Creato da Nekrophiliac il 21/02/2005

DARK REALMS V2

So, I've decided to take my work back underground. To stop it falling into the wrong hands.

 

 

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Post N° 38

Post n°38 pubblicato il 30 Marzo 2005 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

DIMMU BORGIR: DEATH CULT ARMAGEDDON (2003)

… E sulla terra scese l’oscurità: Death Cult Armageddon è il secondo capitolo della terza era Dimmu Borgir, una band che, tra cambi di rotta forzati, evoluzioni stilistiche e ripetuti avvicendamenti tra i suoi membri, ha saputo cambiar pelle in modo netto nel corso della sua carriera e che anche stavolta non si dimentica le tre fatidiche parole, ma se non altro, in questo caso, il titolo ha un senso e una correlazione con la musica. Un nuovo maestoso capitolo per i norvegesi, che si presentano sul mercato con una line-up immutata e con quello che senza dubbio rappresenta uno dei top qualitativi della loro discografia. Che dire del nuovo album? La prima nota positiva è la catalizzazione e rivisitazione di alcuni modi di scrivere riffs propri delle band che negli ultimi anni hanno tentato di portare il black metal verso derive più modernistiche: emblematici gli arrangiamenti "rubati" ai Satyricon di Nemesis Divina (1996) o agli Emperor di Prometheus: The Discipline Of Fire And Demise (2001), per non parlare degli amici e rivali di sempre, i Kovenant di Nexus Polaris (1999). La seconda sorpresa è la capacità, che erroneamente pensavo ormai fosse scomparsa per sempre, della band di comporre pezzi ancora emozionanti e malinconici, al di là dei suoni moderni e delle evidenti esagerazioni tecnicistiche, accompagnati dalle atmosfere apocalittiche e inquietanti create da archi e ottoni. Le ottime idee che la band aveva lasciato intravedere nel precedente Puritanical euphoric misantropia (2001) sono qui elaborate con una maturità ancora maggiore ed usufruiscono anche di una produzione che, relativamente al genere suonato, non teme confronto. La musica che oggi i Dimmu Borgir ci propongono è ancora discretamente legata alle radici black metal ma, proprio come sul precedente lavoro, non disdegna puntate nel metal classico e nel thrash, con un'aggiunta di varietà di arrangiamenti assai ricercata. Grazie al preziosissimo aiuto dei 46 componenti della filarmonica di Praga le parti orchestrali appaiono questa volta molto più complesse, assumendo in molti episodi toni quasi da colonna sonora e facendo sì che anche i brani più tirati grondino di emotività e melodie orrorifiche. Non so il perché, ma ogni album dei Dimmu Borgir è avvolto da qualcosa di magico. Un occhio alla copertina, attenzione ai primi suoni che giungono all’orecchio ed ecco palesarsi senza indugi il senso di inquietudine che pervaderà in toto l’album.

Sembra di vedere, oltre che sentire, il contrarsi di questo “occhio” solidalmente ai suoi ingranaggi in movimento, così simile ad un rintocco di campane, un ticchettare di un orologio simulacro dello scorrere del tempo nel conto alla rovescia verso l’inesorabile fine: sensazione che a più riprese viene richiamata nell’opener Allegiance. Fin da subito si sente la diversa struttura orchestrale rispetto al recente passato e si inizia ad assaporare il nuovo flavour così solenne, epico, operistico - cinematografico ed estremamente oscuro. Dopo un breve ed ingannevole intro industrial, la spettrale Allegiance deflagra in tutta la violenza colpendo subito l’ascoltatore con un devastante e debordante Nick Barker alle pelli, mentre durante l’ariosa e marziale parte centrale molto heavy, Shagrath dimostra di possedere un cantato come sempre vario ed efficace, mentre il brano si districa tra parti melodiche e altre brutali. Piena conferma che in casa Dimmu Borgir nulla sia mutato, tranne che per l’adozione di un sound più quadrato, massiccio e meno affidato alle tastiere tranne che per alcuni inserti sinfonici. Allegiance è solo il preludio. La seconda traccia è un'imponente cavalcata che riassume alla perfezione la caratura di tale album: l’inquietante Progenies Of The Great Apocalypse si dilata solennemente con un attacco maestoso guidato dall’orchestra sinfonica che si interseca alla perfezione con le pesantissime chitarre del duo Galder/Silenoz e le tastiere di Mustis, fino allo spettacolare inserto vocale pulito di un epico Vortex, l’asso nella manica. Dopo un intermezzo sinfonico, una ripartenza violentissima ci porta alla chiusura della canzone. Una sorta di gioiellino ricercato, levigato e lavorato con sapienza, insomma, vanta melodie orchestrali semplicemente fantastiche, archi e fiati salutano l’alba dell’apocalisse in un vortice di sensazioni ed atmosfere che vanno dall’inquietudine, alla sofferenza, alla pace  e al riesplodere della brutalità e ad essi si aggiunge l’ugola malata del gradito ospite Abbath dei defunti Immortal, padrino d’eccezione che valorizza un brano di per sé impressionante, senza ombra di dubbio, il miglior del lotto. Davvero da brividi.

