Creato da Nekrophiliac il 21/02/2005

DARK REALMS V2

So, I've decided to take my work back underground. To stop it falling into the wrong hands.

 

 

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Post n°87 pubblicato il 20 Luglio 2006 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

GROOVE ARMADA: GOODBYE COUNTRY (HELLO NIGHTCLUB) (2001)

Caustico ritroso. Al culmine di una vibrante nottata, splende alto il bagliore della luce del nuovo giorno, appena circoscritto alla risacca di un placido mare che solletica il bagnasciuga: è la ricorrente sensazione di uscita dallo stimato club, per il quale, ore fa, ti sei lasciato alle spalle un intero paese. Non c'è scampo. Trip hop, dub, dancehall, e illimitati samples sono i generi, ben assortiti, che si disperdono nell’etere, surrogati dalle piacevoli note, non a caso, “groove” più del solito. L’anima del disco, straordinariamente riuscito al di là delle più rosee aspettative, è qui racchiusa: divertire, stupire, come un bian coniglio fuoriuscito dal cappello di due magici prestigiatori londinesi, Tom Findlay e Andy Cato, e, perché no, resistere anche all’usura del tempo, divenendo un modello per tutti coloro che intenderanno seguire le orme del duo, almeno sino al club. Un nome importante, praticamente fondamentale, per gli appassionati dell’elettronica di qualità. Sotto la sigla Groove Armada si celano coloro i quali collezionarono una piccola serie di successi, con "4 Tune Cooking" e "At the River", nello scorso decennio, già ballati da mezza Europa, prima di compiere il tanto sospirato salto di qualità, coinciso con la pubblicazione del loro album di debutto: Vertigo (1999), che fece in tempo a scalare, di prepotenza, le classifiche del Regno Unito, vincendo persino un disco d'argento. I singoli in esso contenuti conobbero, a rigor di logica, un successo inaspettato: basti pensare a I see you baby, remixata da quel genio di Norman Cook, meglio conosciuto come Fatboy Slim. I Groove Armada, a questo punto, firmarono poi una compilation della serie Back To Mine e, nel 2001, tale capolavoro. Dissimile, polimorfo, “contaminato” e autentico, Goodbye Country (Hello Nightclub), fin dal titolo, è in grado di conquistarsi il suo spazio nella storia. Infatti, si passa da accenni decisamente plastici ed elastici, propriamente dance, ad istanti più "musicali", desiderati, apprezzati e d'atmosfera; inoltre, i due hanno finito col collaborare con molteplici artisti proprio per far sì che il “genere” si contaminasse attraverso una vena creativa che a loro (forse) non appartiene.

Dal tramonto all’alba. Con curiosità, Suntoucher è in prima battuta e promette, in parte, ciò che contraddistingue il disco per la sua intera lunghezza: un ritmo chill-out contornato da reiterate chitarre ovattate, surrogate da una serie di fiati ben riverberati, infine sostenuti da occasionali vocalist, a tratti “black", come nel caso in questione, con il flusso di parole “thrilling” di Jeru The Damaja. Una piacevole sorpresa. Il gioco si ripete con il secondo brano, ma qui il volume dei diffusori acustici si alza all'inverosimile. Superstylin’: ecco il primo singolo estratto, nonché il brano che, magnificamente, racchiude in sé l'essenza dell'intero album. È in grado di fare incontrare il cielo e il mare, cioè l’accattivante acid house e l’inneggiante down beat, risultando congeniale tanto per le dancehall, quanto per radiofonica da esser proposta come sveglia del mattino: tale è il cammino intrapreso dai Groove Armada, che hanno l’ampio merito di “sdoganare la musica dance”, rendendola non soltanto un veicolo di commerciabili folle, bensì, facendo emerge il suo più alto livello qualitativo. Dopo aver spaziato dall'ambient alla techno, non disdegnando incursioni nel trip-hop, i "due ragazzi con il trombone" – in quanto si avvalgono tanto in studio, quanto dal vivo di una sezione di fiati "autentica" – si cimentano qui in un’improbabile congiunzione della spontanea solarità del dub, con la grezza potenza del drum'n'bass. L'apertura è, infatti, ampiamente dedicata ad echi di fiati e percussioni giamaicane, che sono presto tallonate dal penetrante basso che scorta la cadenza decisamente "old school" del guest rapper, M.A.D. Ne risulta una vera e propria granata sonora, la cui autorità non si percepisce completamente dal bizzarro clip, dove due fattorini d’occasione trasportano in giro un gigantesco altoparlante nella speranza di trovare chi sia capace di farlo rendere al massimo.

