Creato da Nekrophiliac il 21/02/2005

DARK REALMS V2

So, I've decided to take my work back underground. To stop it falling into the wrong hands.

 

 

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Post N° 71

Post n°71 pubblicato il 02 Novembre 2005 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

HIGH ON FIRE: BLESSED BLACK WINGS (2005)

Urla di dolore e di esaltazione. L’oscurità della notte, la cortina di fumo delle esplosioni. La battaglia è al culmine, è quel momento di stallo in cui la sorte sta per essere segnata. In un attimo, sarà vittoria o disfatta. Intanto, si danza attorno all’orlo del precipizio. La sfida per qualsiasi metal band o, meglio, per quelle metal band che non desiderano pascersi nei più tristi luoghi comuni, consiste sostanzialmente nel far coesistere modalità espressive aggressive e sintetiche per natura e velleità comunicative potenzialmente profonde senza ricorrere a soluzioni di maniera. In questo senso gli High On Fire sembrano aver trovato una formula miracolosa, che li rende capaci di fare un tutt'uno coerente di suggestioni epiche e cavalcate oniriche, doom e thrash, Venom e Slayer, riuscendo là dove in tanti falliscono. Blessed Black Wings è un album scuro ed implacabile, strepitosamente evocativo, difficile, scontroso, nichilista. Ridotte all'osso le reiterazioni proprie del doom ancora presenti nel precedente Surrounded By Thieves (2002), la band di Matt Pike (già mente degli Sleep, autori del mastodontico Jerusalem del 1999) sembra aver trovato la chiave di volta del proprio suono in quelle frequenti accelerazioni che rendono Blessed Black Wings tanto spigoloso. Psichedelia plumbea ed massiva in odore di Black Sabbath da un lato e inarrestabile aggressività dall'altro; quello che sembra essere un distillato perfetto di un modo tradizionale eppure personale di intendere il metal trova un'incarnazione concreta e sorprendentemente efficace nel nuovo lavoro degli High On Fire. Non è scomparsa l'inclinazione mistica già presente nei lavori degli Sleep e comune a tutti i progetti che vedono coinvolto Matt Pike; si è piuttosto ibridata con le strutture compatte ed impetuose di Blessed Black Wings, che accantona buona parte delle tendenze riflessive e reiterate in favore di un approccio più incisivo, sistematicamente violento, quasi ad incarnare quella trascendenza propria della battaglia che, in definitiva, rimane uno degli aspetti più complessi ed affascinanti del corollario concettuale da sempre associato al metallo nudo e crudo. Le vocals, poi, non fanno altro che accentuare questa sensazione di accerchiamento e rassegnazione di fronte ad una creatura troppo grande per poter essere domata, regalando momenti di pura estasi di fronte della svalutazione della realtà con cui vengono lacerate le proprie corde vocali e mandati a quel paese tutti i propositi del buon canto. La produzione poi, a cura di Steve Albini, è di quelle col botto: talmente rumorosa e deragliante che vi ritroverete ad abbassare continuamente il volume del vostro fidato stereo, tanto è il fragore che uscirà dalle sue casse. Farà parlare di se per molto tempo, questo Blessed Black Wings, che concretizza al meglio il ritorno nel nero crepuscolo degli High On Fire.

L’apertura è quella di un drum-beat tribale che evoca il finale di Surrounded by Thieves (2002). Poi Matt Pike fa il suo ingresso in scena con un riff violentissimo che trasforma immediatamente Devilution (click) nel primo, annientante atto di Blessed Black Wings. Una cavalcata annichilente e inarrestabile: semplicemente fenomenale. Retorico, dilungarsi.

Il desiderio di suonare nel modo più stritolante e sporco possibile rimane, invece, immutato anzi, probabilmente, si delinea ancora più accresciuto, come risulta chiaro dal secondo possente brano, The Face Of Oblivion (click), in cui su un sinistro impianto doom, quasi alla Mastodon, si inseriscono ampie fioriture acustiche e il modo di cantare di Matt Pike svela una varietà e un senso della “melodia” mai udito prima d’ora. The Face Of Oblivion, più lenta e ragionata, caratterizzata dal suo riffing ossessivo, intervallato da arpeggi e stacchi di batteria azzeccati. In altre occasioni gli High On Fire costruiscono “mantra” metallici basati su chitarre serrate ma libere di vibrare e cymbals assoluti protagonisti che ripetono pattern crushing; le fila di questo tessuto magmatico sprigionano una melodia primitiva che tiene assieme in maniera molto flebile tutta la massiccia architettura. Altro episodio, medesimo risultato: Brother In The Wind, un altra bordata heavy. Riff iniziale che strizza l’occhio a sonorità sfacciatamente alla Motörhead, repentini intervalli di chitarra e batteria, e la voce angosciante del cantante a formare una nenia che sembra provenire direttamente dagli inferi. Cometh Down Hessian, piuttosto, di seguito a un ostile intro di chitarra, detona in una rozza combinazione tribale, rivelandosi uno dei pezzi più coinvolgenti e ruvidi, ma anche meno complessi del disco. Tuttavia, il suono riesce ad amplificarsi senza sosta, divenendo illimitatamente massiccio nella title-track, Blessed Black Wings, dalla trama ipnotica, dove Matt Pike canta ancora una volta alla maniera strascinata del miglior Lemmy Kilminster, che tesse otto minuti di immense sonorità, seguiti da una parte ancora più veloce e aggressiva che fa completamente a pezzi il brano. Lenta ma cattiva, cerebrale ma prepotente nel suo incedere, la title track riprende esattamente da dove c’eravamo fermati con The Face Of Oblivion. Anche la marcia Annointing Of Seer è introdotta da un riff che si ripeterà per tutto lo scorrere dei cinque minuti della durata della canzone e, naturalmente, anche qui, soliti temi caratteristici di tutto l’ album, ovvero un grandissimo lavoro dietro le pelli di Des Kensel, la voce di Matt Pike che graffia i timpani dell’ascoltatore e stacchi di chitarra straordinari. Il finale è così affidato al trittico To Cross The Bridge, Silver Back, Sons Of Thunder: apocalisse e redenzione. La prima traccia del lotto, To Cross The Bridge, è la descrizione di un’animata battaglia fantastica in cui la band dà prova di poter suonare con ogni possibile variazione di tempo, mentre Silver Back devono qualche credito a Tom Araya e soci, in particolar modo, ricorda War ensemble. Il che è tutto dire. Le canzoni filano via nella loro spasmodica velocità deturpando il muro del suono più volte. Impossibile non darsi ad un frenetico head-banging ascoltando questi due pezzi che risulteranno poi, a giochi fatti, gli episodi più distruttivi dell’album. Il definitivo cameo è affidato a Sons Of Thunder, titolo alla Manowar per una canzone veramente fuori dalle righe, che rafforza la sensazione di solida efficacia di tutta l’opera attraverso un potente brano strumentale aperto da due minuti acustici, fluttuanti e cristallini, rifiniti dal fedele tocco ritmico di Des Kensel. Per quasi tutta la durata, il brano è un irto crescendo di tamburi roboanti e chitarre straripanti, salvo poi lasciare spazio ad un arpeggio che sbuca dal nulla fermando l'aria in una istantanea dai colori grigi. Blessed Black Wings si chiude sospeso, pesante come la bruma, lasciando che le note si depositino lentamente sulla terra e vi affondino. È lì che tutto ha avuto inizio. Intanto, sull’orlo del precipizio, gli High On Fire danzano benissimo.

Meno quattro... la Rosa Rossa risplende magicamente di vivida luce propria...

 
 
 
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