Creato da Nekrophiliac il 21/02/2005

DARK REALMS V2

So, I've decided to take my work back underground. To stop it falling into the wrong hands.

 

 

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Post N° 52

Post n°52 pubblicato il 29 Maggio 2005 da Nekrophiliac
 
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BATHORY - BLOOD FIRE DEATH (1988)

Bathory, un nome che richiama una truce leggenda, quella di una donna, pazza, che era solita fare il bagno nel sangue di giovani vergini per mantenere integra la propria bellezza. È opportuno spendere due parole in più sull’etimologia del nome del gruppo, derivante da Erzebet Bathory nata il 7 agosto 1560, figlia del Barone e della Baronessa Gorge e Anna Bathory, sovrani di Ungheria. Fu una figura molto contorta e grottesca e rimase alla storia come la “Blood Countess” e morì all’età di 54 anni il 21 agosto 1614 ricordata essere una delle più belle donne dell’intera Europa. Nonostante le vicende storiche, il nome richiama alla mente un’ulteriore leggenda, vale a dire, quella del gruppo che ha dato inizio sia al movimento black che del viking metal scandinavo. Prima di Mayhem, Dimmu Borgir, Emperor, Marduk, Dark Funeral, Immortal e quant'altri c'erano loro, i Bathory. Mossi dalla mente di un solo uomo, Quorthon, al secolo Ace Börje Forsberg (17/02/1966 – 03/06/2004), che nel tempo rimase l'unico membro fisso della formazione, questa band ha praticamente dettato le regole su cui si sono poi mossi tutti i gruppi della scena underground nordica per almeno un decennio. Nati in Svezia nel lontano 1983, agli esordi, i Bathory erano un gruppo musicale svedese di heavy metal mitologico - guerresco (Bathory 1984 e The Return Of Darkness And Evil 1985), che solo nel 1987 con Under The Sign Of The Black Mark si diedero al black, decretandone la nascita, per poi mescolare nuovamente le carte e virare sul viking l’anno seguente. Dal 1988 al 1991, i Bathory realizzarono una straordinaria trilogia di “vichinghi” (capo)lavori: il disco qui esame, cioè Blood Fire Death (1988), Hammerheart (1990) e Twilight Of The Gods (1991), apprezzati da critica e pubblica. Dopo tali lavori e due raccolte dei loro successi e materiali inediti, Jubileum I e II (1992 e 1993), Quorthon e i suoi Bathory si dedicarono con poco successo ad altrettanti due esperimenti di thrash metal, Requiem (1994) ed Octagon (1995) per poi tornare ad eccellere in maniera improvvisa con una raccolta di canzoni escluse dai lavori precedenti che prende il nome di Blood On Ice (1996). Negli anni successivi la band ha pubblicato un'ulteriore raccolta, Jubileum III (1998) un ennesimo penoso album thrash, Destroyer Of Worlds (2001) ed infine Nordland (2002) e Nordland II (2003), ritenuti non proprio tra i loro migliori lavori. Questi restano anche forse gli ultimi della band dopo la morte del trentottenne Quorthon, anima della band. I Bathory sono e saranno sempre l’emblema, agli occhi di chi li conosce e ascolta, del gruppo che non suona semplicemente musica. Fra tutti, questo è un album particolare nella discografia della band svedese. Quarto in ordine cronologico, e completamente generato dalla mente di Quorthon, con questo disco avviene la svolta epica che nei precedenti tre album cantava di satanismo e mondo dell’occulto. Proprio qui i Bathory cominciano a sperimentare nuovi elementi, anche se, in realtà, la maggior parte dell'album è abbastanza ancorata allo stile passato. Si cominciano, però, a delineare quelle che sarebbero poi state le coordinate degli ultimi album della band, a partire dal successivo Hammerheart (1990), dove avviene il vero e proprio cambiamento, a Blood On Ice (1996), dove l'elemento epico prende definitivamente il sopravvento. Mostruosa summa dell'arte inimmaginabile di Quorthon, un disco simile rappresenta in un maledetto, piccolo lavoro tutta la monumentale montagna di musica che vive, si rannicchia e muore sotto l'ombra scura, torturata di un lavoro di visionaria bellezza e di atroce malinconia, un vero e proprio punto di svolta della storia della musica. È un lavoro superbo, incredibile, in cui l'arte di un piccolo uomo nato in un garage con una drum machine e un vecchio amplificatore esce allo scoperto, spiega le proprie ali demoniache e turbina in cielo ricoprendo ciclicamente con la propria ombra tutto ciò che è stato. Blood Fire Death con un tocco della mano sinistra distrugge il black metal, e con la mano destra crea il primissimo disco Viking Metal della storia della musica. Impossibile davvero rimanere insensibili di fronte a tanta magnificenza, a tanto epico, intelligente fervore. Era il 1988, e Quorthon si era stancato di celebrare la propria ribellione alla chiesa parlando di Satana, di caproni, di croci rovesciate. Insomma, di simboli cattolici. No, Quorthon decide di voltare la testa verso il proprio passato, e decide di umiliare la chiesa nel modo più onorevole possibile, ricacciando dall'oscurità della storia le proprie radici vichinghe, nordiche, di affrontare la "croce bianca" con lo sguardo fiero degli eserciti vichinghi, degli dei nordici, in un furore che attinge a piene mani dagli stilemi black impreziosendoli minuto dopo minuto di sfoghi epici, corali, densi di significato e di passione. Una distruzione senza respiro, senza toccare la parte buia della chiesa, perché schifato, inorridito, piuttosto guardandola negli occhi, finché non abbassa lo sguardo e non latra come un cane bastonato perché inorridito e deluso. << Denigrare il cristianesimo senza utilizzarne i mezzi >> fu uno dei punti saldi della sua produzione, tanto che questo trend proseguì anche in album apparentemente più moderati come Octagon (1995) e Nordland II (2003).