Attenzione, i tentativi di ristrutturare/rinnovare la musica dance non si fermano certo qui. La seguente Drifted è un trip di psichedelia elettronica alquanto rilassante, ove è labile il confine tracciato tra l’house e la tribal. Atmosfera che da riposante diviene, a dir poco, magica e sognante sulle scandite note di placido pianoforte, con Little By Little, canzone che annovera tra gli ospiti alla voce, quella bellissima ed intensa di una leggenda vivente del soul, quale Richie Havens. Nella traccia successiva, Fogma, dai flessuosi sintetizzatori “a singhiozzo”, il duo londinese decide di confrontarsi direttamente con l'house più classica e impetuosa. La gradevolissima My Friend è una piccola e malinconica gemma d'atmosfera, leggera nell'arrangiamento soft, imperniato sul groove rubato all'intro di Gotta Learn How To Dance della Fatback Band, e minimale nell'unica frase del testo, « Whenever I’m down, I call on you my friend. A helping hand you lend in my time of need », interpretato dalla voce di Celetia Martin, tuttavia, tratta integralmente da Best Friend di Brandy. Uno straordinario esempio di come il sano e genuino lavoro di assemblaggio, in cui la drum machine e gli svariati sintetizzatori trovano un'armonica fusione con strumenti "autentici" quali chitarre funky e organi elettrici, possa risultare oltremisura creativo ed oltremodo innovativo. Tagliato su misura è lo splendente clip d'accompagnamento, con la sequenza delle scene di tangibile vita quotidiana di un'anonima impiegata di città a conferire quel senso di avvilente routine e persistente prevedibilità insite nell'esistenza dell’essere umano moderno, alternate, però, ai fulgidi ricordi degli istanti trascorsi al Sole, in spiaggia, tra feste e altro ancora.

In ogni caso, la sensazione di trovarsi in un mondo virtuale non si esaurisce qui, bensì continua attraverso la propagazione degli effetti sonori iniziali di Lazy Moon, in cui il vento sembra scorrere dolce sottofondo all'arpeggio di una chitarra acustica e alle note di un malinconico del violino. In termini di lunghezza, non si tratta di un breve episodio “bossanova”, tuttavia, all'interno di un disco di analogica musica dance, tra campioni e campionatori, realizzata con grande classe ed ottimo gusto, a dir poco, colpisce e stupisce l’attento ascoltatore che mai si sarebbe aspettato chissà quali “colpi di archi” proprio qui, nel club dei Groove Armada, che immediatamente si rilancia, a seguito di tale pausa con Raisin’ The Stakes, dalle tipiche atmosfere della “vecchia scuola”: ritmo scarno, enormi vibrazioni, convulsi fiati, lungo rap d’assalto. Healing, piuttosto, è la sintesi dell’energia, del dinamismo e del movimento, dove i “bassi” riempiono l’umano sterno a colpi di martello, subito attenuati da una nuova fermata: Edge Hill, che presenta vari inserimenti di chitarra acustica e ottimi arrangiamenti sinfonici, il tutto tracciato su un sapiente tappeto di, ancora, archi. In simili episodi, sembra di trovarsi di fronte ad una vera e propria jam session, anziché ad un lavoro di re-sampling. Il fatto che Andy Cato e Tom Findlay abbiano, generalmente, girato in tour con una band di nove e più elementi può aiutare a afferrare lo spirito che soffia vitale entro l’anima dei Groove Armada. Spazio, allora, a Tuning In, che propone le atmosfere lounge care al duo, laddove su tempo veloce solo a tratti, si distendono nell'ordine: l’onnipresente basso, seppur discreto, la leggera tastiera in appoggio e gli interventi vocali di Tim Hutton, limitati a pochi versi proiettati nell'aere, ove, una manciata di istanti dopo, si propaga cadenzata Join Hands, ripetitiva, anche se efficace a far allentare la tensione. In conclusione, altra perla d’altri tempi: Likwid. A fronte di uno spazio, o forse un’atmosfera parallela al club, si erigono radar che sondano un miscuglio di suoni, dal basso oltre il confine sino a pulsazioni sintetiche, elevando tutto ciò che è ascrivibile sotto la ridicola e banale etichetta di dance, un “qualcosa” che è insuperato e insuperabile per dignità artistica, che mai stanca e che arricchisce l’ascoltatore, a seguito di reiterati ascolti, sempre di nuovi suoni, di sfumature ritmiche, che non possono che rendere il disco mai uguale a se stesso. Rimasti per parecchio, forse troppo, tempo, nella nicchia delle cult-band idolatrate dai soli addetti ai lavori, Tom Findlay e Andy Cato hanno definitivamente sfondato con questo disco, dimostrando, una volta di più, una versatilità ed una sensibilità non comuni, tali da permettere loro di realizzare brani sempre azzeccati pur mutando ogni volta registro e genere. Magnifici.

 
 
 
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