Creato da Nekrophiliac il 21/02/2005

DARK REALMS V2

So, I've decided to take my work back underground. To stop it falling into the wrong hands.

 

 

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Post N° 79

Post n°79 pubblicato il 24 Dicembre 2005 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

RAGE AGAINST THE MACHINE - RAGE AGAINST THE MACHINE (1992)

Los Angeles, California. Primi anni Novanta. Una copertina indimenticabile annuncia la pubblicazione del primo disco di una band che intendeva essere per prima cosa politica e rivoluzionaria, quindi sperimentale e innovativa: i Rage Against The Machine, progetto “post-marxista” di un giovane quartetto, che resterà in vita per un decennio, rilasciando cinque dischi – tre, nel voler essere estremi come loro insegnavano: Renegades (2000) è un disco di cover dall’impatto violentissimo, mentre il postumo Live At The Grand Olympic Auditorium (2003) è soltanto il finale guasto d’immagine, la fine di un piccola leggenda. Talvolta alcuni dischi si ascoltano per una settimana e poi precipitano nel dimenticatoio, altri si ascoltano soltanto una volta e sono gettati dalla finestra o magari rivenduti a metà prezzo, poi esistono i capolavori, i grandi dischi che risultano essere l’emblema di un periodo storico – musicale. Ogni quindici anni, al massimo quattro/cinque dischi, “fanno la storia di un genere”. L’omonimo Rage Against The Machine è proprio uno di questi, un disco “anormale”: dieci potenziali singoli, dieci pezzi che ogni amante del crossover conosce a memoria in ogni loro piccolo sentiero sonoro. E non è tutto. I testi, per esempio. Ciò che è rimasto insuperato dagli stessi Rage Against The Machine per la potenza e la spietatezza di questi, chiaramente e fieramente schierati dalla parte della sinistra estrema e dell'antimperialismo, addirittura violento. Nessuno si era mai spinto così in là nell’ “odio verso il sistema". I Rage Against The Machine sono stati uno dei maggiori nomi del panorama crossover e, a conti fatti, nu metal degli ultimi tempi con le loro violente invettive politiche a ritmo di rap Se mai c'è stata una band che ha saputo unire l'impegno sociale al divertimento, il fuoco attivista della giovane età alla matura e personale presa di coscienza del momento storico, questo gruppo erano, almeno fino agli inizi degli anni Novanta, soltanto i Clash del compianto Joe Strummer. La rabbia contro la macchina è un caso anomalo sotto ogni punto di vista. È forse la prima band a raggiungere un certo livello di popolarità prima di aver firmato un contratto discografico e, fatto ancor più curioso, non nascono come una formazione live, che si crea un proprio pubblico concerto dopo concerto, fino a trovare qualche generoso estimatore che li metta sotto contratto: i Rage Against The Machine registrarono la loro prima demo senza mai essersi esibiti dal vivo. D'altronde la musica che presentano i Rage Against The Machine nel 1991 non può che attecchire con successo in una Los Angeles ben distante dalle sirene del grunge, scossa piuttosto dall'imprevisto scioglimento dei Jane's Addiction, simbolo e germoglio fino a quel momento di un movimento underground vivo come a Seattle, ma ancora lontano dall'essere inquadrato dai canali mediatici che hanno fatto della città del Washington la Mecca del rock di quegli anni. Una scena opposta all'immagine che davano di Los Angeles i Guns N' Roses e i sogni di successo made in Hollywood. Si tratta di crossover, termine ormai volgarmente combinato al cosiddetto nu-metal, ossia una miscela impura di varie esperienze formanti una nuova struttura, in alcuni casi con originalità e spiccato senso artistico, in altri, come del resto anche e maggiormente per quanto riguarda il Seattle-sound, un mero esercizio stilistico in copia carbone, compresi i contenuti delle canzoni. In coda ai crediti di ognuno dei quattro album dei Rage Against The Machine c'è scritto: << No samples, keyboards or synthesizers used in the making of this recording >>; ciò suona puritano e allo stesso tempo non credibile, se non si assiste fisicamente a una performance live del gruppo, dove intorno a una sezione ritmica essenziale, generalmente mai sopra le righe, si inseriscono il rap, monocorde e stridulo, fastidioso e rumoroso - la voce del dissenso non potrebbe essere diversa – di Zack De La Rocha e il geniale corredo dei ritmati effetti scratch e noise, uniti alla matrice “zeppeliniana” dei assoli della chitarra di un ispirato Tom Morello.