La firma indelebile di Quorthon è percepibile immediatamente con l'atmosferica intro, Oden's Ride Over Nordland, singolarissima rivisitazione di ‘O Fortuna del compositore classico Carl Orff. Non è che la calma prima della tempesta sonora. La grande pattuglia di Odino, al di sotto una maligna tastiera, galoppa incessante sulle terre nordiche a cavallo del suo Sleipnir, sguardo fiero verso il mare, mentre lentamente emerge una chitarra acustica, solida, pomposa, che si mischia al rumore degli zoccoli e una voce rassicurante introduce la violenta A Fine Day To Die, che naturalmente pesca a mani gonfie dal retaggio metal oscuro e greve dei primi tre album senza alcun filtro tra la corrente elettrica che dà vita agli strumenti fino alle orecchie dell'ascoltatore. La voce gutturale di Quorthon si manifesta qui pienamente, accompagnata dai duri riffs e dalla martellante batteria inframezzata dalle chitarre acustiche, il tutto per un vero gioiello “estremo”. Da queste due canzoni iniziale si nota come i Bathory comincino a mischiare elementi epici al proprio stile, che paga ancora un forte tributo al vecchio thrash. Infatti, si ode ancora il tipico "tu-pa-tu-pa" della batteria, assoli taglienti come lame di coltello e velocissimi, oggi del tutto spariti nel moderno black, il suono ruvido e sporco delle chitarre che creano riffs a volte semplici e di facile presa, a volte intricati e cattivissimi, delle vere e proprie mazzate sonore. E così che, dopo un inizio "tranquillo", ecco un immenso muro sonoro creato da canzoni quali The Golden Walls Of Heaven, Pace 'Till Death e Holocaust. Ritmiche forsennate, la batteria sembra impazzita e la voce di Quorthon e' cosi' maligna da mettere i brividi e assoli da paura. The Golden Walls Of Heaven è più pesante, più thrash, con assoli chitarristici di ottima fattura ed una batteria devastante che non ammette pause, insomma, un uragano metallico alla Slayer degli 80’s. Sulla stessa linea musicale di The Golden Walls Of Heaven si ripete Pace 'Till Death, natural evoluzione in chiave heavy della precedente frettolosa terza traccia. Inizia allora la lenta frattura della storia del metallo scandinavo, frattura che letteralmente esplode in maniera quasi doom con Holocaust, che rievoca la preparazione alla fine del mondo di esseri superbi, immaginari, battezzati nel fuoco e nel ghiaccio, che fuoriescono dal ventre della terra come le sue chitarre pompose, velocissime, dal basso violento, dalla voce urlata, maledetta, retaggio degli esordi dei Bathory. Man mano che il disco procede scorrevole è il black a cambiare spesso forma e assumere la grande forma del Viking, mentre Quorthon urla senza alcuna percezione melodica. Dopo queste tre botte in faccia ecco che ancora una volta si ritorna a sperimentare, la canzone For All Those Who Died ritorna a proporre il sound meno veloce e più epic di A fine day to die, con risultati sempre buoni. . Un ritmo più cadenzato e più "facile" segnano tale la bellissima traccia, in cui la primitiva violenza del cantato è solamente tenuta a bada da un giro di chitarra orecchiabile e spinto, che vorrebbe quasi coprire la vergogna del testo implicato dal cantato stesso, che denuncia le atrocità rigurgitanti dell'invasione e assorbimento cristiani nelle terre del nord, pure come la neve, e ora macchiate del bianco delle tonache, dal rosso del sangue e dal nero delle menzogne. Si prende fiato per una attimo ed ecco che Dies Irae irrompe prepotente. Ancora una volta velocità e cattiveria la fanno da padroni. Batteria sconquassata e chitarre heavy creano un tappeto ritmico allucinante che rispecchia bene il titolo della canzone. Il giorno dell’ira. Altro che Wolfang Amadeus Mozart! (personalmente, a me piace più la versione di Giuseppe Verdi) Tuttavia, all’improvviso, tutto il ritmo cambia, e frenando bruscamente, si fa ritorno nuovamente verso il modulo dell'epic. In ogni caso, c’'è un brano in questo disco che rappresenta degnamente l'intera summa dell'arte bathoriana e il testamento del grande genio di Quorton: la title-track. La maestosa Blood Fire Death è una singolare l'esplosione, il momento in cui la famosa frattura del metal giunge a compimento, spezzandosi di netto e introducendo una chitarra quasi acustica, e un coro spettrale, che rapisce l'ascoltatore ormai annichilito da tanto fasto e tanta potenza. Anche Quorthon sembra essersi accorto di aver cambiato qualcosa con questi cori, creando all'improvviso, in un suono, l’effettivo viking metal. Blood fire death non è nient’altro che l'apice del disco, una voce "più forte di ogni cosa", le chitarre in distorsione e in saturazione, più grandi dello spettro del mixer, incontrollabili, seguono i cori maestosi e travolgenti e le urla di Quorton, che a ogni grido sembra plasmare terre, pianeti e gli spiriti di ciò che una volta era, e che ora non è più. Il breve Outro strumentale si pone come egregia conclusione di un disco da avere a tutti i costi. In conclusione, posso affermare che è assai difficile segnalare ipotetici difetti, le canzoni sono assolutamente superlative e ben supportate da liriche epiche, la produzione è ruvida quanto basta e una speciale menzione va alla straordinaria copertina dell'album, una delle più belle di sempre, che consiste in un quadro, “La battaglia di Asgaard”, raffigurante il Valhalla ove risiede un esercito di dei. Pietra miliare.

 
 
 
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