Creato da antoniobernardi il 30/05/2012

LA CONVINZIONE

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Giugno/luglio 1992 – il significato di volare

Post n°1 pubblicato il 31 Maggio 2012 da antoniobernardi
Foto di antoniobernardi

Non ho ancora una coscienza della mia vita futura, né di quella passata. I fine settimana li passo nel grande comprensorio montano dell’Alpago a volare con gli amici, Bepi Dal Borgo, Felix, Titta Casagrande e Walter Marcon.

Ho il ricordo dei sabati pomeriggio passati a volare lassù, nella quiete in quei paesi così differenti dalla città, immuni dal caos urbano del sabato pomeriggio. La partenza da Treviso nelle prime ore, appena dopo il pranzo, quando già ci sono le prime avvisaglie del caos che di li a poco esploderà: faccio appena in tempo ad abbandonare la nave.

Poi in Alpago, il ritrovo con gli amici al Delta Club Dolada, e poi finalmente i voli con la mia grande vela, il mio parapendio. Su al decollo chek-list, controllo imbrago, la vela aperta, pronta a spiegarsi al vento, le battute scambiate con gli amici per nascondere l’apprensione,  la radio spenta, non mi serve, oggi volo da solo, a vista, come uno zingaro per il mondo, la strumentazione invece si, accesa e pronta, il paracadute di emergenza e il comando di apertura in ordine, casco, uno sguardo alla manica a vento che oggi non lascia dubbi, e poi il decollo sotto una scarica di adrenalina, e un tuffo nell’immensità: “..ciàp el vent…” dicono lassù. E così a vagare per ore nel nulla, sopra paesi, boschi, campi, torrenti, a sfiorare cime che vedi generalmente solo dal basso del tuo essere terreno, e poi l’atterraggio.

E infine la pace del tardo pomeriggio, in silenzio, su, in alto, in cima alla montagna di nuovo al decollo, seduto ad ascoltare le campane dei paesi e la quiete della montagna con al mio fianco il parapendio ripiegato nel sacco. Il ritrovare se stessi in un'altra dimensione, in un rifugio dalle malore della vita. Ascolto in silenzio i suoni chiari delle campane dei paesi laggiù in basso, sparsi, che arrivano con la brezza della sera, che dalla pianura seduta li in fondo ti soffia in faccia un’idea, una sensazione di un tempo ormai andato: Verona, Roma, Belluno... Pensieri che non ci sono perché non riescono a insinuarsi nella tua testa, contrastati da quella pace interiore ed esteriore che palpita tutto intorno. Poco più in su la forcella, poco dietro il rifugio dolada, e giù in basso, Pieve d’Alpago, Puos, Plois, Tambre, Torch, e poi li a destra Ponte nelle Alpi e Belluno, e poi li in fondo Feltre.

Il cielo è sereno, poche nuvole bianche non più cariche come un’ora fa, illuminate da un sole ormai non più troppo alto, sui monti del Sole e le Alpi Feltrine e Bellunesi; a sinistra il monte Cavallo, a destra Col Visentin, e li in basso il grande lago di Santa Croce.

Domani mattina non sarà la stessa cosa, la domenica mattina ci saranno già molte persone e stranieri che voleranno qui, la luce non sarà la stessa e ci saranno i Veneziani che verranno a mangiare al rifugio e a vederti volare.

Ma il sabato tardo pomeriggio c’è ancora, non è ancora finito. I pensieri non riescono a sopraffare quella specie di torpore che ti prende mentre guardi intorno a 360 gradi le tue montagne. All’inizio, erano un ambiente quasi ostile, il corso, le interminabili risalite al campetto, i primi voli alti fatti d’inverno anche con il cattivo tempo; ma tutto ciò era solo un mezzo per raggiungere lo scopo: riuscire a volare sopra i laghi di Revine, poco distanti da Vittorio Veneto, era quello che avevo sempre desiderato fin da piccolo. Ora invece nessun luogo può competere con il mio Alpago, il mio West, la mia “Frontiera”,  il mio mondo di allora.

Fra due ore sarò con gli amici giù in centro a treviso, davanti un aperitivo o a cena, e non sarò più lo stesso di ora. La natura che mi sta intorno, la maestosità degli elementi che mi circondano e con cui ho scelto di convivere una parte della mia vita, forse solo un frammento, si, ma degno di nota,  mi svuota e mi rende incapace di resistergli: io sono una infinitesima parte di quella maestosità che genera energia. Potrei stare qui un secondo, e sembrarmi un’eternità, oppure potrei vivere qui seduto su questo masso al decollo per un’eternità, in silenzio da solo, e poter credere che sia passata solo una frazione di quel secondo. Potrei perfino pensare di non avere altro scopo nella mia vita se non quello di rimanere qui. Qualcuno a volte ci riesce, ma il più delle volte, come nel mio caso, si preferisce chiudere gli occhi e far finta che Dio non abbia nessun ruolo in questa smisurata, incommensurabile e sconfinata dinamica, e che siamo solamente noi unici veri artefici di noi stessi, del nostro futuro e, soprattutto, di ciò che ci circonda. 

Un sabato, a metà pomeriggio, sono appena atterrato nel grande orto un centinaio di metri prima del campo di atterraggio, tra melanzane, insalate e pomodori: evidentemente non ho fatto bene i conti con il vento di oggi che mi ha fatto perdere rapidamente quota e non mi ha permesso di arrivare. Mi guardo in giro, ma per fortuna non vedo il proprietario che in questo momento sarà a fare acquisti a Belluno con la sua signora. Ripiego la mia vela, la chiudo nel sacco e mi avvio verso il club, a Pieve d’Alpago, due chilometri a piedi. Nel tragitto passo per il centro di Torch e mi fermo nel negozietto di alimentari a comperarmi un gelato. La signora mi saluta cordiale. Poche persone, il sole che splende e illumina le case del villaggio, un negozio di alimentari e due parrucchiere: non c’è altro a Torch, oltre a me e al mio parapendio, al cielo e alle nuvole. Avevo trent’anni. Sono riuscito, allora, a vedere la “mia” frontiera prima che scomparisse per sempre nella nebbia del tempo.

 
 
 

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