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I QUATTRO PUNTI PER ADERIRE AL McPCL

 
I QUATTRO PUNTI PROGRAMMATICI DEL MOVIMENTO COSTITUTIVO DEL PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

(23 giugno 2006)

Il Movimento costitutivo del Partito Comunista dei Lavoratori intende recuperare e attualizzare il patrimonio programmatico del marxismo rivoluzionario riscattandolo dalla lunga rimozione teorica e pratica di cui è stato oggetto da parte della socialdemocrazia e dello stalinismo.
Questo recupero e attualizzazione si concentra su quattro assi di fondo che indichiamo come base politica di principio del nuovo movimento.

1 – RIVENDICHIAMO L’ INDIPENDENZA POLITICA DEL MOVIMENTO OPERAIO E DEI MOVIMENTI DI LOTTA DALLE FORZE DELLA BORGHESIA: dai suoi interessi, dai suoi partiti, dai suoi governi.
I marxisti rivoluzionari hanno sempre contrastato le politiche di collaborazione con le classi dominanti collocandosi all’ opposizione dei loro governi. Questo principio di indipendenza della classe lavoratrice dalla borghesia è, se possibile, ancor più attuale nell’odierna situazione storica. La crisi del capitalismo e il crollo dell’URSS hanno chiuso lo spazio storico del riformismo. Ogni coalizione di governo delle sinistre e dei “comunisti” con le forze della borghesia significa la loro corresponsabilizzazione alle politiche controriformatrici della classe dominante. Tutta l’ esperienza internazionale degli ultimi quindici anni lo riprova in forma inequivocabile: i governi di centrosinistra in Italia, il governo Jospin in Francia, il governo Lula in Brasile, hanno tutti amministrato e amministrano , in forme diverse, gli interessi della borghesia contro gli interessi dei lavoratori e delle grandi masse. Il nuovo governo Prodi-Padoa Schioppa, i suoi programmi annunciati in politica estera e politica sociale, si pongono sullo stesso terreno. Ed anzi riflettono una diretta investitura nel centrosinistra dei settori più significativi del grande padronato.
Intendiamo combattere questa politica nel nome di una linea alternativa. Siamo certo favorevoli all’ unità di classe dei lavoratori e dei movimenti di lotta delle classi subalterne, ma per una loro piena autonomia dalle forze avversarie e in funzione di un’alternativa vera. Solo l’ opposizione ai governi della borghesia può preparare le condizioni di un’ alternativa anticapitalistica. Solo l’ opposizione radicale ai governi della borghesia può strappare risultati concreti e conquiste parziali com’ è dimostrato dalla recente vittoria della rivolta sociale dei giovani e lavoratori francesi contro le misure di precarizzazione del lavoro.
Vogliamo dunque batterci per l’ unità di lotta di tutte le espressioni del movimento operaio e dei movimenti di massa attorno ad un autonomo polo di classe anticapitalistico.



 

I QUATTRO PUNTI II

 
2 – CI BATTIAMO PER LA CONQUISTA DEL POTERE POLITICO DA PARTE DEI LAVORATORI E DELLE LAVORATRICI, BASATO SULL’ AUTORGANIZZAZIONE DI MASSA, come leva della trasformazione socialista.
La prospettiva socialista è la ragione d’ essere del comunismo. I comunisti si battono contro un’ organizzazione capitalistica della società che concentra nelle mani di una piccola minoranza privilegiata tutte le leve decisive dell’ economia e il grosso della ricchezza sociale: un’ organizzazione capitalistica che si basa sullo sfruttamento del lavoro, sul saccheggio dell’ ambiente, sull’oppressione dei popoli; e che oggi conosce il prepotente ritorno delle politiche di potenza dell’ imperialismo e degli imperialismi per una nuova spartizione delle zone di influenza, per la conquista dei mercati, delle materie prime, della manodopera a basso costo. Solo il rovesciamento del capitalismo e dell’ imperialismo può liberare un futuro diverso per l’ umanità. Solo la proprietà sociale dei mezzi di produzione e delle leve della finanza può consentire la riorganizzazione radicale della società umana attorno al primato dei bisogni e delle esigenze collettive, e non del profitto di pochi.
La conquista del potere politico da parte delle classi lavoratrici è un passaggio decisivo di questa prospettiva di liberazione. Il potere dei lavoratori e delle lavoratrici non ha niente a che vedere né con la cosiddetta “democrazia partecipativa”, né con la dittatura burocratica di caste privilegiate. Esso si basa – come voleva Marx – sull’ autorganizzazione democratica dei lavoratori stessi, sulla revocabilità permanente degli eletti, sull’ assenza di ogni privilegio sociale degli eletti rispetto ai loro elettori come nei grandi esempi della Comune di Parigi e della rivoluzione russa delle origini. Contro l’ attuale dittatura degli industriali e dei banchieri – che si fa chiamare”democrazia” – si tratta di lottare per la democrazia autentica: il potere dei lavoratori e della maggioranza della società quale leva di riorganizzazione della società stessa.

 

I QUATTRO PUNTI III

 
3 – RIVENDICHIAMO IL LEGAME NECESSARIO TRA GLI OBIETTIVI IMMEDIATI E GLI SCOPI FINALI.
Come scriveva Marx, i comunisti difendono nel presente il futuro del movimento operaio e della prospettiva socialista. La coesione coerente tra rivendicazioni immediate e conquista del potere politico è un carattere decisivo della politica rivoluzionaria: contro ogni separazione tra minimalismo dell’ azione quotidiana e propaganda astratta del socialismo. Questa connessione – che fu alla base dei partiti comunisti delle origini – è tanto più attuale nel contesto odierno della crisi del capitalismo e del riformismo, laddove ogni seria lotta di massa per le esigenze immediate dei lavoratori tende a cozzare con le compatibilità sempre più strette del regime capitalistico, e viceversa ogni rinuncia alla prospettiva anticapitalista conduce in un vicolo cieco le stesse lotte immediate.
La necessità di ricondurre gli obiettivi immediati ad una prospettiva anticapitalista non riguarda solamente le rivendicazioni sociali della classe lavoratrice ma tutte le domande di emancipazione e liberazione: le domande di tutela della natura e dell’ ambiente, le rivendicazioni “pacifiste”, le domande di liberazione della donna, le stesse rivendicazioni anticlericali e per i diritti civili. Ognuna di queste domande cozza, direttamente o indirettamente con un’organizzazione capitalistica della società che fa del profitto l’unica sua religione e che si basa sulla violenza quotidiana dell’oppressione, della segregazione, dell’ ipocrisia, verso la maggioranza dell’ umanità. Ognuna di queste domande esige una risposta anticapitalistica.
Per questi il Movimento del Partito Comunista dei Lavoratori si impegna nella classe operaia e in ogni movimento di lotta dei settori oppressi della società per sviluppare la coscienza delle masse in senso anticapitalistico, per ricondurre ogni loro obiettivo alla necessità di un’ alternativa di sistema.
 

I QUATTRO PUNTI IV

 
4 – RIVENDICHIAMO LA NECESSITA’ DI UN’ ORGANIZZAZIONE RIVOLUZIONARIA DEI COMUNISTI.
Il movimento comunista nacque come movimento internazionale. Perché la prospettiva socialista è realizzabile compiutamente solo su scala internazionale, solo rovesciando la realtà internazionale del capitalismo e dell’ imperialismo.
Tanto più oggi il recupero di un’ organizzazione rivoluzionaria dell’avanguardia di classe internazionale è condizione indispensabile di un’ autentico rilancio di una prospettiva comunista. Tanto più oggi dopo il crollo dell’ URSS il quadro capitalistico è profondamente integrato sul piano mondiale. La realtà della cosiddetta “globalizzazione” capitalistica acuisce la concorrenza e le divisioni nella classe lavoratrice internazionale, tra diversi paesi e continenti. Ogni seria lotta di classe sul piano nazionale, persino al livello di singole categorie o grandi aziende, pone l’ esigenza di un raccordo internazionale con i lavoratori e le lotte degli altri paesi. Così ogni movimento di liberazione nazionale dei popoli oppressi contro l’ imperialismo – a partire dal popolo palestinese e dal popolo arabo in generale – indica l’ obiettiva necessità di una convergenza di lotta con la classe operaia dei paesi imperialisti: così come quest’ultima può e deve porsi nel proprio stesso interesse, l’ esigenza di un pieno e incondizionato sostegno ai movimenti di liberazione dei popoli oppressi, al loro diritto di autodeterminazione, alla loro azione di resistenza.
I comunisti, tanto più oggi, devono sviluppare in ogni lotta nazionale la consapevolezza della necessità di una prospettiva internazionale di liberazione. E al tempo stesso devono lavorare ad unire, su scala mondiale, tutte le rivendicazioni e domande delle classi oppresse per ricondurle ad una prospettiva socialista. Ciò implica il raggruppamento organizzato su scala internazionale dei comunisti rivoluzionari e dei settori più avanzati dell’ avanguardia di classe, al di là delle diverse provenienze e collocazioni attuali, sulle basi programmatiche e sui principi del marxismo.
Il Movimento Costitutivo per il Partito Comunista dei Lavoratori si impegna in questa direzione con tutte le proprie forze.
 
 
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BASTA CON I LICENZIAMENTI

Post n°51 pubblicato il 25 Marzo 2009 da pcltorino
Foto di pcltorino

BASTA CON I LICENZIAMENTI

BASTA REGALI FINANZIARI A GRANDI IMPRESE E BANCHE

 

NAZIONALIZZARE LE AZIENDE IN CRISI

 

SENZA INDENNIZZO PER I GRANDI AZIONISTI

SOTTO IL CONTROLLO DEI LAVORATORI

 

 

La crisi capitalistica si abbatte sulle condizioni di milioni di lavoratori. In Italia migliaia di aziende, a partire dalle più grandi (Fiat, Telecom, Sevel….), programmano per il 2009 la cancellazione di un milione di posti di lavoro. La vicenda Alitalia ha fatto scuola.

