Creato da Nekrophiliac il 21/02/2005

DARK REALMS V2

So, I've decided to take my work back underground. To stop it falling into the wrong hands.

 

 

« Messaggio #91Messaggio #93 »

Post n°92 pubblicato il 28 Febbraio 2007 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

CHEMICAL BROTHERS: COME WITH US (2002)

Fino in fondo. L’ebbrezza causata dall’eccessivo uso di ecstasy e il ricorso a sottofondi acid house, da Manchester (al tempo “Madchester”), tra gli anni Ottanta e Novanta, si diffusero a macchia d’olio, e ben oltre i confini isolani del Regno Unito. Ed Simons e Tom Rowlands erano e risultano ancora esser i figli naturali di quel tempo. Infatti, i fratelli chimici non potevano che nascere artisticamente nella caldissima seconda Summer Of Love, al tempo dei primi “rave parties”. Quando i britannici New Order fecero propria la lezione dei teutonici Kraftwerk, filtrandola attraverso la house che arrivava dall’America, finendo per influenzare gli stessi musicisti e dj statunitensi di Detroit; quando il rock britannico veniva infettato dal virus della nascente club culture, con effetti sorprendenti, i due erano lì a prendere un bel po’ d’appunti: pronti a sonorizzare e sconvolgere l’incombente ultimo decennio dello scorso secolo. E proprio così agirono i Chemical Brothers: uno, due, tre album in sei anni, lanciando sul mercato una vera e propria “griffe”, indelebile parte della storia della musica, elettronica e non. Con Surrender (1999), trainato da singoli quali Hey Boy, Hey Girl Let Forever Be e Out Of Control, raggiunsero il loro apice creativo: nient’altro che la sintesi perfetta tra beats chimici, visioni psichedeliche e una matura sensibilità pop. Il successivo Come With Us ripropone la formula collaudata e vincente del suo predecessore. Il perché è semplice: Tom Rowland ed Ed Simons possedevano e possiedono il dono di maneggiare la primordiale materia tecnologica con sorprendente naturalezza, piegandola ora al volere del classico big-beat – caro al suo massimo fautore, cioè Fatboy Slim – ora ai dettami del chill-out più aggraziato, ora strizzando l’occhio agli appassionati di rock. Non c’è da stupirsi, quindi, se Come With Us conquista di primo acchito e si lascia ascoltare e riascoltare con crescente soddisfazione. Dieci brani per quasi un'ora di musica, caratterizzata dalla consueta cura maniacale per ogni singolo suono, ogni oscuro campionamento, ogni minimo effetto. Eppure, è passata molta acqua sotto i ponti dalle prime mosse del chimico duo, dai promettenti esordi fino al successo e alla consacrazione definitiva. Conservare ancora spontanea energia è una grande dote, proprio come saper ricorrere all'acida effervescenza a partire da un’ispirazione troppo omogenea. Sarebbe facilmente alla loro portata costruire album comunque più organici, maggiormente ricercati e solidi nell'impianto dei suoni presi a modello, ma non è questa la loro intenzione. I Chemical Brothers, proprio in ragione di ciò, possono vantarsi di aver davvero influenzato la musica elettronica moderna, grazie alla loro alchimia di suoni duri e soffici, sognanti ed ipnotici. Uno stile che pervade anche tale lavoro in esame, impreziosito dalla partecipazione di vocalist d’occasione quali Beth Orthon dei Portishead e di Richard Ashcroft dei Verve.

