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L’involuzione liquida

Post n°63 pubblicato il 30 Aprile 2010 da maurizio.mgr
 

La crisi della politica in Italia è una crisi di modello, di distacco dai processi sociali e di rifugio in formule di organizzazione «liquida» che sviliscono i fenomeni di partecipazione democratica e in cui si annidano nuove e sempre più comuni forme di malaffare. Giuseppe de Rita, sociologo e Presidente del CENSIS, ci illustra le ragioni di questa involuzione, e le sue drammatiche conseguenze per il  tessuto democratico del nostro Paese.

Professor De Rita, perché a suo avviso, e contrariamente alla conventional wisdom, la crisi dell’economia è speculare alla crisi della politica?

giuseppe de ritaPerché la crisi obbliga la società a fare i conti con le miopie della politica. Le faccio un esempio. Stiamo assistendo alla graduale risistemazione dei rigonfiamenti, delle inefficienze, della scarsa competitività del terziario del nostro Paese. Una situazione determinata in gran parte dagli sforzi spesi in passato dalla politica per risolvere il problema della disoccupazione industriale e intellettuale. Senonché le soluzioni congiunturali hanno dato luogo a problemi strutturali, cui l’attuale processo di ristrutturazione sta lentamente ponendo rimedio in maniera invisibile, spontanea, molecolare. E non è soltanto un problema dimensionale: si è resa necessaria una ristrutturazione in senso qualitativo. Pensiamo alle banche che due anni fa, in piena gloria, procedevano comunque a ridimensionare i loro organici. Si potrebbe pensare che, ove la crisi avesse innescato una ristrutturazione del terziario, gli esuberi sarebbero dovuti aumentare. Eppure, ai tagli si è sostituita una conversione qualitativa che ha riportato le banche sul territorio. È bene quindi che la politica stia il più possibile a largo da questi fenomeni, limitandosi ad accompagnarli.

E quali sono gli sbocchi di una politica che non fa, o non può fare?

Ripiega sull’apparire. La società italiana di oggi vive di eventi e di opinioni, che si alimentano a vicenda. E molto spesso l’opinione diventa autonoma dall’evento stesso, succedanea o addirittura preparatoria. Pensiamo alla manifestazione preelettorale del PDL: l’evento ha innescato una raffica di opinioni, ma è stato al contempo l’epilogo di una deriva opinionistica incentrata sulla figura di Berlusconi. Tutto questo è profondamente deleterio, perché opinioni ed eventi sono effimeri e alla politica non resta che il fumo, la nebbia, l’indistinto. E in questo processo è senza dubbio centrale il ruolo dei mezzi di intermediazione, come la televisione, attraverso cui si crea l’illusione di una relazione che invece è mero flusso. Per ora, l’unico antagonista di questa dinamica è il «tam tam»: parlando col vicino o con il collega d’ufficio si esprime qualcosa e si crea relazione, altrimenti il rapporto evento-opinione finisce per cannibalizzare la politica e la società.

Dunque l’affermazione del modello di leadership carismatica in Italia parte da queste dinamiche.

Certamente. Il leader carismatico nasce in assenza di dimensioni intermedie, di livelli di riflessione collettiva che non siano la piazza, e quindi l’evento. Non nasce nel partito organizzato di massa. Nel PCI e nella DC i leader c’erano eccome, ma al vertice di partiti-organizzazione che godevano di un’articolazione capillare nella società, con cui vi era un rapporto dialettico e a cui erano tenuti a rispondere. Con la fine dei partiti tradizionali si parte alla ricerca disperata di una personalizzazione del potere perché viene meno questa struttura, a cui si sostituisce l’opinione pubblica e la sua esaltazione. Ma il partito d’opinione porta frutti avvelenati, non realtà moderne.

Secondo lei i nuovi media possono fornire uno spazio di fuga da questa deriva?

Il vero problema è che evento e opinione hanno spazzato via tutta la parte intermedia della formazione dell’opinione e degli interessi. Evento ed opinione insieme hanno reso desueti il Parlamento, i gruppi parlamentari, i sindacati, perché tra un evento e l’altro, tra una campagna d’opinione e l’altra, non c’è tempo per far maturare dei corpi intermedi che rappresentino interessi veri e identità precise. Non sono un esperto di social network e di blog, ma la mia tentazione sarebbe quella di valutare quanto siano in grado di costruire, appunto, tessuto intermedio. Ma se dai nuovi media emerge un rapporto di comunicazione pura, senza sostenere una evoluzione strutturale e organizzativa di corpi intermedi, allora non credo che possano cambiare sostanzialmente il quadro.

Al mutamento della politica è seguita anche l’evoluzione strutturale del malaffare. In una recente intervista a «La Stampa», lei ha detto che «siamo passati dalla maxi-tangente Enimont al piccolo appalto». Perché?

Anzitutto perché la maggior parte dei grandi interessi sono fuori dall’Italia. Giocano su altri fronti. Cosa resta allora? Che i veri interessi sono quelli della spesa pubblica: delle regioni, della Protezione Civile, dei vari ministeri. E siccome sull’osso c’è poca carne, si scatena un vortice competitivo che porta al dilagare di fenomeni di corruzione come quelli che emergono dalle ultime inchieste della magistratura. Mi ha colpito, ad esempio, il linguaggio dei personaggi coinvolti nell’inchiesta sugli appalti della Protezione Civile. Sono fiorentini, calabresi, campani, molisani: ma dalla lettura delle intercettazioni ci si accorge che parlano tutti un romanesco molto stretto. Sembra che abbiano mutuato il modello del cosiddetto «generone»: una cultura di affari che si basa quasi esclusivamente sulla costruzione di un sistema di relazioni. Soltanto che al di fuori dell’Italia questo sistema serve a ben poco.

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