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« Questa Mattina a JeninQuesta mattina a Jenin »

Questa mattina a Jenin.

Post n°285 pubblicato il 13 Marzo 2013 da ickyGirl
 

"La guerra fa di me uno straccio. Nella mia vita ho solo vissuto dolori tremendi sia nella mente che nel corpo. Ho sempre trattenuto tutto, i pianti, le angoscie e ho sempre avuto prima di vivere. Mia madre era una donna meravigliosa. La sua vita è durata circa trent'anni, con una morte spietata che è rimasta impressa nei miei pensieri. Porto una cicatrice nel cuore e nella carne che trapassa il mio sena, fino ad arrivare all'addome. E' la cicatrice di un taglio di un israeliano, sono stata tra la vita e la morte. Ero distesa a terra, di fianco alla buon'anima di mio padre. Ci tenevamo la mano, quasi per ribadirci un'ultima volta il bene che l'uno provava per l'altro. Quel lurido voleva squarciarlo con un coltello che stringeva nelle mani con gran forza. Lo puntò dritto sul petto di mio padre, ma presi coraggio e mi misi tra lui e l'ebreo e il mio corpicino si lacerò in un attimo. Sentivo il dolore passarmi per le vene e l'urlo di sconforto che gettai lacerò il cuore di mio padre, inerme a terra. Purtroppo quel gesto così glorioso non servì a  nulla, perchè mio padre venne preso con forza e picchiato selvaggiamente e morì tra le braccia della sua bambina, insanguinata per lui. Io. Ho vissuto una vita pessima. Ho subito la morte dei miei genitori all'età di 14 anni e non ho mai conosciuta la mia famiglia. Vivo solo di racconti orridi, che porto sulle spalle, sono un peso tale da farmi cadere ad ogni passo. Adesso ho 19 anni, sono sposata, e ho un bambino di nome Yussef e altri due nipotini, Nadine e Majid i quali mi sono stati affidati dopo la morte della madre, mia cugina, e del padre. Devo accudire questi bambini, queste piccole vite." Questa è la storia che ho raccontato questa mattina ad un vecchio signore di Jenin, pestato e gettato a terra come uno straccio. L'ho visto e l'ho preso tra le braccia con tutta me stessa, trascinandolo nella mia casa, se così si può chiamare. Mentre lo curo mi chiede chi sono, come vivo la guerra e quanti anni ho, dato il mio viso giovanile. Finite le cure gli offro del cibo, ma rifiuta, sapendo le tante bocche che devo sfamare. Uscendo dalla porta vedo l'ombra del mio piccolo Yussef gettato nell'angolo della camera di fronte. Lo guardo attentamente, ma non parla e non dà segni di sè. Ha paura e si vede dal continuo tremolio delle gambe rannicchiate al petto. Ha sicuramente nella mente le urla, le bombe, gli spari che lo opprimono dopo l'ultimo attacco avvenuto all'alba di questa mattina. Lo fisso ancora, e penso ad un modo per rassicurarlo. Mi immedesimo nei suoi pensieri e sento la paura piegarmi le gambe, quasi da farmi perdere l'equilibrio del mio esile corpo. Mi avvicino lentamente e con un gesto materno lo prendo in braccio e lo stringo forte al petto. Nel frattempo i pensieri mi frullano nella mente, e mi faccio forza, per sembrare quasi indistruttibile agli occhi di Yussef di 3 anni, Nadine di 5 e Majid di 12. Sono piccoli, ma con la vita che le è stata data hanno dovuto crescere velocemente, tra dolore e violenza. Il più grande, Majid aiuta mio marito a lavorare come dottore nel campo profughi qui vicino. Mi giro lentamente con ancora Yussef tra le braccia e vedo mio marito Hassan e Majid che entrano dalla porta centrale. Lascio dolcemente Yussef alle cure del padre e dei cugini, mentre esco per prendere qualcosa da mangiare. Tornata a casa, volo subito per cucinare un po' di Blitze, e con la coda dell'occhio vedo mio fglio, ancora scosso, nelle dolci coccole dei cugini. Alle ore 16:00 un altro attacco ci abbatte sulle nostre case. Rinchiudo Nadine, Yussef e Majid nella buca sotto la cucina ed io e Hassan usciamo fuori per aiutare il vecchio signore di questa mattina, a camminare. L'odore della fuliggine, gli spari incessanti, la terra che volteggia nell'aria mi opprimono la vista. Questa guerra fa scaturire rabbia nel mio cuore. Cammino velocemente, tra le macerie che coprono il villaggio in fiamme. Vedo l'ebreo che mi blocca, mentre mio marito si accascia lentamente, lamentandosi con voce fioca per il proiettole che lo ha colpito alla gamba destra. L'ebreo mi punta l'arma gelata sulla fronte mentre un pianto silenzioso bagna nuovamente il mio viso giovane. In quell'istante l'unico pensiero sono i bambini. Non posso lasciarli soli, sono piccoli, ma la morte è ad un passo da me. Lo guardo lentamente negli occhi, così attenti e colmi di rabbia, Lo sento mentre cerca di premere il grilletto, ma i nostri sguardi s'incontrano tra paura e speranza e con una lacrima che scende lentamente, mi dice "Scappa!". Lo guardo stupita, mentre se ne va correndo. Prendo mio marito tra le braccia e corriamo nella polvere che vola nell'aria sporca. Apriamo la buca dove avevamo nascosti i nostri piccoli, ma sono immersi in una pozza di sangue che immerge i loro corpicini. Stoione che mi afflige l'anima. Sono morta dentro, sono morta nel cuore. I miei occhi neri sono immobili. Voglio morire.

 

 

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