Al limite dell’onirico e del surreale. Come With Us è un album decisamente "dance" che ugualmente non rinuncia a raccogliere vere e proprie "canzoni", piuttosto che pure e semplici "tracce". Ciò che è ben "visibile" in ciascuno dei brani che compongono l'album, è una ricerca costante della melodia più pura, sebbene generata da strumenti elettronici, anzi arricchita in modo tale da raggiungere vette insondabili per gli strumenti musicali tradizionali. Bisogna dare atto ai Chemical Brothers, che aggiungono quel “quid” in più alle melodie, non vivendo per niente di rendita, come potrebbe essere normale per coloro i quali hanno da tempo raggiunto importanti vette di suono. Si spingono verso l’infinito e oltre. Tom Rowlands e Ed Simons si sono riscoperti inguaribili innamorati della dance tout court, dei suoni sintetici e della cassa in quarti di derivazione house. L'album è meno ambizioso di quanto si possa pensare, poiché lascia da parte i richiami alla musica contemporanea, e bensì vira deciso verso la dance più audace, attraverso un massiccio breakbeat: Come With Us è molto meno sfaccettato di Surrender, decisamente psichedelico. Forse l’unico difetto imputabile è la mancanza di singoli di vero impatto. L’impressione è che la produzione sia sostenuta da uno spirito contemporaneamente iconoclasta e tradizionalista nella continua proposizione di tutta una serie di matrici compositive che coprono storicamente – sia pure con estemporanee citazioni tra campioni e campionatori – l’intero arco delle formule inventate nel campo della musica elettronica degli anni Novanta, tanto sul versante più popolare, che quello propriamente underground. È proprio in questa singolare tensione tra due modi di intendere la fruizione della musica dance – che riflette a pieno il suo duplice scopo cioè radunare le folle nei club e dar modo di far vibrare le mura casalinghe di ognuno di noi – in questa ambiguità irrisolta, che gli odierni Chemical Brothers hanno finito per esser snobbati dagli intransigenti puristi, nonché datati, sostenitori, affezionati, semmai, maggiormente ai loro primi spartani lavori. Come With Us, in tutto questo, non ha deluso le aspettative dei normali ascoltatori di musica, dance e non, desiderosi entrambi di ritrovare all’interno dell’atmosfere di taluni pezzi progressive quei frenetici impulsi e quellle fredde sferragliate di elettronici intrichi in pieno stile tedesco, ed anche il giusto feeling dell’acid house dello scorso decennio o il diletto oramai perso della nobile arte dello scratch, proprio come una manciata di scampoli di pura armonia.

Sublime bellezza elettrica. L’apertura, di prepotenza, spetta alla title-track: la lampante prolusione di scale di Come With Us è un invito a seguitare nell’ascolto dei Chemical Brothers, ed inizialmente è un sound suggestivo a propagarsi nello spazio, sospinto da archi sintetici e da una profonda voce, che precedono l’urto usuale del drumbeat miscelato a riverberi psichedelici, vero marchio di fabbrica della ditta. Non c’è niente di meglio per far sì che l’ascoltatore si sintonizzi sulle giuste frequenze. Siamo poi in presenza di uno degli episodi più riusciti del disco, cioè il primo singolo It Began In Afrika, brano dal martellante battito tribale, ulteriormente ritmato da un campionamento che non passa inosservato. I Chemical Brothers hanno qui preso in prestito il cut-up tra I Believe In Miracles delle Jackson Sisters e Cross The Tracks di Maceo & The Macks, remixato da Norman Cook, alias Fatboy Slim, nel 1998 per la casa discografica Urban. E proprio questo sapiente mix di "autentico" e "sintetico" costituisce sicuramente una delle cifre stilistiche più riconoscibili del duo, che non ha mai disdegnato brevi e fugaci flirt con sonorità e atmosfere rock. Con Galaxy Bounce è la house dal basso elettro-funk ad essere riportata fortemente in auge: ottima per incendiare l’aria in affollate piste da ballo, lanciando nella mischia qualcosa della storica hit Pump Up The Volume dei M/A/R/R/S. Implacabile. Tirando le somme, le prime tre tracce, pur con stili ritmici leggermente diversi, rispondo alla medesima logica: alla base giace l’immancabile ed implacabile big beat su cui si innestano, con disinvoltura, techno, acid house e funk. Dunque, tali tracce non servono nient’altro che a far da trampolino di lancio per Star Guitar. Il capolavoro.