Quelle stesse imprese che per vent'anni hanno beneficiato di gigantesche regalie pubbliche, della precarizzazione del lavoro, di salari da fame,chiedono oggi ai lavoratori di pagare i costi della loro crisi. E chiedono alla stato un'altra montagna di risorse pubbliche, a spese dei contribuenti.

 

Il governo Berlusconi acconsente (con l'avallo del PD): e anche per questo taglia sulla scuola, sulla sanità, sui servizi, mentre non trova un euro per i salari.

 

Le direzioni sindacali balbettano: tra chi sostiene spudoratamente padronato e governo CISL e UIL), e chi dissente passivamente senza promuovere una lotta vera a sostegno di una vera alternativa ( CGIL).

 

Le sinistre "criticano", ma non indicano soluzioni e prospettive. In queste condizioni, si rischia un nuovo drammatico arretramento  delle condizioni del lavoro in Italia.

 

Il PCL propone a tutto il mondo del lavoro, a tutte le sue organizzazioni sindacali, a tutte le sinistre, una lotta vera e unitaria contro il padronato e il suo governo, sulla base di un programma di svolta che metta in discussione il potere del profitto e le sue leggi.

 

In primo luogo c'è l'esigenza di una vertenza generale e unificante di lavoratori, precari, disoccupati, attorno ad una  piattaforma immediata di lotta che affronti l'emergenza. E che rivendichi ,a carico dei profitti e delle grandi ricchezze:

 

·        Il blocco generale dei licenziamenti.

·        Il diritto alla cassa integrazione per tutti i lavoratori, con la copertura dell'80% del salario.

·        L'abolizione di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro e l'assunzione a tempo indeterminato di tutti i precari.

·        Il permesso di soggiorno a tutti i lavoratori immigrati.

·        La riduzione generale e progressiva dell'orario di lavoro per redistribuire fra tutti il lavoro che c'è.

·        Un aumento generale di salari e stipendi di 300 euro netti mensili e un salario minimo intercategoriale di almeno 1300 euro netti mensili.

·        Una vera indennità di disoccupazione di almeno 1000 euro netti mensili, cui allineare il livello minimo di pensione.

·        L'abbattimento dei mutui usurai e la restituzione di fondi pensione ai lavoratori e alla previdenza pubblica.

·        Un grande piano di lavori pubblici socialmente utili e sotto controllo sociale (edilizia scolastica e popolare, risanamento ambientale, servizi pubblici…)

 

Solo l'insieme di queste misure può proteggere la condizione delle masse popolari di fronte al ciclone della crisi e avviare un riscatto sociale dopo vent'anni di sacrifici. Solo una lotta generale e a oltranza per queste misure può ricomporre l'unità del blocco sociale alternativo e strappare miglioramenti parziali !

 

Ma questo piano d'emergenza richiede una svolta complessiva. Non solo la restituzione al mondo del lavoro di quei 130 miliardi di euro che in vent'anni sono passati dai salari ai profitti. Ma la fine di ogni nuova regalia a industriali e banchieri. A chi dice che bisogna continuare a ingrassare capitalisti e banchieri per " difendere i lavoratori e i risparmiatori" rispondiamo che i lavoratori e i piccoli risparmiatori possono fare a meno di industriali e banchieri. Che se i capitalisti licenziano i lavoratori, i lavoratori possono licenziare i capitalisti : nazionalizzando le aziende in crisi sotto controllo operaio, e riorganizzando l'intera economia su basi nuove.

 

Proponiamo una lotta generale per la nazionalizzazione delle aziende in crisi e/o che licenziano. Senza indennizzo per i grandi azionisti : perché si sono già indennizzati da soli con anni di sfruttamento e rapine. Sotto il controllo dei lavoratori: perché sono i lavoratori che possono prendere in mano le aziende, a tutela dei propri posti di lavoro, per riorganizzare la produzione e i servizi;  collegandosi  settore per settore, attorno a un piano economico da loro definito.

 

E' una rivendicazione troppo "drastica"? E' meno drastica della fame e dei licenziamenti.

E' una rivendicazione" anomala"? No, è fatta propria da settori d'avanguardia del movimento operaio in diversi Paesi,  dall'Argentina alla Francia; perché non raccoglierla?

E' una rivendicazione" impossibile"? No. Semplicemente mette in discussione l'attuale dittatura di un pugno di capitalisti e di banchieri a favore della prospettiva di un governo dei lavoratori. Perché sarebbe "possibile" la dittatura di una piccola minoranza e "impossibile" il potere della maggioranza? Nulla è impossibile se il mondo del lavoro usa la forza di cui dispone, scrollandosi di dosso la rassegnazione. Per di più solo lottando per un'alternativa vera di società è possibile strappare lungo la via concessioni parziali e risultati concreti. Senza la lotta per una alternativa, c'è solo un futuro di nuovi arretramenti e nuove sconfitte.

 

IL PCL fa dunque appello a tutti i lavoratori, a partire dalle strutture sindacali di base e dalle RSU, perchè sostengano la campagna per la nazionalizzazione delle aziende in crisi. Per farla vivere in ogni lotta di resistenza e in ogni organizzazione sindacale di classe; per coordinare tutte le forze, ovunque collocate, disponibili a battersi contro la crisi. Come dicono gli studenti,

 

 “la vostra crisi non la paghiamo noi". PAGHI CHI NON HA MAI PAGATO!!

 
 
 

Post N° 50

Post n°50 pubblicato il 29 Ottobre 2008 da pcltorino
Foto di pcltorino

Contro la riforma Moratti e la Gelmini

Contro Rettori e baroni, che difendono i loro interessi

PER UN UNIVERSITA’ STATALE, PUBBLICA E DI MASSA

OCCUPIAMO TUTTE LE FACOLTA’

 

Il governo Berlusconi ha ripreso in questi mesi la controriforma dell’Università italiana.

 

Nel 2005 aveva approvato la riforma Moratti (riforma dei concorsi e dello statuto giuridico dei docenti), sospesa ma intoccata dal governo Prodi, che reintroduce modelli piramidali di governo delle Facoltà (pochi Ordinari), accentra i meccanismi di reclutamento a livello di ateneo rafforzando i poli dominanti, introduce un sistema di precarietà strutturale nella ricerca e nella didattica universitaria.

 

Quella riforma, silente fino ad ora in quanto non sono mai stati approvati i decreti attuativi, si prepara ad essere applicata pienamente dalla Gelmini nei prossimi mesi.

Nel frattempo il nuovo governo Berlusconi ha:

 

-       tagliato 600 milioni di euro dal finanziamento di funzionamento normale degli atenei, rendendo difficile se non impossibile l’erogazione nei prossimi anni della normale attività

-       incluso l’Università nel blocco del turn over, assumendo dal 1 gennaio 2009 un docente ogni 5 posizioni che si liberano (per pensionamento o passaggio di carriera)

-       prospettato la trasformazione degli atenei in fondazioni, che lungi dal garantire un entrata di fondi privati nell’università (scarsa è la spesa in ricerca e sviluppo nell’industria italiana, già presente e incidente l’influenza in alcuni Dipartimenti e progetti di ricerca delle grandi aziende), permette semplicemente di “scaricare” la pubblica amministrazione dal dovere di garantire il funzionamento minimo ed essenziale delle Università.

 

Contro questi ultimi provvedimenti, che si aggiungono i tagli e alle controriforme nella scuola, stanno manifestandosi e mobilitandosi in queste settimane studenti, docenti, ricercatori, dottorandi, lavoratori dell’università ed anche i rettori.

 

Ma l’unità di tutte questi diversi soggetti contro scelte e provvedimenti che bloccano e destrutturano le università italiane non può, e non deve, occultare le diverse responsabilità ed i diversi interessi.

 

Ormai da vent’anni è in corso una lenta e progressiva controriforma dell’università italiana, che garantendo prima l’autonomia gestionale (1989) e poi quella didattica (1997) ai diversi Atenei, ha inseguito tenacemente il progetto di importare il modello anglosassone nel nostro paese:

 

-       una forte differenziazione e gerarchizzazione tra atenei (serie A, serie B, ma anche serie Z)

 

-       una differenziazione dei titoli di studio, per livelli (Diplomi, Specialistica, Master), sedi dove si conseguono e piani di studio, per spezzare il mercato del lavoro “intellettuale” e la forza contrattuale dei lavoratori in nicchie fra di loro isolate

 

-       una piramidalizzazione del corpo docenti (pochi ordinari di ruolo, molti precari nella ricerca e nella docenza),

 

-       una professionalizzazione dei curricula e della ricerca, piegati agli immediati interessi del sistema produttivo, creando corsi estremamente specifici per singole imprese o settori e centri di ricerca che lavorano su commessa industriale (i parchi scientifici e tecnologici).

 

Questo progetto nel corso degli anni ha trovato infiniti ostacoli e problemi di realizzazione.

L’Italia non sono gli Stati Uniti.

 

Non ci sono le centinaia di miliardi di dollari riversati sul sistema universitario dal governo americano, per sostenere aziendalizzazione e professionalizzazione degli atenei (vedi il programma “guerre stellari” e quello “biotech” negli anni ’80): i parchi scientifici e tecnologici languono, le grandi imprese italiane che investono in Ricerca e sviluppo si sono ridotte in questi anni.

 

Non c’è una politica industriale di lungo periodo, tale per cui abbia senso costruire consoliate filiere formative specifiche: vedi il destino dei corsi di laurea in specifiche tecnologie per i distretti industriali, che hanno iniziato a sfornare laureati quando i distretti hanno iniziato a migrare altrove (è la formazione continua, bellezza. Ricomincia da capo, al limite senza passare dal Via – ti riconosco qualche credito, qualche esame).

 

Il baronato accademico ed i tanti interessi politici territoriali hanno utilizzato i margini dell’autonomia didattica ed amministrativa per costruire atenei, corsi di laurea e sedi distaccate che spesso rispondono più ad interessi locali e di docenti e ricercatori, più che a sensate esigenze formative.

