Creato da Nekrophiliac il 21/02/2005

DARK REALMS V2

So, I've decided to take my work back underground. To stop it falling into the wrong hands.

 

 

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Post n°89 pubblicato il 11 Novembre 2006 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

DEPECHE MODE: ULTRA (1997)

Overdose di successo. I Depeche Mode lo intuirono a metà degli anni ’90: il Devotional Tour, vale a dire, quindici mesi ininterrotti di concerti intorno all’intero globo che, altro non fecero che, far piombare il quartetto nella più nera delle crisi. Infatti, proprio al termine del Devotional Tour, il batterista Alan Wilder decise di lasciare i suoi compagni e mollare tutto a fronte di una molteplicità di circostanze – oramai insostenibili – determinatesi all’interno del gruppo: Dave Gahan, eccentrico front-man e implacabile trascinatore delle folle, letteralmente, “dipende” dell’eroina. Martin Gore, spirito ispiratore dei Depeche Mode, nonché il creativo autore dei testi, in occasione di ogni concerto, un attimo prima di salire sul palco, “necessita” di alcool al fine di placare una delle sue numerose crisi di panico: è persuaso dai cosiddetti “fumi dell’alcool”, unico rimedio per ricordare la sconfinata successione di note da suonare. Andrew Fletcher, a conti fatti, “manager” della band, per di più, “bilancino” alle presunte, o tali, bizzarre stravaganze di Dave Gahan e Martin Gore, è affetto da un forte esaurimento nervoso che non ha rimedio alcuno. Basti pensare che al termine di ogni show, i quattro viaggiavano separatamente per raggiungere la prossima città da sedurre per una manciata di ore a notte. Dave Gahan, fra tutti, divenne sempre più “intrattabile”, in preda a continui sbalzi d’umore, che lo spinsero ad urlare persino, alla notizia dell’avvenuta morte del leader dei Nirvana, Kurt Cobain: « Kurt mi ha fregato l’idea! ». In seguito, alla domanda di un giornalista, « Hai mai provato veramente paura? », Dave Gahan raccontò di quando, completamente “assuefatto” all’eroina, adagiato sul sofà nel salotto di alcuni amici, il loro bambino, avvicinatosi, gli chiese chi mai fosse: il cantante si rese conto di non saper cosa e come rispondere all’innocente domanda del piccolo e fu in quel momento che avvertì un profondo senso di paura per il suo stesso essere. Da lì a breve, si susseguirono reiterati tentativi di suicidio, le abnormi visioni e gli schizofrenici deliri, il soprannome “Il Gatto” – dato che sembrasse avere nove e più vite – e gli ininterrotti ricoveri in specifiche cliniche per la disintossicazione senza mai conseguire risultati, fino al vero e proprio punto di non ritorno: 28 maggio 1996. In un hotel di Los Angeles, dove si era trasferito dopo la fine del suo secondo matrimonio, sbattuto sul letto in tale lussuosa stanza, Dave Gahan fu volontaria vittima di un’overdose da eroina, divenendo “clinicamente” morto per tre lunghi minuti. Dimesso dall’ospedale, fu arrestato per tentato suicidio, in quanto esso costituisce un reato in California e fu, altresì, costretto, sempre per legge, a disintossicarsi del tutto, restando sotto controllo medico per alcuni anni, il che gli permise di “ricominciare” a vivere per l’ennesima volta, rigettando, per sua stessa ammissione, le malsane “vecchie abitudini” e, anzi, tenendosi alla larga da situazioni che potevano indurlo a tornare sui propri passi. Piuttosto, da ciò Ultra prende, a sua volta, linfa vitale, poiché a distanza di un anno dall’aver toccato il fondo della fossa con la suola delle “proprie scarpe”, Dave Gahan raggiungerà gli storici “reduci”, Martin Gore ed Andrew Fletcher in studio. Ultra divenne così l’album del ritorno dall’oblio.

