamo. È come se volessimo volare tirando in su le stringhe delle scarpe; facciamo grandi sforzi, ma senza ottenere assolutamente niente.

Commento di Luigi Bracco al Vangelo di San Giovanni 2.4.1983

 
 
 

Il potere dell'io.

Post n°22 pubblicato il 05 Aprile 2020 da plumbook

Dio è Creatore, Lui solo è Creatore; noi pensando a noi stessi distruggiamo quello che Dio fa, quindi abbiamo la possibilità di distruggere le sue opere; cioè il potere del nostro io è un potere tremendo: è quello di fare niente tutto quello che Dio fa, di ridurre a niente tutto la creazione di Dio. Infatti noi facciamo esperienza del niente; cioè tutte le cose che Dio ci presenta, se noi non ci affrettiamo a riportarle a Dio le macchiamo dei nostri desideri, le macchiamo del nostro pensiero; ma quando una cosa è macchiata del nostro pensiero, ci fa venire le rughe, ci fa invecchiare; cioè, la cosa, quando l’abbiamo vista, se non la portiamo a Dio per noi diventa vecchia. Un libro quando l’hai letto è diventato vecchio, infatti la seconda, la terza volta che lo leggi, non lo sopporti più, ti stanca; questo perché “l’ho già visto”, ecco il potere del nostro io. Ecco, riferendo le cose a noi, rendiamo vecchie le cose, ma facendo vecchie le cose, noi ci distruggiamo, perdiamo la vita. Mentre invece, se le cose le portiamo a Dio, se Lui mi presentasse anche mille volte la stessa cosa, se le portiamo a Dio, Dio diventa una sorgente di novità continua, perché ad un certo momento diciamo: “Signore, come mai mi presenti per mille volte la stessa cosa? Cosa mi vuoi dire?”; e se Lui me la presenta c’è una novità. Per cui con Dio c’è una novità continua, e la vita è novità. Anche nella Vita Eterna c’è questa novità continua, perché Dio è infinitamente superiore a noi, e quando si vive con un Essere superiore a noi, si va incontro a delle novità in continuazione, proprio perché è superiore. Quindi nella Vita Eterna non è che si canti da mattina a sera: “Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo”, cioè che cantino sempre la stessa cosa, No! La Vita Eterna è una comunicazione di novità continua di Dio. Ora, se qui sulla terra abbiamo già tanta novità, perché Dio è il Creatore, tanto più nella Vita Eterna. Però ad un certo momento noi, pensando a noi stessi, distruggiamo tutto, perché rendiamo tutto vecchio; per cui non c’è nessuna novità e tutto diventa uguale, ecco la monotonia; la monotonia è nel pensiero del nostro io, perché distruggiamo la novità di Dio, perché le togliamo l’anima, le togliamo lo Spirito. Allora noi arriviamo a dire: “A che cosa serve la vita? La vita è tutta una noia”; e già perché vivendo nel pensiero del proprio io macchiamo tutto. Quando una cosa è macchiata col pensiero del nostro io non serve più per collegarci con Dio. Cerca il Pensiero di Dio e ti accorgerai quanto Lui, essendo la Vita, sia una sorgente di novità. Domanda: Tutto è fatto da Dio Creatore; questo potere di distruggere le cose, da chi è creato? Luigi: Da Dio; il nostro io è una creatura di Dio. Ora, se Dio non avesse dato a noi l’io, questa coscienza di essere, noi non potremmo conoscere, saremmo animali. L’animale non ha coscienza dell’io, ma non può conoscere. La condizione per conoscere è quella di poter dire “io”, soltanto che se diciamo “io” distruggiamo noi stessi, perché ci sostituiamo a Dio, facciamo del nostro io il punto fisso di riferimento. Eppure è necessario che io possa dire “io”; è lì tutta la tragedia di Cristo che muore in Croce; se non ci fosse questo rischio, Cristo non sarebbe venuto a morire in Croce; sarebbe bastato che Dio scrivesse nel Cielo: “Io sono Dio, cercatemi e vivrete”; ma perché è stata necessario la crocifissione di Cristo? La crocifissione di Cristo è stata necessaria perché l’uomo corre il rischio di dire “io”, e dicendo io si distrugge; per cui dico così: «noi dobbiamo imparare a dimenticare questo io”; il nostro io è sguardo, “immagine e somiglianza; noi dobbiamo imparare a dire: “Tu”» . Noi siamo fatti dal Tu; ecco, anche le nostre grammatiche sono fatte male; infatti noi diciamo: “io sono, tu sei…”; bestia! tu non sei, Dio è. Allora incominciamo dal Tu: “Tu sei e io sono”; ma “io sono in quanto Tu sei”, cioè in quanto io posso dire sempre: “tu sei”; la Vita Eterna sta nel dire “Dio tu sei”. Più noi diciamo “tu sei” e più noi viviamo; perché tutta la nostra gioia e felicità sta nel dire “tu sei”, e tutta la nostra tristezza sta nel dire: “io sono”. Abbiamo la possibilità di dire “tu sei”, però siccome non siamo delle macchine, non siamo delle rotelle di un ingranaggio, perché con Dio c’è una partecipazione consapevole, si corre il rischio di dire: “io sono”; e dicendo “io sono” non capiamo più niente. Infatti non siamo noi che facciamo il filo d’erba, ed è finita. Ecco, ci basta il filo d’erba per essere smentiti e farci entrare in crisi; infatti tutta la creazione si mette a ridere quando noi diciamo “io sono”. Tutti ridono; e tutti ci accorgiamo che quando uno inizia a dire “io, io, io…” ci fa venire la barba lunga; questo perché non siamo noi i creatori, non siamo noi che facciamo il filo d’erba.

