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Questa mattina a Jenin

Post n°298 pubblicato il 15 Marzo 2013 da alice.digiovanni

 

Questa mattina a Jenin

Sono le 11.40 di mattina di uno dei giorni più caldi di luglio. Il mio viso è pieno di ferite, il sudore scende dalle tempie passando per quei tagli all’apparenza piccoli ma abbastanza profondi per sentirli bruciare ogni qual volta un’insignificante goccia acida coli rapidamente.

Sono spaventata. Sono sola. Non ho la benché minima idea di dove sia finita la mia famiglia o quello che ne era rimasto. Mi preoccupo per la piccola Dalie, mia sorella minore. Ha solo due anni, gli altri fratelli sono abbastanza intelligenti e furbi da cavarsela da soli. Ma lei no, con quegli occhi così grandi e neri pieni di dolcezza, il viso olivastro e liscio, le labbra non troppo carnose che ha ereditato dalla bisnonna Huda e le sue guanciotte che spiccano subito a primo sguardo. Ho paura per lei, l’unico vero affetto che mi è rimastoa Jenin, non voglio pensare che sia morta. Gli ebrei non hanno più ritegno nei nostri confronti. Con quale coraggio possono uccidere una bambina così bella, sensibile e impaurita, e come hanno avuto il coraggio di sparare a mia mamma che cercava di proteggere sua figlia. Era bellissima, piena di pregi, con un cuore troppo grande, ha sempre aiutato tutti coloro che erano in difficoltà, anche quei luridi ebrei feriti dalle loro stesse bombe, donandogli amore ma a loro non importa niente sparano e basta. È una guerra che ormai dura da anni e proprio durante questa carneficina sono morte tutte le persone a me più care come Falastin, la mia migliore amica, l’unica persona che mi riusciva a calmare e mi dava forza quando io  mi paralizzavo davanti a tutto questo squallore. Jenin ormai era diventato un campo profughi fantasma. Hanno ucciso Falastin appendendola alla doccia conficcandole un coltello tra le costole e tutto questo solo perché , ormai sola, sentiva il bisogno  di vedermi, il bisogno di stare con qualcuno che l’abbracciasse senza fare domande; proprio ieri che ha compiuto quindici anni, che la giornata era cominciata nel verso giusto con il sole di Jenin che mi faceva pensare alle belle giornate passate con mio padre, fin troppo coraggioso, se ne è andato tre anni fa per combattere per la propria patria. Si chiama Hassan, per il momento è l’uomo della mia vita, ogni tanto ricevo delle lettere, ma non riesco mai a trovare le parole adatte per raccontargli la situazione critica di questo campo profughi.

Sento una voce in lontananza, tutti i miei ricordi svaniscono come il fumo << Farah, Farah dove sei? Ti prego Habibti rispondi>> . una voce non troppo lontana mi sta chiamando, una voce dolce. È mia sorella! Anche se sono stremata esco dal mio nascondiglio e corro fino a raggiungerla. Mi butto su di lei. Sta tremando. La prendo in braccio, è assetata, ci mettiamo in marcia per trovare dell’acqua. Dopo esserci dissetate, stiamo cercando i nostri fratelli Abdul e Abedin. Adbul è il più grande ha 17 anni ed è identico a papà mentre Abedin  ha 10 anni; lui invece di papà ha solo gli occhi.

Il sole è sempre più alto, fa caldo. Le case di argilla sono distrutte e sotto le macerie ci sono centinaia di corpi senza vita. Copro gli occhi a Dalie, non voglio che veda tutto lo squallore, non voglio che potrebbe riconoscere i cadaveri dei nostri fratelli.

Solo le 19.35. abbiamo vagato per Jenin tutto il giorno alla ricerca di un rifugio per la notte e per nostra fortuna abbiamo incontrato una signora molto gentile che si offre di ospitarci per un po’. Ormai è tardi, Dalie si è addormentata tra le mie braccia.

 Aspettiamo l’alba per ringraziare la donna e per ricominciare una nuova vita.

 

 
 
 

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