Una seconda e introspettiva giovinezza. Sebbene orfani di Alan Wilder, dedicatosi per intero ai Recoil, il virtuoso e concreto Ultra non tradì le attese e segnò il futuro della band, forte di una rinnovata volontà, spiazzando pubblico e critica con tale undicesimo capitolo di una carriera nuovamente in ascesa, ennesima consacrazione della band, per niente inferiore ai monumentali e magniloquenti predecessori, cioè il capolavoro assoluto Violator (1990) e la “devastante”, sotto qualsiasi profilo, svolta rock di Songs Of Faith And Devotion (1993). Ultra venne, dunque, salutato quale un ritorno ai massicci fasti, propriamente elettronici, del passato, come sempre avviene in occasione della pubblicazione di nuovi dischi di band storiche, tuttavia, in realtà di “vecchio” c'era soltanto l’essere immateriale, la forma avvolgente, il madido sudore, e la presenza di un noto “marchio di fabbrica”, che faceva palese l’immortalità dell’ultraterreno gruppo che aveva urgenza di ri-comunicare le proprie storie con toni sobri e placidi, quasi romantici. Ed è così che Ultra si contraddistingue per essere un album posato, seppur cupo e notturno, certamente meditativo, volto all'essenza e lontano da un discorso moralmente estetico. Inaspettatamente, il disco non è anonimo come, pessimisticamente, ci si poteva attendere a seguito della caduta nel baratro del quartetto. Al contrario, le magnifiche ed espressive liriche di Martin Gore si coniugano con un sound ruvido, maturo e più minimalista, decisamente lontano dal pop scanzonato degli esordi, che esprime disparate contaminazioni musicali, fino alle divagazioni “dance”.

« Do you mean this horny creep? ». Tali sono le prime parole che Dave Gahan pronunciò al risveglio dal coma e sono le medesime che aprono Barrel Of A Gun, primo singolo e prima traccia di Ultra. È l'unico trait d'union con Songs Of Faith And Devotion (1993), con distorsioni elettriche accompagnate ad effetti elettronici. Non a caso, è il pezzo più disperato, più marcio e frenetico, che sembra tratto dalla mente di un Trent Reznor, coadiuvato, tra l’altro, da una claustrofobica ed inquietante clip in bianco e nero, ove Dave Gahan è alle prese con la sua incoscienza da eroina, tra l’ossessivo “rigirarsi” nel letto, passando per le bolle di sapone, al muoversi confuso, praticamente “allucinato”, tra mille ed uno viottoli, che, loro malgrado, non conducono alla già scritta fine, alla canna della pistola.

Nera è la notte, così come funerea è la morte, bensì rosso è l’amore di The Love Thieves, delicato, leggero, seppur rapportato al dilaniante malumore e al clima di profonda sfiducia che gravita entro le materiali carcasse, così come attorno al testo – ove non mancano riferimenti “cristiani” – che fa pronto appello a uno o più riferimenti spirituali, possibilmente ultraterreni, che confortino l’animo umano, distratto, turbato, e perché no, drogato. Ed ecco qui una canzone, proveniente dal lato sbagliato della città, o una pagina del palcoscenico più vuoto. Un suono solitario che immobilizza come una gabbia, o come la più pesante croce mai costruita. Un’ancorata casa oppure la più mortale trappola mai tesa. Home, terzo singolo estratto da Ultra, è affascinante e struggente, una sorta di spirale di emozioni e sentimenti che si dipana verso il blu celeste, indefinibile altezza, che contraddistingue un contrasto tra ciò che è e ciò che sarà. Vita e morte. Città terrena e Città di Dio. Timida consapevolezza, l’appartenenza al genere umano, materialismo e non, tutto sembra essere circoscritto in quanto immane dolore terreno, smascherato dall’intervento “provvidenziale” di un romantico Dio, guidato dalla impareggiabile voce di Martin Gore: And I thank you [E ti ringrazio]. For bringing me here [Per avermi portato qui]. For showing me home [Per avermi mostrato la mia casa]. For singing these tears [Per aver cantato queste lacrime]. Finally I've found [Finalmente ho scoperto]. That I belong [Che ho una casa]. Feels like home [Mi sento come a casa]. I should have known [Avrei dovuto saperlo]. From my first breath [Fin dal mio primo respiro]. La clip di Home, diretta da Steve Green, è piangente ed adatto alle circostanze.

La ricerca continua di un quid, da casa a casa, abitate tutte da assenti, alienati, annoiati, anziani. La medesima interpretazione dello stesso Martin Gore è, a dir poco, straziante, rubando la scena agli altri membri del gruppo, intenti a riflettere sulle proprie condizioni, confusi sul perché del cielo stellato. Ove tutto, presumibilmente, è già scritto. Gli dei l’hanno decretato e nessuno ne è esente, né può nascondersi al già assegnato destino, perciò: I'll be fine [Starò bene]. I'll be waiting patiently [Attenderò pazientemente]. Till you see the signs [Finché non vedrai i segni]. And come running to my open arms [E arriverai correndo tra le mie braccia aperte]. When will you realise? [Quando lo capirai?]. Do we have to wait till our worlds collide? [Dobbiamo aspettare che i nostri mondi si scontrino?]. Open up your eyes [Apri gli occhi]. You can't turn back the tide [Non puoi capovolgere la marea]. La ritmata It's No Good, secondo singolo estratto da Ultra, è ironia e vanità, apparenza e narcisismo, vacuità delle cose ed amara retorica del loro andazzo. La clip, kitch come non mai, ricalca tutto ciò, con i tre che si mettono in gioco, fingendo di essere l’ammiccante gruppo, protagonista per una serata allo sgangherato Ultra Hotel, tra un bicchiere di troppo e ballerine d’altri tempi.