Bombtrack è l'inizio ideale, una tranquilla introduzione che porta all'esplosione di potenza di uno dei riff più famosi della storia e, francamente, basterebbe appena una canzone per capire l’effetto novità, qualcosa di mai sentito nel 1992, fu un vero e proprio fulmine a ciel sereno. Chiaro sin dal principio del disco, Bombtrack, che si sta ascoltando un disco di rottura: Un genere indefinibile, crossover tra Public Enemy e Clash e Red Hot Chili Peppers prima maniera, con maggior rabbia – se possibile – e nessuna concessione melodica. << With the thoughts from a militant mind. Hardline, hardline after hardline. Landlords and power whores. On my people they took turns. Dispute the suits I ignite. And then watch ‘em burn. Burn, burn, yes ya gonna burn >>.

E subito dopo, a schiantare qualunque equivoco, un granitico pezzo “portabandiera” come Killing In The Name, che si schiera senza paura a denunciare gli abusi e le violenze delle forze dell’ordine nelle piazze, regalando un crescendo ossessionante e incancellabile che va configurandosi come parola d’ordine da passare da individuo a individuo, perché la verità e la giustizia stanno proprio in questo approccio: nessuno può impedirvi d’essere liberi: nessuno deve imporre la “sua” libertà ad altri cittadini. Soprattutto se vengono eseguiti gli ordini dei padroni del vapore del momento. << Fuck you, I won’t do what you tell me. Fuck you, I won’t do what you tell me. Fuck you, I won’t do what you tell me. Motherfucker >>. Il verbale concetto è discretamente chiaro e lo spietato messaggio non può cadere inascoltato.

Con Take The Power Back si abbandona il riffing furioso e i Rage Against The Machine si lanciano in una canzone che è sperimentazione sonora mescolata a stilemi Red Hot Chili Peppers in apertura, poderoso basso di Tim Commerford e una gran voglia di far pogare il pubblico in sede live nell’esplosione finale: << Mother fuck Uncle Sam. Step back, I know who I am. Raise up your ear, I’ll drop the style and clear . It’s the beats and the lyrics they fear. The rage is relentless. We need a movement with a quickness. You are the witness of change. And to counteract. We gotta take the power back >>. I Rage Against The Machine, all’epoca, erano alla ricerca della “rieducazione generazionale”: fondando i loro messaggi su un nuovo genere musicale che fosse realmente riconoscibile sia ai ragazzi delle periferie che ai giovani intellettuali, incapaci di rendersi conto del circostante marciume mondiale. La malinconia e la disperazione di Settle For Nothing sembrano oggi un triste presagio di quanto è avvenuto: ossia che l’esito della battaglia politica fosse fallimentare e autodistruttivo. Il brano non smette di ghiacciare il sangue, a distanza dai primi, adolescenziali ascolti: << A jail cell is freedom. From the pain in my home. Hatred passed on, passed on and passed on. A world of violent rage. But it’s one that I can recognise. Having never seen the colour of my father’s eyes. Yes, I dwell in hell, but it’s a hell that I can grip. I tried to grip my family. But I slipped. To escape from the pain in an existence mundane. I gotta 9, a sign, a set and now I gotta name. Read my writing on the wall. No-one’s here to catch me when I fall. Death is on my side… suicide! >>. E più avanti, per il mantra in progressione di un delirante Zack De La Rocha, vale quanto esplicitato per Killing In The Name: le parole-chiave non sono difficili da interiorizzare: << If we don’t take action now, we settle for nothing later, we’ll settle for nothing now, and we’ll settle for nothing later >>. Eccessivi i rimorsi, numerosi i rimpianti, malgrado il tempo abbia fatto ormai il suo corso. Settle for nothing finisce così per apparire la canzone più "canzone" dell'intero disco. Ecco Bullet In The Head: l’assalto sonoro. Memorabile l’assolo sincopatico di Tom Morello, l’effetto della sirena infilato nelle “lyrics” al momento opportuno, il massiccio tappeto sonoro abilmente costruito dal quartetto statunitense. Il finale è poi il più classico dei classici in chiave Rage Against The Machine: un’esplosione non accidentale.