 

La CRUI e i Rettori italiani sono stati conniventi e compartecipi ha questo processo di progressiva disgregazione e disfacimento, di una controriforma pensata per piegare gli Atenei al servizio del mondo produttivo ideologica, velleitaria e per di più rimasta incompiuta. Chi per ritagliarsi spazi di potere e clientele locali (anche personali, come dimostrato dalle gestioni decennali di molti Rettori in diversi Atenei), chi per perseguire con determinazione e convinzione un modello “produttivista” e americano di università.

 

I NOSTRI INTERESSI NON SONO I LORO. LA NOSTRA UNIVERSITA’ NON E’ LA LORO.

 

Dopo il 3+2, il proliferare dei corsi di laurea, la differenziazione e la contemporanea rigidità dei piani di studi, la ricerca di una professionalizzazione al servizio di un mercato del lavoro segmentato e diviso (spesso più immaginario che reale), gli aumenti delle tasse di iscrizione e la disgregazione del diritto allo studio (principio del “costo pieno” dei servizi, dalle mense alle case dello studente) è evidente che il movimento degli studenti non può battersi solo contro la Gelmini. Non può battersi semplicemente a fianco dei Rettori e dei docenti universitari.

 

E tanto meno può permettersi di delegare a docenti e Rettori la gestione della lotta, affidando a questi soggetti il blocco della didattica, la sospensione degli anni accademici o la trattativa con il Ministero e la Gelmini.

 

I BLOCCHI DELLA DIDATTICA SI FANNO, NON SI CHIEDONO.

LE UNIVERSITÀ SI OCCUPANO, NON SI CHIEDE AI RETTORI DI CHIUDERLE.

 

Riprendiamoci uno spazio di riflessione e di progettazione nelle università, ricostruiamo una soggettività studentesca, costruiamo una vertenza generale del movimento degli studenti, elaborando piattaforme e metodi di lotta non subordinati ad altri soggetti.

 

CONTRO LA GELMINI, IL TAGLIO DEL FONDI, IL BLOCCO DEL TURN OVER E LA PROPOSTA DELLE FONDAZIONI

 

CONTRO L’AUTONOMIA DEGLI ATENEI, CHE PRODUCE PICCOLI E GRANDI BARONI

 

CONTRO UN UNIVERSITA’ PROFESSIONALE AL SERVIZIO DELLE IMPRESE

 

OCCUPIAMO LE FACOLTÀ

 

COSTRUIAMO COORDINAMENTI CITTADINI E NAZIONALI

DEGLI STUDENTI

 

COSTRUIAMO UNA NOSTRA PIATTAFORMA PER UN UNIVERSITÀ STATALE, PUBBLICA E DI MASSA

 
 
 

Post N° 49

Post n°49 pubblicato il 29 Ottobre 2008 da pcltorino
Foto di pcltorino

 

COMITATI UNITARI DI LOTTA

INSEGNANTI, GENITORI, ATA,

STUDENTI, PRECARI:

Ci vuole uno  sciopero di più giorni

per difendere la scuola pubblica

Ci vuole una piattaforma generale

per difendere i nostri diritti,

opporsi all’autoritarismo del governo

  e cacciare Berlusconi

 

Da settimane in tutto il paese la protesta partita dalle scuole materne e dalle elementari  sta dilagando nelle università e nelle scuole superiori, soprattutto per l’irrompere degli studenti.

Lo sviluppo del movimento è sempre più rapido e sicuro, tanto da provocare reazioni repressive e autoritarie da parte del governo. Come ad esempio  le dichiarazioni antidemocratiche  del ministro Sacconi contro il diritto di sciopero  dei lavoratori nella scuola e nel pubblico impiego, quelle della Gelmini contro le famiglie che civilmente coinvolgono i propri figli nelle decisioni sul loro futuro o il ricorso ad azioni militari di polizia e carabinieri contro gli studenti che manifestano democraticamente la propria radicale opposizione alla crisi verticale del capitalismo.

 

Il Partito Comunista dei Lavoratori dopo avere partecipato attivamente allo sciopero del 17 ottobre indetto dal sindacalismo di base, sostiene la necessità di trasformare lo sciopero di CGIL CISL e UIL del 30 ottobre in una nuova occasione di lotta radicale e unificante di tutto il mondo della scuola.

Il movimento dei comitati genitori/insegnanti/ATA, degli studenti medi e universitari ha già dimostrato di avere la forza per lanciare autonomamente una piattaforma alternativa a quella della casta sindacale responsabile delle sconfitte.

Dalle università e dalle scuole un nuovo movimento può riprendersi le piazze, in modo indipendente dall’insana  illusione di riforme impossibili e democraticamente autogestito al suo interno.

 

Sono i comitati a dovere prendere in mano l’iniziativa e a fare irrompere sulla scena i genitori, padri e madri, nella loro qualità di disoccupati, precari o lavoratori più o meno stabili.

A potere lanciare una piattaforma UNIFICANTE per la difesa dei 5 diritti fondamentali per il futuro dei giovani e dei lavoratori (ISTRUZIONE, SALUTE, CASA, LAVORO E SALARIO) e un appello all’unità di tutti i settori colpiti, così come di tutte le forze  sociali e politiche che si vogliono opporre coerentemente alla ristrutturazione selvaggia della scuola e università pubblica.

E’ tempo di  occupare in tutta Italia le università, le scuole superiori e dell’obbligo. Di regolare attorno a scadenze di lotta nazionali il calendario delle iniziative quartiere per quartiere, comune per comune, scuola per scuola.

 

Dopo gli scioperi del 17, del 30 ottobre e quello del 14 novembre nelle università, si può prospettare per il 15 novembre una giornata nazionale unificante di mobilitazione in tutte le città. Una giornata in cui il movimento della scuola potrà verificare la propria forza di attrazione nei confronti dell’intera società lavoratrice e giovanile  sulla base di  una autonoma  piattaforma di lotta.

Una giornata che, insieme ai tre scioperi di massa, può favorire lo sviluppo di una mobilitazione alla francese: duratura, radicale, estesa fino alla sconfitta e alla cacciata perpetua del governo Berlusconi.

 

Chiediamo

·         L’abrogazione del decreto sul MAESTRO UNICO, delle leggi che tagliano fondi, scuole e personale e dell’apartheid dentro le classi

·         Un piano di investimenti straordinario per l’università e la scuola, in particolare per il meridione, con l’estensione del tempo pieno e con meno alunni per classe, finanziato dalla tassazione di profitti, rendite e dall’abolizione dei privilegi fiscali del vaticano

·         L’assunzione stabile del precariato  (“altrochè 200.000 posti in meno”)

·         L’abolizione totale di tutti i finanziamenti alla scuola confessionale e privata

·         La gratuità di libri di testo qualificati per gli studenti della scuola pubblica

·         Una riforma della scuola a favore di una società non più basata sul profitto, ma giusta e egualitaria

 

 
 
 

Post N° 48

Post n°48 pubblicato il 25 Agosto 2008 da pcltorino
Foto di pcltorino

lettera aperta ai promotori dell' assemblea del 9 settembre

Cari compagni/e,
vi chiediamo le ragioni del mancato coinvolgimento del Partito Comunista dei Lavoratori nell’appello che avete promosso per l’assemblea del 9 Settembre. E di cui abbiamo appreso solamente da Il Manifesto.

Vi definite, nel testo stesso dell’appello, “organizzazioni e persone che hanno mantenuto un filo comune di dibattito e di mobilitazione in questi anni”. Bene. Sulla base di questo criterio, perchè la nostra esclusione?

Come tutti voi ben sapete, il PCL è stato parte organica e costante del fronte di opposizione al governo Prodi, del suo “dibattito”, della sua “mobilitazione”. Lo è stato sin dall’inizio, quando quel fronte era un po’ meno partecipato. Lo è stato sin dal Luglio 2006, nelle iniziative davanti al Parlamento, contro il primo rifinanziamento della missione di guerra in Afghanistan, poi sostenuto dal voto di fiducia di tutta la maggioranza parlamentare, senza eccezioni. Lo è stato come forza promotrice, tra le altre, della manifestazione nazionale contro la missione imperialista in Libano (30 Settembre 2006): di fronte non solo ai cantori della “missione umanitaria”, ma anche ai suoi sostenitori “critici” e dubbiosi. Lo è stato come una delle forze promotrici della manifestazione antisionista a Roma del Novembre 2006, quando altri preferirono sfilare a Milano con Fassino e col Centrosinistra. Lo è stato insomma quando un soggetto firmatario del vostro appello (Sinistra Critica) non solo non era partecipe di nessuna di quelle mobilitazioni, ma stava nella maggioranza del governo contro cui quelle manifestazioni si rivolgevano (votando ad esempio la finanziaria di 35 miliardi che aumentava le spese militari e di guerra).
Naturalmente l’ ingresso nelle manifestazioni antigovernative (9 Giugno 2007) di quel soggetto e la sua successiva ricollocazione all’opposizione nella fase terminale della legislatura è stato un fatto importante. Ma che oggi, tra “le organizzazioni che hanno mantenuto un filo comune di dibattito e di mobilitazione in questi anni” figuri Sinistra Critica e sia escluso il PCL ci pare, nel suo piccolo, una enormità grottesca. Oltre che un’offesa inaccettabile alla verità e alla storia di questi anni.
Non sappiamo chi ha proposto o praticato la nostra esclusione, chi l’ha subita, chi l’ha avallata, magari con indifferenza (anche se qualche idea l’abbiamo). Ma per quella correttezza elementare che dovrebbe ispirare i rapporti fra noi, e a cui in ogni caso noi ci atteniamo, chiediamo a ciascuno dei soggetti firmatari una spiegazione pubblica a fronte di una pubblica responsabilità: che, ad oggi, appare obiettivamente comune.