La traccia successiva è Uselink, brevissimo intermezzo strumentale, inebriante e flessibile, che introduce l’aggressivo spleen di Useless, quarto ed ultimo singolo estratto dal fortunato album, un aspro pezzo rock caratterizzato da esemplari chitarre distorte. Auto-analisi ed esame di coscienza, inutili convinzioni che maturano all’interno e altrettante speranze riposte all’esterno. In assenza di orologi che scandiscano il rallentare del tempo, in assenza di spazio, Useless, come una voce in una vuota, riecheggia sorda, strozzata, nella stanca e ferita mente: All my useless advice [Tutti i miei consigli inutili]. All my hanging around [Tutto il mio girarti attorno]. All your cutting down to size [Tutto il tuo minimizzare]. All my bringing you down [Tutto il mio demoralizzarti]. All your stupid ideals [Tutti i tuoi stupidi ideali]. You've got your head in the clouds [Hai la testa tra le nuvole]. You should see how it feels [Dovresti vedere come ci si sente]. With your feet on the ground [Con i piedi per terra]. È una sorta di "dead zone". Un’area brulla, seppur enfatica, al pari della clip, basata su un’unica inquadratura, mentre, soltanto nel finale, si scoprirà a chi si rivolge Dave Gahan: una donna, ancora una volta.

Plauso per Anton Corbjin, autore di tre dei quattro video di Ultra, sempre originali e quanto mai misteriosi. Spazio alla nostalgica e minimale Sister Of Night – fondata sulla contrapposizione della tenue voce di Dave Gahan agli sdolcinati momenti elettronici – canzone sul senso d’abbandono nel mondo, la innata solitudine di ognuno di noi, quel sentire comune di non farcela, di non bastare a sé stessi. Ciò di cui siamo alla ricerca è un abbraccio, quando il rassicurare della notte, vago, evanescente non è che un nuovo raffinato interludio: Jazz Thieves. Le atmosfere di Ultra sono paragonabili a quelle di una grande metropoli a notte fonda: desolate, a tratti inquietanti, sebbene colme di fascino. Il gruppo è perfettamente riuscito a “musicare” il proprio periodo buio. Le strumentali Uselink ed, appunto, The Jazz Thieves sono quelle che rendono al meglio questa atmosfera, ma Ultra non “finisce” qui. Freestate scorre quieta e piacevolmente fredda come l'acqua di un rigagnolo. In scia a Home ed Useless, prosegue il conciliabolo inconscio, e affrancazione, riscatto emotivo, scoraggiamento, risultano essere le parole chiave. La susseguente The Bottom Line vede, nuovamente, Martin Gore, alla voce, in stato di grazia nel farla sgorgare più rotonda, fremente e palpitante che mai, all’interno di un brano solido e corposo, che rimanda al consueto reiterarsi delle circostanze naturali e, tanto più, quotidiane. Tocca ad Insight gettare l'ennesimo sguardo entro l’anima più profonda ed intensa dell’essere umano, da cui emerge che è l’amore il motore dell’universo, senza se e senza ma. Sembrerebbe la naturale conclusione con una tale sincera traccia, e invece, c’è ancora tempo e soprattutto spazio per una breve traccia strumentale, fumosa e morbida, ennesima riprova della maturità e della saggezza dei Depeche Mode: Junior Painkiller - versione ridotta di un b-side del singolo di Barrel Of A Gun che aveva anticipato l’uscita dell’album – che ha il merito di mantenere costane l’oscuro alone che pervade l’intero album, ora rischiarato dalle prime luci dell’alba, le medesime rinvenibili all’uscita di un lungo tunnel che sembrava essere un vicolo cieco. Dunque, nessuna canzone spicca, in maniera chissà quanto evidente, sulle altre, in una sorta di uniformità di livello alto che rende Ultra incredibilmente continuo, senza fratture e, a conti fatti, un'esperienza organica, seppur sotterranea, seppur sussurrata. È stata la rinascita dei Depeche Mode. Immensi.

 
 
 
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