Know Your Enemy, piuttosto, è l’ennesima “sassata”, di quelle assai opportune e indovinate, all’ipocrita giostra propagandistica del cosiddetto “american dream” – adorabile la clausola: << Yes I know my enemies. They’re the teachers who taught me to fight me. Compromise, conformity, assimilation, submission. Ignorance, hypocrisy, brutality, the elite. All of which are American dreams >>. L’assolo di Tom Morello è, ancora una volta, psichedelico e postindustriale. L’ultima ripresa assolutamente energetica. Rabbioso il latrato di Zack De La Rocha: esausto poeta ed immancabile profeta della decadenza del sogno. Know your enemy annovera, inoltre, la partecipazione di un altro personaggio destinato “a fare storia”: Maynard James Keenan, leader dei Tool. Ricordate Aenima (1996)?. Non era un’amicizia casuale. La magica Wake Up ha avuto fortuna cinematografica – senza esser stato adeguatamente, ma era inevitabile, compreso dal pubblico europeo. Si tratta infatti del brano che conclude il primo (e unico) Matrix (1999): elemento che dovrebbe andare a modificare le letture e le interpretazioni del film di tanta critica, perché il significato che aveva, negli States, chiudere un’opera del genere con un pezzo dei primi Rage Against The Machine era fin troppo limpido. È un brano violento e ancora una volta affidato, nelle variazioni e nelle sospensioni, alla genialità di Tom Morello – senza nascondere simpatie e debiti nei confronti dei primissimi Metallica. Il resto è figlio dell’impegno, della satira, dei crescendo nevrastenici di Zack De La Rocha: << How long? Not long, 'cause what you reap is what you sow >>. È ora il turno della trascinante Fistful Of Steel: il sound della band, a questo punto dell’album, è già ben interiorizzato e non spiazza e non disorienta più – né nelle distorsioni, né nelle progressioni, né nello stile punk-rap dell’adrenalinico frontman. S’apprezzano coerenza e coesione, e spirito rivoluzionario. Non importa fosse figlio d’una ideologia sbagliata: è lecito meravigliarsi piuttosto dello spirito e dell’estremismo, e cercare di compredere da cosa derivasse e cosa volesse rappresentare. Tredici anni dopo, i Rage Against The Machine hanno “figliato”: dai Korn sino ai System Of A Down, passando per i contraddittori Linkin’ Park, autori di un buon debutto con Hybrid Theory (2001), ma affogati nel mare dei dollari. Ciò che differenzia e contraddistingue il primo crossover losangelino è proprio l’impronta politica – oltre, ed è superfluo ribadirlo, alla classe e alla tecnica dei musicisti. Chiudono l’album d’esordio Township Rebellion e Freedom: se la prima è martellante e ipnotica, non dissimile da Bombtrack, per struttura, impostazione e sonorità, e da Bullet In The Head nella clausola; la seconda è l’ennesima iniezione di adrenalina e inquietudine, insuperbita dal basso di Tim Commerford – ultimo invito a una ribellione (a fianco degli “Indiani d’America”) che s’è dissolta, isolando ancor più la minoranza che credeva potesse essere realizzata, e deprimendo e frustrando una generazione.

Cosa resterà di tutto ciò? Un disco imperdibile – per quanti intendano ritrovare lo spirito del rock dei primi anni Novanta, per quanti vogliano riscoprire cosa “significava” crossover, per quanti credono che, in fin dei conti, dopo i Clash non era rimasto molto da dire a chi voleva fare politica e rock d’avanguardia. La rabbia, in fondo, è un dono.

 
 
 
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