L'album si assesta sempre su coordinate violente, ma a differenza del predecessore contiene diverse variazioni d'atmosfera, momenti in cui non è il binomio velocità/melodia a farla da unico padrone e qui bisogna, per forza, apprezzare i singoli arrangiamenti dei pezzi come Lepers Among Us, che con un andamento tra il thrash e l'industrial, è un brano leggermente più sperimentale, dove tra break apocalittici, intuizioni sonore ossessive e percussioni tritatutto, fanno capolino melodie trascinanti e potenti, con il risultato di un feeling epico che mancava dai tempi della release di Spiritual Black Dimensions (1999). Lascia spiazzati. Melodie che convincono anche in Vredesbyrd, dove l’amosfera generale si fa davvero sinistra e opprimente per un pezzo ineccepibile.

Una traccia, come avrete intuito, cantata in lingua madre, dove ritorna l’orchestra in maniera quasi prepotente che riporta l’impasto su sonorità più lievi, ponendo un sigillo di qualità sul disco. Ottima anche l’impattante For The World To Dictate Our Death che è, invece, una sorta di un raffinato mid-tempo accelerato, gonfiato dalle tastiere, ma dotato di un attacco brutale e notevole per l’utilizzo di alcune vocals filtrate, tra cui frammenti dei discorsi di Adolf Hitler. Sorprendente è la prova di tutta la band, che dimostra di trovarsi completamente a proprio agio in ogni situazione, sia quando le ritmiche si fanno elevate e i riffs più serrati sia quando sono l'orchestra e le melodie ad essere protagoniste, regalando sempre un piacevole senso di scorrevolezza nonostante la complessità della composizione ed esaltandosi nel trascinante finale in crescendo. La sesta traccia presenta ancora una volta un esperimento da parte del gruppo, cosi come era stato per Puritania (da Puritanicaal Euphoric Misanthropia, 2001): ma se in quest'ultima la band aveva flirtato con sonorita più industriali, in Blood Hunger Doctrine si assiste invece ad un'accattivante fusione tra le cadenzate parti orchestrali e quelle aggressive del gruppo, per un risultato evocativo e tragico, contenente la più bella linea melodica di tutto il disco, dove il ruolo del mattatore è giocato da un Mustis in grande spolvero con un affascinante partitura di pianoforte. Il finale, piuttosto, è inquietantemente tranquillo. Nonostante sia un pezzo molto fuori dagli schemi, è la vera sorpresa, il secondo gioiellino. Sinonimo di mostruoso salto qualitativo. Può destare perplessità Allehelgens Død I Helveds Rike, che parte con un riff in tempo dispari per poi divenire una marcia black pressoché perfetta, resa ancor più maligna dal duetto in norvegese di Shagrath e Vortex e da giochi sinfonici da vera soundtrack da film dell’orrore. Tuttavia, pezzi come questo sembrano volersi ricollegare con i fasti del passato, ampliando allo stesso tempo l'uso delle componenti sinfoniche. Altro masterpiece è Cataclysm Children, furente traccia dal sapore vagamente thrash, con tastiere di derivazione Enthrone Darkness Triumphant (1997), supportate da quella precisa mitragliatrice umana di nome Nick Barker che permetterebbe a chiunque di poter suonare a quelle velocità. Shagrath è sempre presente con la sua voce graffiante ed aggressiva, a tratti pulita, perfettamente allineata con la musica violenta e teatrale dei Dimmu Borgir. La successiva Eradication Instincts Defined riprende la formula sonora della seconda traccia, assestandosi sugli stessi livelli qualitativi. Punta fortemente a creare un mood generale opprimente senza accelerare troppo i tempi di batteria in simbiosi alle evocative parti affidate alla solita orchestra ad arricchire e a rendere più reale un sound già di per sé ridondante, senza per questo portarlo al kitch tipico delle miriadi di cloni di questo tipo di suono, ma elevandosi al livello delle migliori soundtrack, infatti, sono stupende le sue atmosfere fiabesche al di sopra delle quali aleggia un'ombra di malvagità. Si ritorna a distruggere le barriere del suono con Unorthodox Manifesto, che al seguito di una cupa e lunga introduzione militaresca consegna un brano quasi thrash, non fosse per le solite sferzate violente di estrazione black, parti sinfoniche e alcuni flirt moderni, insomma, un po’ la summa dell’intero lavoro. La velocità non prende il sopravvento sulla varietà, rendendo Unorthodox Manifesto un diretto collegamento con scenari tratti dalla seconda guerra mondiale. L’orchestra introduce, per un’ultima volta, un affresco sonoro di pura classe in Heavenly Perverse, a sostegno delle rasoiate delle chitarre di Galder e Silenoz e le ritmiche deflagranti di Nick Barker. In conclusione, siamo in presenza di un disco controverso, osannato e complesso. Cosa altro aggiungere? È giusto sottolineare che forse necessità di più ascolti per poterlo apprezzare e capirlo fino in fondo, per il resto… lasciatevi inghiottire da questa spirale e dal suo vorticare verso l’abisso.

 
 
 
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