Non siamo in presenza di un episodio nuovo o isolato. Un anno fa, nelle stesse identiche forme, fummo esclusi da un analogo appello pubblico alla mobilitazione contro il governo. Chiedemmo spiegazioni, ottenemmo un generale e imbarazzato silenzio. Salvo poi constatare che alcuni responsabili di quella immotivata esclusione andavano a dire in giro in tutta Italia che “il PCL si è tirato fuori in quanto settario e autocentrato”. E in tante occasioni locali si sono prodotti, a cascata, atteggiamenti analoghi e ipocrisie molto simili, sempre nel segno del rovesciamento delle responsabilità.

Sia chiaro allora una volta per tutte, e per tutti.
Per noi, autonomia politica del nostro partito e relazioni unitarie nell’azione di opposizione non solo non si contraddicono, ma si tengono insieme.
Siamo gelosi della costruzione autonoma del Partito Comunista dei Lavoratori, sulla base di una coerenza politica e di un progetto strategico che ci distinguono dalle altre forze della sinistra italiana. Portiamo da sempre nella battaglia di massa (e al pubblico confronto) una nostra specifica proposta programmatica e linea di intervento, tesi a ricondurre gli obiettivi immediati di lotta alla prospettiva anticapitalistica, fuori da ogni minimalismo ed economicismo. Rivendichiamo ovunque l’autonomia delle nostre scelte politico-elettorali, nazionali e locali, in alternativa alle forze riformiste e centriste: per esempio respingendo oggi la proposta avanzata da Sinistra Critica di una lista unitaria col PRC abruzzese, ipergovernista e compromesso in una giunta di malaffare travolta dagli scandali.

Ma al tempo stesso abbiamo sempre ricercato e ricercheremo sempre la più ampia unità d’azione nelle lotte e nei movimenti contro i partiti borghesi e i loro governi, nell’interesse generale del movimento operaio e dello sviluppo del movimento di massa. Con questa logica abbiamo lavorato negli anni passati per il più ampio fronte di lotta contro il governo Prodi. Con questa logica abbiamo oggi proposto una grande manifestazione unitaria della sinistra italiana contro il governo Berlusconi e il padronato, con una pubblica indicazione di data ( 11 ottobre ) e la richiesta di un comitato promotore unitario.
La nostra partecipazione all’assemblea del 9 settembre sta perfettamente in questo quadro più generale di iniziativa unitaria e di confronto aperto. Ancora una volta vi chiediamo: perché escludere il PCL dalla promozione dell’assemblea?

A meno che la nostra vera “ responsabilità “ sia, al fondo, quella di essere ciò che siamo: programmaticamente, politicamente, organizzativamente indipendenti; impegnati nella costruzione di un partito comunista e rivoluzionario; e per questo avversi a pateracchi politici ed elettorali senza principi.
Se questa è la “ colpa “, non c’è rimedio. Gradiremmo solo, nel caso, lo diceste con chiarezza , con un’assunzione di responsabilità politica e senza ricorrere a piccole furbizie.

In attesa di una vostra risposta vi inviamo

Fraterni saluti anticapitalisti

L’Esecutivo del Partito Comunista dei Lavoratori

Milano 11/8/08

L’Esecutivo del Partito Comunista dei Lavoratori

 
 
 

Post N° 47

Post n°47 pubblicato il 06 Agosto 2008 da pcltorino
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Prc: svolta a sinistra o trasformismo?

di Marco Ferrando - Portavoce nazionale del Pcl

(5 agosto 2008)

Il settimo Congresso del Prc, nella sua dinamica e nel suo esito, non può davvero essere ridotto a fatto interno di partito. Esso è parte di un processo più generale di ricomposizione della sinistra italiana, e per questo richiama, anche per il Partito comunista dei lavoratori, la responsabilità di un giudizio politico impegnativo.

Ho e abbiamo un rispetto profondo per i militanti e gli iscritti di Rifondazione comunista, ove ho militato per quindici anni. E ho ragione di credere che questo rispetto sia ricambiato. Proprio per questo voglio onorarlo col dono della sincerità - com'è dovere dei comunisti - fuori da ogni ipocrita diplomatismo.

No, non ho visto nell'esito del settimo congresso quella svolta strategica "a sinistra" che tanti tendono in questi giorni, per interessi opposti, ad esaltare o demonizzare. Ho visto piuttosto un altro fenomeno, sicuramente anch'esso "di svolta", ma di altra natura: un ricambio traumatico degli assetti dirigenti, nel segno di una guerra spietata per la leadership e di uno spregiudicato trasformismo.

Il cuore del vecchio gruppo dirigente "bertinottiano" ha perso non un congresso, ma un partito: più precisamente il "suo" partito, quello che per lungo tempo è stato il partito del segretario, e dei gruppi dirigenti che egli ha raccolto e selezionato attorno a sé sulla base della fedeltà alla linea. Quel gruppo dirigente - è bene riconoscerlo - non è stato travolto da un complotto interno, ma, in ultima analisi, dall'onda d'urto della disfatta di quell'intero corso politico che ha trascinato Rifondazione nel governo del grande capitale, e che per questo l'ha compromessa, contro i lavoratori, nei sacrifici sociali e nelle missioni di guerra.

Ma proprio qui sta, a me pare, il primo paradosso del congresso. La nuova leadership non solo non è stata l'esito di una battaglia interna contro quella lunga politica di compromissione, ma si è improvvisamente incarnata nell'unico "ministro comunista" del governo confindustriale di Prodi: ossia in chi, fino all'ultimo e senza incertezze, ha direttamente cogestito per due anni le politiche della borghesia (col plauso postumo di D'Alema); ha pubblicamente difeso il proprio voto ministeriale a tutte le scelte di fondo del governo (decreto antirumeni incluso); ha avuto persino un ruolo diretto nella repressione di quelle minoranze interne del Prc che, in fasi diverse e con diverse coerenze, contrastavano o disturbavano il governismo del partito. Non è un po' singolare?

Osservo questo, sia ben chiaro, non per contestare il diritto alla conversione politica anche la più repentina, che è un diritto democratico di chiunque, persino di un ex ministro, persino se avviene dopo la caduta del governo e alla vigilia di un congresso. Ma perché questo interroga la credibilità politica della "svolta a sinistra" che il congresso ha annunciato, e quindi la stessa natura del nuovo Prc nella sinistra italiana.

Dov'è il segno della "svolta strategica", nelle stesse pieghe del documento congressuale conclusivo?

Nel testo approvato dalla nuova maggioranza non vi è un solo rigo - uno solo - sulle responsabilità del Prc negli anni di Prodi contro i lavoratori e i movimenti (neppure sulle missioni di guerra). Si dice semplicemente che «è superata la collaborazione organica col Pd nella fallimentare esperienza dell'Unione». Ma questa non è né un'autocritica, né una svolta: è la banale constatazione postuma di un decesso.Nel testo si legge che «è sbagliato» riproporre oggi il centrosinistra «quando il Pd ha una linea neocentrista» e «i rapporti di forza esistenti» sono sfavorevoli. Dunque se un domani il Prc si rafforzasse e il Pd "riaprisse" al Prc, si potrebbe ritornare al governo col Pd di Calearo e Colaninno? Emblematico è il passo sulle giunte locali. Dove non c'è alcuna rettifica di linea generale. Si dice semplicemente che «andranno verificate» sui contenuti. Ma è quello che si ripete ritualmente da tredici anni; è quello che ha ritualmente ribadito persino il recente congresso del Pdci (!); è la frase canonica con cui si rimuove la verifica impietosa dei fatti, quelli che vedono assessori di Prc e Pdci in tutta Italia coinvolti da anni in amministrazioni sempre più impresentabili (inclusa la provincia di Milano, la Toscana, la Liguria, come ieri l'Abruzzo…). In base ad una linea nazionale spregiudicata che ha sempre usato la partecipazione alle giunte come canale di rapporto col centrosinistra nazionale, o come leva negoziale di pressione per ricomporre il centrosinistra. Il fatto che il primo atto del nuovo segretario del Prc sia stato quello di rassicurare il Pd sulla continuità delle giunte chiarisce ogni dubbio al riguardo. E' questa la "svolta a sinistra"?

Peraltro da quando è nato, il Prc celebra in ogni congresso una "svolta a sinistra". Fu chiamata "svolta a sinistra" l'opposizione al governo Dini nel '95: ma servì a preparare contrattualmente il primo accordo di governo con Romano Prodi ('96). Quello del voto al pacchetto Treu e ai Cpt. Fu chiamata "svolta a sinistra" quella del '98, poi ricelebrata nel 2002, sullo sfondo della stagione dei movimenti: ma servì a ricostruire la massa critica negoziale per ricomporre il secondo governo Prodi (2006), con tanto di sottosegretari, ministri, presidenze. L'attuale "svolta a sinistra" del Prc si muove in un contesto politico certo più problematico e con un partito notevolmente più debole: ma la sua immutata ambizione è quella di favorire il ritorno, in prospettiva, nel grande gioco del governo.

Del resto, se il "comunismo" rimane - per citare Ferrero - un puro "universo simbolico"; se dunque, al di là delle parole, tutto si riduce all'esistente (cioè al capitalismo reale), per quale ragione di principio si dovrebbe rinunciare ad un assessore oggi e a un ministro domani? Se tutto si riduce all'esistente, il governo dell'esistente diventa il tutto: cioè la meta della politica. E l'opposizione, anche la più gridata, diventa ogni volta l'anticamera del governo o della sua ricerca. Questa è stata la storia della socialdemocrazia e dello stalinismo nella lunga pagina del Novecento. Quella Rifondazione che avrebbe dovuto ripudiarla, l'ha invece riproposta, seppur in miniatura.

E qui osservo un secondo paradosso del settimo congresso. Meno appariscente del primo, ma forse ancora più clamoroso. Quello che ha visto la confluenza attorno a Ferrero, in una comune maggioranza politica, di quei gruppi dirigenti del terzo e quarto documento che avevano formalmente evocato, anche contro Ferrero, la necessità di una autentica Rifondazione. E' troppo vedere anche qui il segno triste del trasformismo? Il terzo e quarto documento avevano denunciato pubblicamente per mesi la "falsa alternativa" tra Ferrero e Vendola. Avevano raccolto il voto di migliaia di militanti comunisti del Prc attorno al rifiuto del bipolarismo interno. Avevano raccolto più in generale, su basi politiche diverse, una domanda reale di svolta strategica, comunista e classista, del partito.