Ciò che appare in tutta evidenza è la fortissima interdipendenza che sussiste tra il brano e il videoclip itinerante che lo accompagna: il filmato in soggettiva del viaggiatore che scruta il panorama dai finestrini del treno in viaggio è montato in maniera tale da sublimare la struttura del pezzo, articolata sull'alternanza di due frasi di tastiera in otto battute ed arricchita da svariati e multiformi inserti strumentali in taglio ed in fade. La stessa base ritmica anticipata e raddoppiata con battuta di rullante, presente nell'introduzione e dopo il break, evoca il tipico rumore prodotto dall'urto delle ruote sui binari. L’apparente freddezza del secondo singolo estratto da Come With Us – che gode comunque di proporzioni interne molto ben calibrate – è ampiamente compensata da una tessitura ritmica assai elaborata, sicuramente celebrale, seppur indubbiamente ballabile. E, mentre Star Guitar ammalia sin da subito, i beat psichedelici di Hoops tolgono il respiro, grazie ai suoni emanati da finissimi strumenti a corda e da una specie di “mantra” che sembra non aver fine. Il mood di Hoops è dannatamente orientaleggiante ed è seguito a ruota da My Elastic Eye, un motivo che fa l’eco alle sfumature di alcune produzioni degli anni Settanta – Goblin in testa – e che combina un loop, appunto, dal vago sapore cinematografico ad ossessive percussioni, puntellate da solito sintetizzatore analogico. Se dovesse esser mosso un appunto a Come With Us, sarebbe soltanto quello inerente allo schema costruttivo della sequenza dei pezzi, praticamente simile a quello dei precedenti e fortunati lavori, laddove ad un inizio fulminante corrisponde un cadenzato calo di velocità per giungere ad una parte decisamente più ricca di melodia e di atmosfere evocative che, supportata da ritmiche house, funk e breakbeat, punta a scardinare gli ultimi residui di inesplorata psichedelia, proprio come in un brano quali il gradevole The State We’re In, cantato con trascinante enfasi dalla gentil voce di Beth Orton, prima che l’audace sound elettronico riscaldi nuovamente il corpo e l’anima per un ondeggiante viaggio in… Denmark. Esercitazione di stile in chiave disco-music? Convenzionale bignami di europea techno ad uso e consumo delle giovani leve armate di piatti, mixer e drum machine? Se non altro, brani come Denmark solari e movimentati trasmettono il piacere del suono e del ritmo, anche distorto. I Chemical Brothers, inoltre, armati di innumerevoli altri elementi creativi come certi loop o distorsioni che l’ascoltatore non si aspetta di certo, non fanno altro che “plasmare” qualcosa di sempre nuovo, riuscendo persino a spaziare nella moltitudine dei generi musicali esistenti e naturalmente classificati dall'uomo per dare alla luce altri sottogeneri, magari non facilmente classificabili, ciò nonostante veri, reali. Denmark non esprime la trainante forza della parola, bensì ciò che essa di resta, vale a dire, solo musica tra percussioni brasiliane. Sulla stessa linea d'onda Pioneer Skies si snoda su una elaborata trama, a partire da un arpeggio di clavicembalo sintetico che “girando su se stesso”, rievoca, nuovamente, la bizzarria del rock progressive degli ultimi anni Settanta. In chiusura, The Test, dal videoclip tra bianche balene e rosse meduse, ripiombando di colpo tra spiagge da favola e discoteche caotiche.

All’interno di The Test – terzo ed ultimo singolo estratto dall’album in questione – il redivivo ed ormai maturo Richard Ashcroft si destreggia egregiamente all'interno di un giardino di suoni e colori vivaci e a tratti dalle sfumature rock. La mirabile voglia di sperimentare e stupire certo non manca, soprattutto se The Test è la rielaborazione di Aerolit di Czeslaw Niemen. In conclusione, Tom Rowlands e Ed Simons proseguono la loro trasformazione da semplici dj a compositori d'elettronica d’alta classe, mantenendosi nell’invidiabile posizione di essere allo stesso tempo band di successo mondiale e fenomeno di culto per gli adepti della sperimentazione vera e propria che li condurrà poi al maggior consistente successo conseguito con la pubblicazione Push The Button (2005). Come With Us resta, suo malgrado, un disco assolutamente da non perdere. Sottovalutato.

 
 
 
Vai alla Home Page del blog

AREA PERSONALE

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Aprile 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30          
 
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963