Commento di Luigi Bracco al Vangelo di San Giovanni.

 
 
 

La passione d'assoluto

Post n°21 pubblicato il 05 Aprile 2020 da plumbook

L'uomo è una sintesi di tutto l'universo. Il che vuol dire che tutto l'universo entra nell'uomo attraverso i sensi. Ma come entra nell'uomo sorge il problema. Essendo l'uomo tempio di Dio, quindi portatore dell'Assoluto, passione d'Assoluto, l'uomo come riceve in sé il mondo esteriore, la creazione, le creature, gli avvenimenti, i fatti, immediatamente l'uomo sente una conflittualità: le cose del mondo esteriore non sono l'Assoluto. Certamente non sono l'Assoluto, quell'Assoluto che l'uomo porta in sé e di cui lui è fame. L'uomo è caratterizzato da questo: l'uomo è passione, fame d'Assoluto. E come questa passione d'Assoluto viene a contatto con ciò che non è Assoluto, la cosa non è più sopportabile dall'uomo: l'uomo sente il problema, ha bisogno di una giustificazione, ha bisogno d'interrogare, di un perché e sentire la risposta. Perché le cose mutano? Perché le cose passano? Perché tutte le cose sono soggette a morire? È questa passione d'Assoluto, è questo Dio che l'uomo porta in sé che fa interrogare. L'uomo ha bisogno di una risposta. E qui di fronte a questo problema ogni uomo comincia a qualificarsi e determinarsi. Abbiamo uomini che di fronte a ciò che non è Assoluto, loro che sono passione d'Assoluto, rispondono con il tentativo di trasformare in Assoluto quello che non è Assoluto. È la fatica, è lo sforzo, è lo studio di tutti gli uomini: cercare di rendere Assoluto quello che Assoluto non è. Tutta la fatica umana e tutti i conflitti umani, hanno questa radice profonda: l'uomo non accetta il mutamento. L'uomo non accetta che le creature e le cose del mondo mutino e lui tende a renderle eterne, assolute, a renderle stabili. La creazione è tutta opera di Dio che arriva all'uomo indipendentemente dall'uomo, quindi è imposta. L'uomo la subisce, però subisce una cosa che non riesce a digerire, che non riesce ad assimilare, non riesce a capire. Perché la cosa non è assoluta. E l'uomo è passione d'Assoluto e allora si sobbarca (inutilmente) questa fatica, per cercare di rendere Assoluto quello che Assoluto non è. Qui abbiamo l'uomo che si definisce l'uomo faber. L'uomo che lavora. L'uomo che fatica. L'anima di tutto il lavoro umano e di tutta la fatica umana è quella di cercare di rendere Assoluto quello che Assoluto non è. E poi abbiamo una seconda risposta dell'uomo e la seconda risposta dell'uomo non è quella di trasformare in Assoluto quello che Assoluto non è. Ma è quella di cercare che cosa è l'Assoluto. E qui abbiamo l'uomo sapiens, l'uomo che cerca di sapere. Quindi il primo uomo (homo faber) è quello che vive per trasformare in Assoluto quello che non è Assoluto e va certamente verso il fallimento. Tutto il lavoro umano e la fatica umana vanno verso il fallimento. Perché nessun uomo riuscirà a trasformare in Assoluto quello che non è Assoluto, se non altro perché c'è la morte. La soluzione del problema non sta lì. L'homo sapiens è invece l'uomo che cerca di capire e abbiamo detto prima che la salvezza sta nel capire. Allora la salvezza sta qui. Non sta nell'homo faber, la salvezza sta nell'homo sapiens. Uomini che tendono a fare (anche nel campo dell'apostolato è sempre un voler fare le cose del mondo esterno in modo che siano assolute) e invece uomini che tendono a cercare di capire che cosa è l'Assoluto, chi è Dio. Tutto dipende dal tenere presente Dio o non tenere presente Dio. Dio Creatore di tutte le cose è l'essere che nessun uomo può ignorare e questo è un termine uguale sia per l'homo faber che per l'homo sapiens. Certamente non è l'uomo il creatore delle cose. L'uomo è passione d'Assoluto, quindi non sopporta quello che non è Assoluto. Quindi tutte le volte che l'uomo non tiene conto di Dio, immediatamente è portato a trasformare ciò che non è Assoluto in Assoluto, quindi a volere la creatura o la cosa assoluta, immutabile come Dio, mette la creatura al posto di Dio. Abbiamo detto che questa è l'anima di tutti i problemi e di tutta la fatica dell'uomo. Se invece l'uomo tiene conto di Dio, tutti i segni che arrivano all'uomo dalla creazione sono un ammonimento, l'uomo li riceve come ammonimento, come denuncia, come sollecitazione ad approfondire la conoscenza di Colui che lui non può ignorare.