Ma tutto questo patrimonio di quadri e militanti è stato portato in dote alla nuova leadership in sole 48 ore. La "svolta operaia" di Falce e Martello si è improvvisamente inchinata alla continuità degli assessori. La celebrazione retorica della Rivoluzione d'Ottobre si è sposata con "la ricerca della non violenza". Il comunismo più ideologico o formalmente "rivoluzionario" ha scoperto "la Sinistra europea". Il tutto in cambio di qualche pallidissima concessione letteraria (e della pubblica promessa di nuovi ruoli di gestione).
Questa è la vera vittoria di Paolo Ferrero. E la misura, se posso complimentarmi, della sua indubbia capacità. Non quella di aver sconfitto Vendola, con cui ha condiviso il corso politico governativo. Non quella di aver conquistato la leadership di quel campo di rovine che lui stesso ha concorso a produrre. Ma quella di aver assimilato e arruolato le sinistre interne. Come aveva fatto Bertinotti, proprio con Paolo Ferrero e la sua area, nel '95. Come Bertinotti e Ferrero avevano fatto con l'area di Bandiera Rossa (futura Sinistra Critica) nel '98-2003. Ogni volta le cosiddette "svolte a sinistra" hanno assimilato le sinistre interne claudicanti e disponibili, sgombrando la via alle successive svolte governiste. La storia si ripete, come si vede, immemore delle lezioni. Lasciando ogni volta sulla strada, purtroppo, migliaia di compagni disorientati, delusi, traditi.

Il Partito comunista dei lavoratori è nato da una lunga battaglia politica e morale, controcorrente, contro il trasformismo della sinistra italiana. Anche di quello che ha attraversato il Prc. Il bilancio del settimo congresso di Rifondazione ci consolida nelle nostre ragioni e nelle nostre scelte.

Naturalmente ci rapporteremo con attenzione al nuovo Prc di Paolo Ferrero. Ricercheremo ovunque possibile la più ampia unità d'azione nella lotta contro il padronato e Berlusconi: a partire da quella grande manifestazione unitaria d'autunno che proponiamo per l'11 Ottobre e che sarebbe ora di iniziare a preparare. Saremo disponibili a costruire col Prc e con tutti i suoi compagni e compagne, esperienze comuni di confronto e di iniziativa nelle quotidiane battaglie di classe, ambientaliste, antimperialiste, femministe. E speriamo anche, finalmente, anticlericali.

Ma lo faremo orgogliosi della nostra costruzione indipendente e della nostra identità: quella dell'unico partito della sinistra italiana che non si è inginocchiato di fronte alla borghesia; che non si è compromesso, né in tutto, né "criticamente", nella disfatta di questi anni; che ha fatto e fa dell'indipendenza di classe del movimento operaio, e quindi della rottura col Pd confindustriale (ieri, oggi e domani), l'asse strategico della propria proposta politica nella prospettiva di un'alternativa anticapitalista. L'unico partito, insomma, che considera il comunismo non un simbolo da riverire, ma un programma da realizzare: quello della rivoluzione sociale e del governo dei lavoratori.

 
 
 

Post N° 46

Post n°46 pubblicato il 03 Agosto 2008 da pcltorino

IL NUOVO RIFORMISMO DI PAOLO FERRERO

        E LA POLITICA DEI RIVOLUZIONARI

L’esito del settimo congresso nazionale del PRC, con l’avvento della segreteria Ferrero e di una nuova maggioranza politica, non è un semplice episodio congressuale interno del PRC, ma è parte del più ampio processo di ricomposizione degli assetti della sinistra italiana.

Tanto più dunque è importante una prima analisi dell’accaduto, e una prima definizione dell’orientamento, al riguardo, dei marxisti rivoluzionari.

Il tracollo della componente bertinottiana

Il settimo congresso del PRC ha innanzitutto sancito la sconfitta definitiva della componente strettamente bertinottiana del partito: quella componente più organicamente “socialdemocratico-governativa” che aveva lavorato per la liquidazione organizzativa del PRC entro la costituente di una più ampia sinistra socialdemocratica, quale sinistra del centrosinistra.

Questo progetto – inizialmente concordato da Bertinotti coi vertici del PD – è stato prima minato nella sua credibilità dalla traumatica esperienza Prodi e dal suo fallimento; poi è stato dissestato dal nuovo corso veltroniano; poi ancora è stato colpito nel profondo dalla disfatta elettorale dell’Arcobaleno e dall’estromissione dal Parlamento; infine è stato sconfitto impietosamente nel congresso del partito.

La sconfitta congressuale di Bertinotti-Vendola-Giordano va ben al di là dei suoi numeri percentuali: la componente bertinottiana ha perso il controllo di quel partito su cui pensava sino al’ultimo di detenere un diritto divino di comando. La caduta rovinosa di Bertinotti, a seguito del voto del 13-14 Aprile, ha trascinato con sé il grosso di quel gruppo dirigente diffuso che Bertinotti stesso, per dieci anni, aveva selezionato e promosso attorno a sé. Senza l‘autorevolezza di un Bertinotti ormai defilato, e sullo sfondo della disfatta elettorale, quel gruppo dirigente si è rivelato profondamente debole: capace di usare la leva dei propri ruoli istituzionali ai fini del controllo clientelare di settori del PRC e del suo tesseramento (in particolare nel Sud) ma incapace di costruire egemonia politica sul corpo complessivo del partito.

La leva vendoliana dei giovani dirigenti “poeti”, capaci di slanci lirici nella denuncia dei mali del mondo, ma incapaci di un’argomentazione razionale di analisi e di linea, poteva reggere nel momento della “vittoria”, quando si trattava di celebrare “il capo” (Bertinotti); ma ha mostrato tutta la sua inconsistenza e impotenza nel momento della sconfitta, che ha coinciso non a caso col suo tracollo.

La minoranza Vendola-Giordano non rinuncerà al proprio progetto politico di costituente di sinistra, seppur oggi disponendo di una forza molto minore e trovandosi su un terreno ben più accidentato (polverizzazione della “sinistra radicale”; concorrenza di Sinistra Democratica e ambienti PD; incognita della legge elettorale). Ma lo persegue da soggetto prevalentemente esterno al PRC, in veste di sua “frazione pubblica”. Se dunque la scissione ancora non c’è, la dinamica probabile pare quella della scissione. Ciò che da un lato misura la piena consapevolezza da parte della minoranza del carattere irreversibile della sconfitta interna subita, dall’altro la espone a emorragie di ritorno in direzione della nuova maggioranza del partito.

La natura trasformista della nuova maggioranza

La nuova maggioranza dirigente del PRC è il prodotto di una spregiudicata operazione trasformista, promossa e diretta da Paolo Ferrero.

Bisogna dare alle cose il loro nome. L’ex ministro del PRC è stato, in quanto tale, fino a ieri, il più diretto corresponsabile, nel partito, delle politiche di sacrifici sociali e di guerra del governo confindustriale di Prodi. Durante l’intera esperienza di governo, non solo non ha mai posto in discussione, neppure per ipotesi, la permanenza del PRC nell’esecutivo, ma si è segnalato sino al’ultimo come il più convinto sostenitore…del proprio ruolo di ministro. Sino a difendere pubblicamente il proprio voto favorevole nel Consiglio dei Ministri al decreto razzista antirumeni dopo il caso Reggiani. Peraltro fu proprio Paolo Ferrero a mostrare la maggiore durezza nella repressione burocratica delle minoranze di sinistra del PRC: nel primo caso contro Progetto Comunista, in occasione del cosiddetto “caso Ferrando” (2006); in secondo luogo nei confronti di Franco Turigliatto e di Sinistra Critica. Da ogni punto di vista, insomma, il governismo di Ferrero è stato davvero di ferro.

Ma, dopo il tracollo del governo e la disfatta elettorale, e alla vigilia del congresso, Paolo Ferrero ha improvvisamente impugnato la bandiera della “svolta a sinistra” al fine di capitalizzare il malcontento interno e usarlo come leva del suo vero e unico obiettivo strategico: non la rifondazione del comunismo, ma la conquista…. della segreteria del partito. Un obiettivo che Ferrero perseguiva dal 2005, da quando si aprì la lotta interna al campo bertinottiano sulla successione a Bertinotti.

Peraltro la biografia politica di Ferrero nel PRC dimostra che le brusche svolte non sono insolite per lui. Né mai sono state innocenti. Ne ’94, in occasione del secondo congresso del PRC, Ferrero concorse alla formazione della seconda mozione, che contestava la disponibilità del PRC a entrare nel governo del vagheggiato “polo progressista”: e grazie al risultato lusinghiero di quella mozione (20 %), Ferrero entrò con altri cinque compagni nella direzione nazionale del partito in rappresentanza della minoranza. Ma passarono appena sei mesi, e Ferrero scoprì improvvisamente il fascino irresistibile di Fausto Bertinotti: scaricò in fretta e furia la minoranza che lo aveva eletto in cambio dell’ingresso premio nella segreteria nazionale. E dopo un anno diventò il più convinto alfiere del primo accordo di governo col centrosinistra: quello che impegnò il PRC per due anni (Bertinotti, Cossutta e Ferrero fianco a fianco) nel voto al pacchetto Treu, alle finanziarie lacrime e sangue, ai CPT per gli immigrati. E fu proprio Paolo Ferrero a battersi in prima linea a difesa della scelta di governo contro la vecchia sinistra interna: la conquista di un posto in segreteria valeva bene la folgorazione governista.

Così oggi, la scalata al ruolo di segretario val bene la recita della “svolta a sinistra”. Il segno politico è diverso, ma la spregiudicatezza è la stessa. In questo caso la grande capacità di Ferrero è stata quella di costruire attorno al proprio progetto di leadership e al suo rivestimento ideologico una coalizione eterogenea di forze interne, anche tra loro tradizionalmente avversarie. Prima costruendo l’aggregazione della 1° mozione congressuale con la componente togliattiana di Claudio Grassi (Essere Comunisti) e ottenendo la propria egemonia in quella aggregazione. Poi, in sede di congresso nazionale, riuscendo a raccogliere e usare, a proprio vantaggio, le disponibilità dei dirigenti del terzo documento (Ernesto, Area fiorentina, Oltre, Controcorrente) e dei dirigenti del quarto documento (Falce e Martello), che gli hanno portato in dote i propri delegati in cambio di qualche timida concessione letteraria nel testo politico, e soprattutto di qualche ruolo dirigente nella gestione del partito.

Questa è la nuova maggioranza politica del PRC. Una maggioranza certo risicata nei numeri, costretta a fronteggiare una gravissima crisi, segnata da contraddizioni interne, politiche e culturali, profonde. E tuttavia una maggioranza apparentemente determinata a reggere la prova e cementata dall’ebbrezza della conquista di nuovi ruoli. Se riuscirà a tenere nella prossima fase – come è probabile – potrà avvalersi di fisiologici ritorni sul carro del vincitore di settori bertinottiani in disarmo e non più “garantiti”: questo accentuerà ulteriormente i caratteri trasformistici della maggioranza, ma allargherà anche il suo spazio di manovra e di tenuta. Inoltre, l’autonomizzazione della componente vendoliana come frazione pubblica, se da un lato può aggravare per alcuni aspetti la crisi di immagine del partito, dal’altro può favorire, per reazione autodifensiva, il consolidamento della nuova gestione del PRC.

Con tutte le dovute cautele nell’analisi, è dunque possibile prevedere la stabilizzazione di fase di un “nuovo PRC”, sotto l’egemonia del vecchio gruppo dirigente di DP e dell’ala togliattiana del partito. Non sarà il ritorno a DP, fosse pure allargata, ma neanche necessariamente la semplice continuità, in piccolo, del PRC bertinottiano.

“Svolta a sinistra” o bertinottismo “d’antan”?

La cosiddetta “svolta a sinistra” del nuovo PRC – tanto enfatizzata per ragioni diverse sia dalla nuova maggioranza, sia dai vendoliani, dal PD, dalla stampa borghese – ha in realtà una portata molto limitata e contraddittoria. I maggiori accenti letterari sull’impegno sociale e sulla critica al PD, convivono infatti con tutti i tratti di continuità della politica riformista. Anche sul terreno, ove possibile, della diretta collaborazione di classe e della prospettiva di una ricomposizione col PD.

Lo stesso testo fondativo della nuova maggioranza del PRC, è sotto questo profilo esemplare.

a) Il vantato bilancio “autocritico” dell’esperienza Prodi è ridotto ad “un errore d’analisi dei rapporti di forza esistenti” e alla conseguente assenza di risultati per i lavoratori; tacendo così, totalmente, sui…risultati assicurati per due anni alla borghesia, e cioè sul crimine compiuto contro i lavoratori votando la continuità della legge 30, il regalo di dieci miliardi a grandi imprese e banche, la continuità delle missioni di guerra, in cambio di ruoli ministeriali e istituzionali. Non è un silenzio casuale: tacere su quel crimine era ed è la condizione stessa per incoronare a segretario il ministro corresponsabile di quel crimine.

b) Il testo della nuova maggioranza non parla affatto di “rottura col PD”. Si dice un’altra cosa: <>. Ma questa più che la “svolta a sinistra”, è la pura constatazione postuma di un decesso! E poi:<>. Dunque con altri futuri “rapporti di forza” sarà possibile un blocco di governo con il partito di Calearo-Colaninno? E ancora:<> rende <>. Significa che si può riproporre il centrosinistra quando il PD…deciderà di reimbarcare Rifondazione? La verità è che il testo congressuale rimuove ogni analisi della natura di classe del PD, proprio per lasciare aperta la via di future ricomposizioni negoziali con quel partito. Semplicemente considera il rilancio del PRC (politico ed elettorale) come la condizione contrattuale necessaria per il recupero del centrosinistra e del governo. Ma non è stata esattamente questa la politica di Bertinotti (e Ferrero) dopo la caduta del primo governo Prodi (’98) in attesa di ricomporre il secondo governo Prodi (2006)?

c) Il testo della nuova maggioranza non rivendica affatto l’uscita dalle giunte di centrosinistra. Il testo dice che: <>. Il che, a prescindere da ogni altra considerazione, significa ignorare la verifica dei fatti, già realizzata in ben tredici anni di governi locali di centrosinistra, e dunque legittimare la continuità di quelle esperienze, magari con qualche ritocco. Non a caso la prima dichiarazione pubblica di Ferrero, dopo la sua elezione a segretario, è stata quella di rassicurare il PD sulla continuità delle amministrazioni locali. Nelle quali siedono, è bene ricordarlo, tanti assessori del PRC legati proprio alla nuova maggioranza del partito: come nel caso della giunta paraleghista di Penati nella provincia di Milano (assessore Barzaghi); nella giunta iperliberista di Martini in Toscana (assessore Baronti); nella giunta regionale iperprivatizzatrice di Burlando in Liguria (assessore Zunino); così come fino a ieri nella giunta del malaffare abruzzese (assessora Betty Mura). Significa dunque che non vi sarà nessun caso di possibile rottura di singoli accordi locali? No, non è escluso (come del resto accadde occasionalmente anche in epoca bertinottiana, ad esempio nel comune di Firenze). Ma certo la linea generale è un’altra, ed è quella di sempre: tenere ben salde, ovunque possibile, le proprie radici nelle giunte locali di centrosinistra ai fini del possibile rilancio negoziale di un accordo nazionale di centrosinistra. Ma non è questa esattamente la riproposizione dell’impostazione bertinottiana del ’94-’95 e del ’98-2006?

d) Il testo della nuova maggioranza, generalmente presentato come atto di rilancio dell’identità comunista del partito, rimuove totalmente proprio la tematica del comunismo come programma anticapitalista. Il richiamo al comunismo, come in tutta la tradizione del PRC, resta un riferimento simbolico. Per citare Paolo Ferrero, nel suo intervento al congresso, “Il comunismo è un universo simbolico”; cioè una bandiera, una falce e martello, una storia, una critica del capitalismo, tutto ciò che si vuole, tranne che un concreto programma di “abolizione dello stato di cose presenti” (Marx). E proprio perché astratto, questo universo simbolico del comunismo può abbracciare con la massima disinvoltura tutto e il suo contrario, come per l’appunto nel testo di maggioranza del PRC: dalla “ricerca sul tema della non violenza” (sic) alla citazione dei “movimenti rivoluzionari” (?); dal riferimento al partito della Sinistra europea (neosocialdemocratica) al riferimento ai “partiti comunisti” stalinisti (incluso, secondo l’Ernesto, il PC cinese e il PC coreano, sempre a proposito…di non violenza). Peraltro, proprio perché ridotto a puro universo simbolico, il “comunismo” di Ferrero non comporta alcuna ricaduta sull’impostazione rivendicativa, politica e programmatica, nel presente. E infatti convive, nel testo di maggioranza, con un programma esclusivamente immediato e minimale. “Diritti sociali, civili, ambientali, sono per noi le diverse facce di uno stesso progetto: l’alternativa di società”, afferma il testo. Ma siccome nulla si dice su cosa sia l’alternativa di società, dal punto di vista dei rapporti di produzione, di proprietà, di potere, resta solo la rivendicazione dei diritti, magari nella forma – afferma il testo – di “una stagione referendaria sulle questioni della precarietà, della democrazia nei luoghi di lavoro, dell’antiproibizionismo…”. Naturalmente, non siamo contrari per principio al ricorso a iniziative referendarie su temi sociali o civili (a differenza di Falce e Martello che ora, come si vede, si è rapidamente convertito). Ma è possibile ridurre l’anticapitalismo comunista alla campagna referendaria sui diritti (in vecchio stile DP), senza oltretutto selezionare nessuna proposta concreta di impostazione politica, di parole d’ordine, di linea di massa, neppure sull’opposizione di classe in autunno contro il governo e il padronato?

Ancora una volta, sotto il vestito niente. E del resto: se la prospettiva politica reale resta quella di una futura ricomposizione negoziale col PD, a partire dalla continuità delle giunte locali di centrosinistra, come può dispiegarsi in quel quadro una svolta reale sul terreno dell’azione di massa e dell’elaborazione programmatica anticapitalistica?

 

 

La capitolazione delle sinistre interne

I gruppi dirigenti delle mozioni interne di sinistra (terzo e quarto documento) hanno sorretto l’operazione trasformista dell’ex ministro Ferrero con il proprio trasformismo.

Dopo aver condotto una campagna congressuale mirata formalmente a denunciare la “falsa alternativa” del documento Ferrero rispetto alla mozione Vendola, hanno usato le migliaia di voti raccolti per votare Ferrero segretario e promuovere una maggioranza politica con Ferrero. Migliaia di militanti di base del PRC che nei propri congressi di circolo avevano espresso, in forme diverse, la domanda di una svolta coerente, comunista e classista, si trovano prigionieri di una maggioranza guidata dall’ex ministro di un governo di guerra, attorno a un indirizzo politico subalterno.