(LUIGI BRACCO)

 
 
 

L'altro e l'io.

Post n°20 pubblicato il 05 Aprile 2020 da plumbook

Dobbiamo fare una grande distinzione tra ciò che arriva a noi senza di noi e tra ciò che parte da noi: ciò che arriva a noi senza di noi, comunque sia, bello o brutto, simpatico o antipatico, delittuoso o santo, guerre o spettacoli magnifici, tutto è opera di Dio. Essendo opera di Dio è “Parola di Dio per me”, perché Dio parla personalmente con ognuno di noi. Tutto è spettacolo che Dio ci presenta, quindi è linguaggio. Il linguaggio però va capito. Ora, noi però possiamo fare l’errore di considerare questa scena a sé, staccata; oppure possiamo fare l’errore di interpretare questa scena secondo il nostro pensiero, secondo la nostra intenzione; ed è altrettanto sbagliato. Se invece riportiamo questa scena e la intendiamo nel Pensiero di Dio, allora è giusto; perché questa scena, essendo creatura di Dio, creazione di Dio, va intesa secondo l’Autore. Ogni cosa va intesa secondo lo spirito di colui che la fa. Noi non possiamo ascoltare le sue parole ed intenderle come vogliamo noi; No! Dobbiamo cercare il suo Pensiero. Perché ogni parola può essere rivestita di un pensiero diverso. Quindi noi dobbiamo cercare il Pensiero di Colui che la dice. Se tutto è creazione di Dio, ogni cosa è intesa rettamente solo se è intesa nel Pensiero di Dio che fa quella cosa. Ecco, tutte le cose che arrivano a noi senza di noi vanno accolte da Dio. Quello che invece parte da noi, come anche il giudizio, è causa di dispersione. Noi dobbiamo stare attenti; ogni parola deve partire da Dio, dal Dio in noi, e non deve partire autonomamente, cioè per sentimento nostro, per impressione nostra o per esperienze nostre precedenti, perché quello che parte da noi, e non da Dio, ci porta via Dio, ci separa da Dio, ci crea una frattura. Ed è una frattura che noi non possiamo più recuperare. Infatti se Cristo non viene a morire in noi, noi da soli non possiamo più recuperare il Principio; perché quello che parte da noi ci domina, ci rende appassionati e ci fa vivere per quello. Cioè, noi non possiamo più superarci; perché per superare il pensiero di noi stessi abbiamo bisogno di un Altro, ma per avere presente l’Altro dobbiamo avere superato noi stessi, il cerchio è chiuso e non ne usciamo più. Noi per poterci liberare dai nostri prodotti, dobbiamo superare il pensiero del nostro io, ma noi da soli non possiamo superare il pensiero del nostro io; per superare il pensiero del nostro io abbiamo bisogno di un Altro. Ma per arrivare alla presenza di un Altro dobbiamo superare il pensiero del nostro io; altrimenti l’Altro non lo vediamo, e il cerchio è chiuso. Cioè, per superare il pensiero del mio io, ho bisogno dell’Altro; soltanto in quanto un Altro si presenta a me, e si fa oggetto d’amore, io ho la possibilità di superare il pensiero di me stesso. Quindi per poter vedere l’Altro io devo superare il pensiero di me stesso; altrimenti non lo vedo l’Altro; cioè, anche se io vedo degli uomini, delle creature, dei corpi, li rivesto del pensiero del mio io. Una volta creatasi la frattura tra me e Dio ad un certo momento tutta la creazione è rivestita del pensiero del mio io; cioè ad un certo momento sono talmente imprigionato che tutto diventa specchio di me stesso, del mio io, prodotto del mio io e nient’altro; perché sono segni e i segni sono rivestibili di un’intenzione. Quando tutta la creazione è rivestita di una mia intenzione da li non ne esco più. Allora “...chi mi libererà da questo corpo di morte?” (Rm 7,24), cioè, “..da questo cerchio chiuso”? Soltanto la presenza di Dio; ma la presenza di Dio che entri in questo cerchio chiuso e quindi che assume un corpo; ecco, soltanto il Verbo incarnato mi può liberare, mi può spezzare il cerchio.

Commento di Luigi Bracco al Vangelo di San Giovanni. 26.3.1983

 
 
 
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