Tutti gli argomenti tesi a giustificare il sostegno politico a Ferrero (“Non potevamo far altro”, “La dinamica che si è aperta sposterà Ferrero a sinistra”, “Bisogna stare nei processi”) sono solo l’eterna ripetizione degli argomenti che tutte le varie sinistre centriste del PRC hanno opposto per quindici anni alla battaglia indipendente dell’opposizione marxista rivoluzionaria in quel partito (’91-2006): come nel ’95 (in occasione del contrasto tra Bertinotti-Cossutta e l’opposizione di destra di Magri e Crucianelli); come nel ’98 (in occasione della rottura tra Bertinotti e Cossutta); come nel 2002 (in occasione del contrasto tra Bertinotti e Grassi sullo sfondo della stagione dei movimenti). Ogni volta le varie sinistre centriste motivavano l’accordo politico con Bertinotti contro la destra interna, in nome della “dinamica”, del “processo reale”, dello “stare nei processi”. E ogni volta i marxisti rivoluzionari – che sempre combinarono la battaglia contro le destre interne con la rigorosa indipendenza politica dal bertinottismo – furono accusati di astrattezza, rigidità ideologica, incomprensione della realtà. Salvo vedere confermate tutte le proprie ragioni e previsioni.

La storia si ripete oggi in rapporto a Paolo Ferrero e in un contesto nuovo. I gruppi dirigenti del terzo e quarto documento si sono rivelati clamorosamente incapaci di difendere e sviluppare l’indipendenza politica delle proprie ragioni dalle pressioni delle componenti riformiste (demoproletarie e grassiane) e del bipolarismo interno al PRC. E’ la riprova che senza un progetto di costruzione di un partito indipendente, comunista e rivoluzionario, ogni opposizione interna al PRC è destinata, in un modo o nell’altro, alla subalternità politica.

E questa subalternità non solo oggi si è espressa nel voto congressuale a un documento riformista, ma si manifesta sin dalle prime ore dopo il congresso nell’adattamento alle compatibilità interne della nuova maggioranza. Persino sul terreno discriminante delle giunte locali. Laddove, ad esempio, Claudio Bellotti (quarto documento) che sino a due giorni prima chiedeva l’uscita dalle giunte, ora dichiara su Liberazione che “Va data facoltà ai territori di decidere a partire dai contenuti” (Lib, 29 Luglio). Che è esattamente la foglia di fico universale della continuità decennale delle giunte di centrosinistra. Chiediamo: è questo che avevano votato, nei congressi, i compagni del quarto documento?

Il PCL e la “nuova Rifondazione”

Il Partito Comunista dei Lavoratori è nato da una lunga battaglia politica e morale, controcorrente, contro il trasformismo della sinistra italiana. Anche di quello che ha attraversato il PRC. Il bilancio del settimo congresso del PRC ci consolida nelle nostre ragioni e nelle nostre scelte.


Naturalmente ci rapporteremo con attenzione al nuovo PRC di Paolo Ferrero. Ricercheremo ovunque possibile la più ampia unità d'azione nella lotta contro il padronato e Berlusconi: a partire da quella grande manifestazione unitaria d'autunno che proponiamo per l'11 Ottobre e che sarebbe ora di iniziare a preparare. Saremo disponibili a costruire col PRC e con tutti i suoi compagni e compagne, esperienze comuni di confronto e di iniziativa nelle quotidiane battaglie di classe, ambientaliste, antimperialiste, femministe. E speriamo anche, finalmente, anticlericali.
Ma lo faremo orgogliosi della nostra costruzione indipendente e della nostra identità: quella dell'unico partito della sinistra italiana che non si è inginocchiato di fronte alla borghesia; che non si è compromesso, né in tutto, né "criticamente", nella disfatta di questi anni; che ha fatto e fa dell'indipendenza di classe del movimento
operaio, e quindi della rottura col PD confindustriale (ieri, oggi e domani), l'asse strategico della propria proposta politica nella prospettiva di un'alternativa anticapitalista. L'unico partito, insomma, che considera il comunismo non un simbolo da riverire, ma un programma da realizzare: quello della rivoluzione sociale e del governo dei lavoratori.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

Post N° 45

Post n°45 pubblicato il 28 Luglio 2008 da pcltorino
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BASTA    CON     I    PAROLAI      COSTRUIAMO    IL   PARTITO     DEGLI      OPERAI

Il 14 dicembre del 2007 la Stampa borghese dichiarava : “Finalmente c’è l’intesa per i 17 turni alla Powertrain di Mirafiori; la sigla del voluminoso testo, 19 pagine, è arrivata ieri dopo mesi di trattativa.”, per quanto ci riguarda l’ennesima dimostrazione che  la burocrazia sindacale é parte integrante di quella concertazione che tanto danno ha prodotto sulla pelle dei lavoratori e che tanto  produrrà nuovamente con il nuovo modello della contrattazione aggravando ulteriormente la condizione operaia.

Ma l’accordo voluto fortemente dalla Fiat e concordato dai vertici burocratici delle organizzazioni sindacali confederali al giudizio dei lavoratori tramite referendum viene bocciato.

Un NO importante che riporta al centro i lavoratori e i loro bisogni e che riporta nelle loro mani il diritto a scegliere sul proprio futuro, un no che rivendica e ribadisce un concetto semplice e lampante questo accordo non è altro che un aumento dello sfruttamento operaio.

I lavoratori e alcuni delegati hanno respinto l’accordo consapevoli che tutto questo rappresentava e rappresenta nei fatti nient’altro che un maggior sfruttamento, che significava e significa ancor di più oggi un intensificazione dei ritmi di lavoro: altro che tempo di lavoro liberato! Che fine ha fatto tutta la demagogia dei burocrati sulla riduzione dell’orario di lavoro? Che fine ha fatto la grande discussione politico-culturale del tempo liberato dal lavoro per mezzo delle 35ore?

I Sindacati Confederali, in nome della concertazione, (non considerando  l’esito del referendum con cui i lavoratori bocciavano l’accordo, anzi denigrando quel risultato), vergognosamente trattano nuovamente e siglano l’accordo in barba a tutti su un prolungamento dei turni di lavoro, acconsentendo i 17 turni, accettando in questo modo la saturazione degli impianti, il dover far lavorare il sabato mattina, i giorni festivi, iniziando il turno successivo la domenica notte (e nel frattempo la Fiat per questo anno comunica settimane di cassa integrazione ogni mese) significa nei fatti  rigettare nel cestino la risposta e il giudizio di tale accordo da parte dei lavoratori, come se quella risposta non contasse assolutamente nulla facendo rientrare dalla finestra ciò che i lavoratori avevano rigettato fuori dalla porta. Intanto ogni giorno i morti sul posto di lavoro non diminuiscono anzi aumentano,sono le turnazioni, gli straordinari, gli aumenti dei carichi di lavoro, la riduzione degli organici i responsabili di tali tragedie . In realtà la classe operaia continua a produrre con il suo lavoro ricchezza che le viene estorta dai profitti in crescita esponenziale: soffre di uno sfruttamento e di una intensità di lavoro anche superiore al passato. In cambio riceve bassi salari e paga i suoi sacrifici con migliaia di morti e centinaia di migliaia di feriti l’anno.

I delegati di fabbrica devono rispondere alle esigenze e ai bisogni dei lavoratori e non ai vertici delle burocrazie sindacali e devono essere revocabili in qualsiasi momento su richiesta dei lavoratori stessi.

BASTA CON I PAROLAI, COSTRUIAMO IL PARTITO DEGLI OPERAI

Per combattere questa realtà è necessario un programma anticapitalista che implichi l’instaurazione del controllo operaio su tutti gli aspetti della vita in fabbrica.

Occorre aprire una vertenza generale per il recupero del salario dall’inflazione-vedi ripristino della scala mobile-, occorre abolire la legge 30 e la legge Treu: ci servono forti aumenti salariali uguali per tutti di 300 euro, bisogna batterci per eliminare il supersfruttamento delle cosiddette Cooperative o delle piccole imprese appaltatrici definendo un salario minimo intercategoriale di almeno 1300 euro netti al mese.

Basta con le intese e gli accordi sulla testa dei lavoratori.

Uniamoci nelle lotte contro le burocrazie sindacali e padronato insieme rilanciamo e rivendichiamo l’indipendenza del movimento operaio e la sua conquista del potere;  diciamo basta ai parolai, costruiamo insieme il Partito degli operai, costruiamo insieme il Partito Comunista dei Lavoratori.

 

 

 
 
 

Post N° 44

Post n°44 pubblicato il 24 Luglio 2008 da pcltorino
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Marco Ferrando su Congresso PdCI

(20 luglio 2008)


ANSA) - ROMA - «L'unità dei comunisti per contrattare col Pd, come
ha dichiarato testualmente Oliviero Diliberto nella sua replica
congressuale, non interessa il Partito Comunista dei Lavoratori». Lo
afferma il leader del PCL, Marco Ferrando, secondo cui tale invito
«sarebbe infatti la continuità, in altre forme, della politica della
disfatta: quella ha subordinato 'unitariamente' le sinistre, per due
anni, al governo Prodi, alle sue missioni militari, ai sacrifici
sociali, e che spianato la strada al peggiore ritorno di Berlusconi. È
la linea che tutt'ora le subordina alle giunte di centrosinistra in
tutta Italia, incluse quelle del malaffare e coinvolte negli scandali,
come in Abruzzo o in Calabria».


«Il Pcl vuole invece - prosegue Ferrando - unificare i Comunisti su
principi chiari, nella più totale autonomia e alternatività al Pd e al
centrosinistra. Siamo naturalmente disponibili alla più larga unità
d'azione tra le sinistre sul terreno della lotta contro Berlusconi e il
padronato: e in questo senso sosteniamo la proposta di una
manifestazione unitaria e autonoma della sinistra in autunno. Ma
continueremo a contrastare l'uso delle lotte e dei movimenti come
pedina negoziale per un accordo coi loro avversari 'democratici'».


 
 
 

Post N° 43

Post n°43 pubblicato il 02 Giugno 2008 da pcltorino
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DICIAMO NO AL  DOCUMENTO CGIL CISL UIL SULLA RIFORMA DEL MODELLO CONTRATTUALE

prepararsi allo scontro, non a nuove concessioni !

In questi giorni in tutte le fabbriche si convocano assemblee per illustrare l’ennesima truffa ai danni dei lavoratori,infatti nelle prossime assemblee CGIL,CISL e UIL presenteranno ai lavoratori il documento redatto dalle burocrazie sindacali  sulla riforma della contrattazione.

Dopo 15 anni di sacrifici , di fronte alla catastrofica situazione dei bassi  salari dei lavoratori, invece di mettere in discussione la causa e cioè una politica di concertazione e moderazione salariale si ripropone l’ennesima minestra riscaldata ,l’ennesima richiesta di sacrificio.

Il documento dichiara che per migliorare le condizioni di reddito, di sicurezza e qualità del lavoro è necessaria la crescita della qualità,della competitività e della produttività : prima la produttività poi i soldi.

Non si parla mai di redistribuzione della ricchezza prodotta, che va sempre di più tutta a vantaggio del profitto. In altri termini il concetto è: se vuoi guadagnare di più devi lavorare di più.

Il documento limita l’aumento salariale da contrattare nazionalmente all’inflazione “realisticamente prevedibile”, che verrà misurata con un nuovo paniere. Nei fatti le richieste dei contratti nazionali verranno preventivamente vincolate a quanto concordato a livello centrale tra confederazioni e controparti. Il riferimento al “sostegno e alla valorizzazione del potere d’acquisto”o meglio il “realisticamente prevedibile “ significa : chiamare con un altro nome quell’inflazione programmata che ha distrutto nei contratti il potere d’acquisto dei salari. Infine, si allunga di tre anni la durata dei contratti, diluendo ancor di più nel tempo gli scarsi aumenti salariali degli accordi nazionali.

Si sostiene che per “accrescere” i salari la sede è la contrattazione di secondo livello ( quella fatta all’interno delle aziende ). Tutte le regole della contrattazione di secondo livello verranno di nuovo ridefinite con i rinnovi dei contratti nazionali. In sintesi, quando si concorderanno gli aumenti dei contratti nazionali si definirà anche lo spazio per la contrattazione aziendale o territoriale.

Bisogna invece rafforzare il contratto nazionale per tutelare i salari, pensioni e ridistribuire la ricchezza, spostare il prelievo fiscale su profitti e rendite riducendo la tassazione di salario e pensione, va ripristinato il controllo effettivo dei prezzi e vanno migliorate le prestazioni dei servizi pubblici. Cioè si deve tassare la ricchezza accumulata in questi anni, per superare la frantumazione delle aziende e la precarizzazione, il ricatto del posto di lavoro e l’attacco continuo ai diritti. Il documento Cgil, Cisl, Uil va esattamente nella direzione opposta e indebolisce proprio il principale strumento di forza dei lavoratori: il contratto nazionale. Lo fa sulla base di un’idea : quella che le retribuzioni in questi anni non sarebbero aumentate per troppo contratto nazionale. In realtà è proprio l’esatto contrario . L’accordo del luglio del 1993,la concertazione, già poneva dei vincoli al contratto nazionale, legandolo all’inflazione programmata con il chiaro risultato dell'abbattimento del costo del lavoro e la eliminazione di qualsiasi rapporto diretto fra salario e suo effettivo potere d'acquisto, e produceva in azienda  con il contratto di secondo livello un rapporto tra salario e produttività a svantaggio dei lavoratori.

La Confindustria vuole smantellare il contratto nazionale per poter distribuire soldi in maniera discriminatoria tra le lavoratrici e i lavoratori l’esempio della detassazione degli straordinari ne è l’esempio lampante .

Basta con la concertazione il cui unico risultato sono stati la diminuzione di salari e pensioni, la precarietà di lavoro per milioni di giovani, il peggioramento delle condizioni di lavoro attraverso la diminuzione degli organici e l’aumento dei ritmi.

È necessaria una consultazione tra tutti i lavoratori per definire una piattaforma rivendicativa che apra una vertenza generale per il recupero salariale dell'inflazione (vedi ripristino della scala mobile), abolire la legge 30 e la legge Treu, ci servono forti aumenti salariali uguali per tutti, bisogna batterci per eliminare il supersfruttamento definendo un salario minimo intercategoriale di almeno 1300 euro netti al mese.

Su questo terreno il Partito Comunista dei Lavoratori,  è pronto a costruire, nella chiarezza delle differenti prospettive strategiche,  un'alleanza politico-sociale comune, con le altre forze della sinistra politica e sindacale.

Indipendentemente da ciò noi continueremo comunque la nostra battaglia politica in difesa degli interessi immediati e generali del mondo del lavoro  per lo sviluppo da ora e dal basso dei diritti e del potere della classe lavoratrice.

 

 

 
 
 

Post N° 42

Post n°42 pubblicato il 28 Maggio 2008 da pcltorino
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Un parlamento dei lavoratori per i lavoratori

Le Sinistre fuori dal Parlamento? Costituiamo allora, a partire dalle lotte, un parlamento delle sinistre, a base operaia e popolare, da contrapporre al governo Berlusconi e al «suo» parlamento addomesticato, che sia espressione unificante delle mobilitazioni, luogo pubblico di confronto tra posizioni e proposte diverse oggi presenti nel movimento operaio, e al tempo stesso sede democratica di organizzazione e unificazione dell'iniziativa di massa. Peraltro: se la Lega Nord inventò il Parlamento della Padania come simulazione di un contropotere secessionista, per quale ragione il movimento operaio non potrebbe dar vita a un proprio Parlamento come espressione reale di un'alternativa istituzionale di classe?
Partiamo da un principio di realtà. Due anni di subordinazione clamorosa al governo Prodi da parte degli stati maggiori della sinistra italiana - in una maggioranza di governo che per oltre un anno andava da Mastella a Turigliatto - hanno spinto alcuni milioni di lavoratori all'astensione e altri milioni, a parità di condizione, verso il «voto utile» al Pd contro Berlusconi. Così i dirigenti Arcobaleno non solo hanno regalato l'Italia a Berlusconi dopo aver votato per due anni le stesse politiche di Berlusconi (il peggio del peggio); non solo hanno regalato a Bossi settori operai e popolari facile preda di suggestioni xenofobe proprio perché privati di ogni difesa sociale (e anzi colpiti dal centrosinistra per conto della grande industria e delle banche); ma hanno regalato a industria e banche la totale rappresentanza dell'attuale Parlamento. O vogliamo ignorare la precisa documentazione disponibile circa il regolare finanziamento dei principali partiti di governo, di centrodestra e centrosinistra, da parte dei potentati della finanza, dei grandi petrolieri, dell'industria farmaceutica, ecc.?
Basterebbe citare il libro di Stella «La casta» nell'unica parte omessa (non a caso), dai media.
L'attuale Parlamento, occupato all'80% da Pdl e Pd, spartito cioè tra Berlusconi-Fininvest e Veltroni-Colaninno-Banca Intesa (con un 5% a Casini-Caltagirone) è persino nella sua rappresentanza politica, l'espressione diretta e/o indiretta del grande capitale. Di una piccola minoranza privilegiata che grazie ai propri partiti, distinti ma complementari, riesce a assoggettare a sé la maggioranza della società, nel finto gioco di un'alternanza tra élite che si spaccia spudoratamente per «democrazia». Ecco, l'attuale Parlamento è la più clamorosa confessione della democrazia borghese: di quell'«inganno per i poveri» di cui parlava Lenin un secolo fa e che oggi è persino più ipocrita e volgare di un tempo.
Ma allora perché non contrapporre al governo Berlusconi e all'attuale Parlamento l'embrione di una democrazia vera, di una democrazia dei lavoratori per i lavoratori? La logica che accompagnava la proposta di Gramsci dell' «Antiparlamento» , o la grande tradizione del consiliarismo italiano, non sono proprio oggi spunti preziosi da rielaborare e riattualizzare? Questo è il senso della nostra proposta.
Come Pcl siamo impegnati più che mai nella costruzione del nostro partito, l'unico che non si è compromesso, né in tutto né in parte, col centrosinistra e il suo disastro. Ma non contrapponiamo la costruzione del Pcl all'esigenza di un vasto fronte unico di lotta contro il governo Berlusconi e l'aggressione confindustriale. Un Parlamento popolare eletto direttamente dal popolo della sinistra a partire dalle fabbriche, dai luoghi di lavoro, dal territorio, con delegati permanentemente revocabili e privi di ogni privilegio sociale, con un criterio di rappresentanza integralmente proporzionale tra le diverse posizioni, organizzazioni, partiti, sarebbe una grande espressione democratica di unità e di forza. E al tempo stesso uno straordinario laboratorio di autorganizzazione di massa. Sarebbe la sede pubblica di organizzazione della mobilitazione popolare contro il governo, di controinformazione e denuncia delle sue politiche, di confronto libero e aperto tra i lavoratori, in una grande casa di vetro, sulla costruzione di un'alternativa di società e di potere, fuori da un puro dibattito accademico separato dalle lotte.
Insomma, di fronte al volto corrotto e lontano della politica dominante e del suo parlamentarismo, un Parlamento popolare sotto il controllo dei lavoratori potrebbe divenire il riferimento di vasti settori di classe, un fattore di coinvolgimento progressivo di strati popolari oggi sfiduciati e passivi, di settori popolari antiberlusconiani oggi immobilizzati dal Pd, e persino di strati operai che hanno ripiegato a destra ma che presto saranno sotto i colpi del governo che hanno votato e potranno cercare nuove strade.
Questa proposta ha una sola implicazione, non sufficiente ma necessaria: la prospettiva di un'opposizione radicale, di sistema, al governo delle destre e alle classi dirigenti del paese, fuori da ogni ipotesi di ricomposizione, per l'oggi e per il domani, col Partito democratico di Veltroni e con la vecchia logica dell'alternanza.
Per questo dubitiamo, realisticamente, che la proposta del «Parlamento popolare» possa interessare gli stati maggiori delle sinistre Arcobaleno, tanto più nel momento in cui sono avvitati in una guerra intestina senza ritorno. Ci auguriamo invece possa interessare dal basso tutte le forze e energie disponibili a ricostruire unitariamente, dalle attuali macerie, una prospettiva di riscatto per i lavoratori. Che faccia finalmente piazza pulita di ogni vecchio trasformismo.

 
 
 
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